MIMMO RACCO. ... . ... A MODO MIO. Sul filo della memoria. ... . ... 2019. Edizioni Nosside, Ardore Marina (Reggio Calabria). ... . ... Trascrizione elettronica rivista e resa disponibile dalla Fondazione Ezio Galiano onlus http:\\www.galiano.it ad esclusivo uso dei privi della vista. ... . ... L'AUTORE. ... . ... Domenico Racco, per tutti Mimmo, è una forza della natura compressa in un piccolo corpo snello. Nato nella sua amata Bovalino il primo gennaio 1941 ha girato per le americhe fin da ragazzo, come emigrato clandestino e lavoratore nelle condizioni estreme degli impianti estrattivi nell'America del Sud: Brasile ed Argentina in particolare. Ritornato nella sua terra, si è filosoficamente accontentato di un modesto lavoro in una terra dai più considerata chiusa, restando però un uomo dalla mente sveglia ed aperta, così tanto avida di sapere e conoscenza, da sopperire egregiamente alla modesta istruzione scolastica. Di se stesso dice che al suo diploma di quinta elementare degli anni 50 ha aggiunto la laurea presso l'università della strada, dell'umiltà, dell'ascolto e della tolleranza. Anche oggi, ormai vicinissimo alle 80 candeline è impossibile fare a meno di notare la sua vivace presenza nei saloni in cui si balla il tango argentino che frequenta assiduamente ovunque gli sia possibile, prevalentemente in Sicilia e Calabria. Luoghi ed occasioni in cui ama fotografare, e farsi fotografare, con le donne più belle ed eleganti della sala dopo averle condotte in sfrenate milonghe. ... . ... Prefazione. di Franco Giordano. ... . ... A modo mio di Mimmo Racco è una raccolta di brevi memorie e di fatti, elzeviri, bustine di Minerva, “flashbacks”, ricordi di esperienze di lavoro e di vita vissuta. Ogni singolo racconto, a volte breve e a volte più disteso, aleggia come favola nel cuore e nell’anima dell’autore e si fa espressione generando grande attrazione nel lettore, per giungere al cuore dell’uomo! È, tuttavia, un mondo reale che si presenta ai lettori, quasi fosse leggenda o mito di un’epoca, perché in molti “passi” si evidenziano, secondo il punto di vista dell’autore, le scelte morali, politiche ed economiche di un recente passato, di cui oggi subiamo le conseguenze! . Spesso nei racconti della “platea” del braciere su fatti accaduti e su persone di quel tempo, tra avvenimenti epico-tragici e altri fatti tragicomici, riusciamo a comprendere l’anima antica di Bovalino Macondo e quella poco più recente di Patagonia Macondo. Ne esce un quadro complesso di nostalgica evocazione per quel mondo ormai scomparso e caduto nell’abisso dell’oblio. Con le sue puntualizzazioni Mimmo non procede superficialmente verso il “fanatismo” della “laudatio temporis acti”, caso mai appare luminosa dai suoi brevi racconti una “laudatio laboris acti”, nel senso di un inno al lavoro e al progresso sociale che il lavoro permette! . L’autore vuole, altresì, significare e, talvolta, urlare il riscatto umano, sociale ed economico che si conquista col lavoro. Lo fa con una sintesi pungente ed efficace (spesso con una “chiusa” moraleggiante o sentenziosa), narrando quelle esperienze e quei fatti che furono la realtà oggettiva della sua adolescenza e giovinezza! . È un mondo che, oggi, tutti tendono a dimenticare (e forse lo vogliono), ma quelli che l’hanno vissuto e vedono sparire sempre più quelle certezze e quei valori fondanti, su cui aveva spiccato il volo la vita, sentono un forte senso di ribellione e sono “invasi” da un fremito di amarezza per (come dice spesso l’autore) l’elettroencefalogramma piatto a livello culturale, sociale ed economico della società del nostro tempo o dei “figli della Nutella”! . Nel libro non vi è una prosa serena e di larghe effusioni narrative, ma emerge un ritmo “ficcante” ed efficace, anche se nervoso e prorompente nella determinazione di giudizi, a volte opinabili, sempre però dettati dal cuore e dalla sincerità della sua anima. Io ne ho curato l’edizione ed ho sempre provato a rispettare il più possibile il suo modo di raccontare, la sua esposizione dei fatti e dei ricordi, mantenendo la cronologia che Mimmo ha datato per ogni “pezzo”, senza interferire tramite la voglia (sempre presente nei curatori) di riunire i vari brani per argomenti o per scelta cronologica dei ricordi. L’ho fatto perché nel libro A modo mio (in questo modo) risulta una fantasmagoria di luci splendenti e intermittenti, che brillano e pulsano come i “veri” sentimenti dell’uomo! . Franco Giordano. ... . ... A MODO MIO. ... . ... Mastro Annibale. ... . ... Questa notte ho ricevuto la visita di mastro Annibale che portava una cartolina. Arrivava dal fronte a casa di mia madre nel 1917, da parte del fratello, primogenito di quattro fratelli e due sorelle, in seguitò nascerà la terza sorella. Nella mia adolescenza post seconda guerra, nel 1947, era d’uso passare le serate d’inverno attorno al braciere e d’estate all’aperto, davanti alla porta di casa. D’inverno fra familiari, d’estate con il vicinato. . L’abitazione dei miei nonni era composta da due stanze, una a piano terra, con una piccola cucina, l’altra soprastante alla quale si arrivava tramite una scala di legno, che per il periodo, anni 1910 1920, era una reggia. Attigua, al piano terra, c’era la piccola cucina e al piano rialzato c’era il bagno. In queste due stanze, seppure grandi, abitavano 9 persone. . Mio nonno materno classe 1868, barbiere e cavadenti, vantava l’amicizia con il medico Francesco La Cava, medico condotto di Bovalino fino al 1920. Dai racconti di mia nonna, quel giorno del 1917, erano seduti a ruota fra la loro casa e quella della maestra Massa. Di fronte alla casa di mia nonna c’era il vallone e si accedeva tramite passerella di legno, erano sedute tutte le comari del vicinato, con relativi figli e figlie, in religioso silenzio ascoltavano gli anziani, che tra pettegolezzi e storie, raccontavano il passato e il presente, tramandando la cultura popolare e le tradizioni. . Mia nonna vide il nonno attraversare la passerella, tutto raggiante, con in mano una cartolina postale, si alzò ed entrò in casa. Com’era d’uso all’epoca, c’era grande sobrietà nei rapporti personali e interpersonali; infatti scese un grande silenzio fra i presenti. I miei nonni entrarono in casa, mentre i figli rimasero fuori con i vicini, in attesa di conoscere di cosa trattasse la cartolina. . La cartolina postale era stata spedita da Venezia a firma di mio zio Peppino: «Cari genitori io sto bene, come spero Voi tutti. Questa notte è passato da queste parti mastro Annibale». Poi le parole di circostanza quali saluti e abbracci. Mia nonna si mise a piangere non di gioia ma pensando che il figlio fosse impazzito: che nesso aveva mastro Annibale, con il fronte? Mio nonno aveva la cartolina in una mano e con l’altra teneva la fronte pensando, mentre i bambini sbirciavano attraverso la porta socchiusa. I vicini in silenzio ritornarono alle loro case e lì per ore regnò il silenzio assoluto. . La notizia della cartolina fece il giro del paese, tutti volevano sapere. In realtà, di solito, dal fronte arrivavano notizie tragiche di morti e di feriti. Intanto cominciarono ad arrivare i parenti e i compari e in gruppo “smorfiarono” la cartolina. Chi era mastro Annibale? . Era il fuochista che costruiva i fuochi artificiali a Bovalino Superiore, che usava nelle feste di paese. Mio Zio non poteva scrivere che avevano bombardato Venezia, la censura avrebbe sequestrato la cartolina, perché contraria alla propaganda militare, dell’invincibile esercito. Commentare la cartolina era pericoloso, il reato era di disfattismo. Così mia nonna tornò a sorridere e tutti di nuovo fuori seduti a ruota, parlando d’altro. ... . ... Bengasino. ... . ... Era l’alba di un giorno degli anni intorno al 1930. Un piccolo fardello fu appoggiato delicatamente alla ruota del brefotrofio, dalle mani tremanti di una giovane donna. Con una mano prendeva la fune attaccata alla campanella, col dorso dell’altra si asciugava le lacrime. Il fattore sul calesse le ordinava di fare presto; lei tirò la fune e urlando di dolore salì sul calesse. Erano tempi di fame e di miseria sociale, a volte nel brefotrofio arrivavano neonati che non erano frutto di donne ingannate, ma figli di famiglie povere e numerose. . La direzione del brefotrofio lo registrò con il nome di Bengasino, figlio di madre e padre sconosciuti. Nel registro allegò una medaglietta di latta, raffigurante un santo, una data e delle lettere incomprensibili. La medaglia era stata trovata impigliata in una delle asciugamani che avvolgevano il neonato. . Passarono gli anni e il bambino cresceva forte nel fisico e nella mente, avrebbe meritato di studiare. Dopo la licenza elementare, iniziò a imparare il mestiere di falegname e con l’aiuto della direttrice e di qualche insegnante, che avevano notato la spiccata intelligenza, continuò a studio ma senza alcuna possibilità di dare esami nella scuola. Lo vietava la situazione di quell’istituto. . Durante un bombardamento, nel fuggi fuggi generale, Bengasino entrò nell’archivio dell’istituto e riuscì a trovare la busta contenente sommarie informazioni sul suo arrivo e un asciugamano di lino, con dentro una medaglietta. Rimise tutto a posto trattenendo la medaglietta e l’asciugamano che aveva ricamate delle iniziali di persone e di un paese. Bengasino aveva un tormento: conoscere i genitori! . Quando uscì dall’orfanotrofio, andò alla ricerca del paese, di cui c’erano le iniziali sulla medaglia. Camminò diversi giorni a piedi e a passaggi su carri trainati da buoi, mangiando quanto trovava per strada o dalle caritatevoli persone che non mancano mai. Ai piedi delle montagne, visitò diversi paesi, senza esito. . Quando ormai aveva perso le speranze, nell’ultimo paese visitato, si accorse che molte donne lo guardavano con curiosità. Non sapeva cosa e come chiedere, finché posò gli occhi su un portone. In alto le iniziali che aveva letto sull’asciugamano, in basso, sul muro una targa di marmo, “dottore in medicina...”. Bussò ripetutamente e finalmente il portone si aprì, una giovane donna, vestita da vecchia, senza guardarlo gli dice che il medico è fuori casa e che sarebbe rientrato la sera. . Bengasino fu attratto dalla sontuosa scala e non si accorse che la porta stava per chiudersi. Fu in quel momento che la donna alzò lo sguardo e rimase di pietra. Dall’alto della scala una voce di donna chiede alla serva: «Annuzza chi è». Annuzza rimane scossa, guardò quel ragazzo, si mise le mani sulla faccia e si sedette sui gradini della scala. . Bengasino la guarda senza capire. Intanto dalle scale scende una signora elegante, e con aria minacciosa le dice: «che fai seduta, chi è questo ragazzo? Cosa vuole? Mio marito non c’è». Bengasino si era avvicinato ad Annuzza e le chiedeva: «che vi succede vi sentite male?». Lei non rispose aveva gli occhi fissi nel vuoto. La signora uscì sulla porta gridando e chiedendo aiuto: «chiamate mio marito, che sta giocando a carte nel circolo». Poi rivolta al ragazzo, lo guarda con disprezzo e gli dice: «che le hai fatto, chi sei, cosa vuoi?». . Bengasino è confuso. Arriva il medico seguito da molte persone, mentre fuori uomini e donne del vicinato, chiedevano cosa fosse successo. Il medico si avvicina ad Annuzza, le sente il polso, si gira verso la moglie e dice: «è niente, fate una tazza di camomilla», poi accorgendosi di Bengasino, lo guarda, e rimane perplesso un paio di minuti. Quel ragazzo sfrontato che lo guarda negli occhi, lo intimorisce. Si gira verso gli amici e quasi balbettando disse: «grazie, potete andare via, non abbiamo bisogno di niente». . Escono tutti, il medico chiude la porta. La moglie sta per salire le scale. Bengasino senza sapere il perché, prende dalla sacca, che aveva a tracolla, l’asciugamano sulla quale c’erano le iniziali e dalla tasca la medaglietta. A quella vista, Annuzza esclama: «padrone questo è vostro figlio». . Un silenzio di tomba, per alcuni minuti. Poi il medico tuona: «serva come ti permetti». La moglie anche se abbastanza provata dagli eventi, con voce calma e decisa da matriarca, ordina al marito di salire e ad Annuzza di prendersi cura del ragazzo. Nel pomeriggio, avrebbero deciso il da fare. I due rimasero soli nell’androne. Il ragazzo guardava Annuzza, l’aveva cercata per anni, aveva sognato a occhi aperti quel momento, era confuso. Lei evitava di guardarlo, e con voce tremante gli disse: «vieni ti dò qualcosa da mangiare». . Bengasino a quelle parole ebbe un attimo di collera: «non mangio da diversi giorni, ma da quello che sento e vedo sono sazio, vado via». Annuzza alzò lo sguardo, e incrociò gli occhi del ragazzo, lui freddo e glaciale, lei singhiozzando disse: «perdonami, io non mi perdono. Un giorno quando sarai più grande, se il Signore mi aiuterà ti racconterò la verità». . Bengasino si commosse, prese le mani della donna con delicatezza, sentì che erano ruvide piene di calli, mani che avevano lavorato, ma lui le accarezzava. Non riusciva a capire se Annuzza fosse sua madre. Era giovane, poco più alta di lui, il viso scarno ma bello anche se triste, ma al ragazzo procurava delle sensazioni mai avute. Lei gli chiese: «come ti chiami» e lui, con voce tremante e commossa, rispose: «Bengasino, così mi hanno chiamato all’istituto». . Qualcuno bussò alla porta, Annuzza si avvicinò e chiese che cosa volessero. Dall’altra parte una voce di donna chiedeva a che ora avrebbe trovato il medico nello studio. Annuzza le rispose: «se non succede niente, alle tre del pomeriggio il medico sarà nello studio». E si scusò per non aver aperto la porta. . Quella breve conversazione e le guance della donna bagnate dalle lacrime, intenerirono Bengasino e l’abbracciò. Il lungo e tenero abbraccio fu interrotto, dalla voce altera della padrona: «fra mezzora il padrone vuole pranzare e dopo voglio sapere chi è quel ragazzo, ha mangiato?». «Non so se ha fame», rispose Annuzza. . Annuzza va in cucina e incomincia a cucinare. La cucina era al piano terreno, vicino c’era una stanza adibita a ripostiglio dalla quale si accedeva alla cantina, un piccolo bagno e una stanza media con una piccola finestra sbarrata da una grata in ferro dove lei dormiva. Tutto questo entrando dal portone a sinistra, mentre a destra si accedeva all’ambulatorio del medico. Uno stanzone enorme, con scaffali in noce pieni di libri e una diecina di sedie, un grande candelabro al centro e alcuni quadri fra uno scaffale e l’altro. . Al primo piano, un grande salone con caminetto, riccamente arredato; una stanza da pranzo per le grandi occasioni e le stanze da letto collegate da un lungo corridoio. In cucina, una intera parete era occupata da una cucina a legna e a carbone e un piccolo forno a legna. Nelle altre pareti c’erano scaffali e credenze; al centro un grande tavolo di legno massiccio e tre sedie. Bengasino si guardava attorno, era grande quanto il refettorio dell’istituto dove mangiavano 60 ragazzi. . Annuzza, mise una tovaglia sull’angolo del tavolo, invitò Bengasino a sedere, e prese pane, formaggio, salsiccia e olive. Sul fuoco in una pentola qualcosa bolliva. Annuzza la scoperchiò e con un mestolo di legno tastava i tre polli. Guardando il ragazzo gli disse: «ti prego mangia quello che vuoi». Lui guardava quel ben di Dio, ma un nodo alla gola gli impediva di mangiare, prese un bicchiere d’acqua, bevve un sorso e disse: «adesso mangio, ma voglio sapere... non lo dimenticate!» . Lei abbozzò un sorriso amaro, aprì la credenza, prese una grattugia, del formaggio e due tazze, una grande e una piccola, le riempì di brodo fumante e vi grattugiò del formaggio. La tazza grande la mise davanti al ragazzo, raccomandandolo di lasciarlo raffreddare un po’. Dalla credenza prese dei biscotti di pane e sedette. . Annuzza osservava quel bel ragazzo, non riusciva a convincersi che fosse suo figlio. Lo guardava con tanta tenerezza, il ragazzo si sentiva a disagio, nessuna donna lo aveva mai osservato con tanta dolcezza! . Bengasino, prese la tazza, ma scottava, Annuzza gli disse di aspettare un po’, pigliò il pane e affettò anche della salsiccia. Bengasino incominciò a mangiare, la donna gli versò del vino, e aggiunse: «questo è del padrone; sai i padroni, mangiano solo il pollo, perché secondo loro il brodo fa male. Io trovo che tutta la sostanza è nel brodo e nel biscotto di pane tostato». . Annuzza, entrava e usciva per servire i padroni. Essi vivevano da soli, perché i due figli erano in collegio in città. A Bengasino venne l’appetito e incominciò a mangiare. . Annuzza, servì il pranzo ai padroni. Poi si sedette e guardava compiaciuta Bengasino che onorava la tavola, gli versò un altro po’ di vino e gli disse: «bevi il padrone che è medico dice che fa bene». Il brodo che doveva bere lei si era raffreddato e lo mise a riscaldare. . In quel momento, si aprì la porta ed entrò il padrone, dietro c’era la moglie, ma dalla posizione di Annuzza non si vedeva. Bengasino alzò gli occhi e guardò l’uomo fisso negli occhi; i due senza sapere la ragione si emozionarono, c’era qualcosa che li attraeva. . Con la mano sulla maniglia il medico disse ad Annuzza: «vado a riposare, se non è necessario oggi non apro lo studio». Guardò di nuovo il ragazzo ed esclamò: «Annuzza si può sapere chi è?». Annuzza era sempre di spalle, si girò, alzò gli occhi verso il soffitto, fece un lungo e interminabile sospiro e con voce decisa rispose: «padrone è nostro figlio!». . Passarono dei minuti, poi un urlo ed entrò la padrona: «come ti permetti, lurida serva»; si mise le mani sulla faccia e in preda a una crisi nervosa ritornò tremando nella stanza da pranzo. L’uomo prese una sedia, si sedette, disse: «ti rendi conto di cosa stai dicendo?». Lei rispose: «vi giuro sulla buonanima di mio padre e che la Vergine della Montagna mi faccia morire adesso, è la verità». . Bengasino rimase confuso, quasi estraneo a quanto sentiva. Poco dopo, il padrone si alzò e andò dalla moglie. Dalla stanza provenivano dei singhiozzi di una donna. Il padrone affacciandosi sulla porta disse: «Annuzza porta un po’ d’acqua». Da una giara Annuzza riempì d’acqua una caraffa di creta, prese due bicchieri ed entrò nella stanza attigua, con il piede chiuse la porta, che rimase leggermente socchiusa. . Bengasino sentiva tutto quello che dicevano, si avvicinò alla porta e si sedette per terra. Annuzza era inginocchiata vicino alla padrona che le veniva di spalle come il padrone. Con voce tremante diceva: «padrona, voi mi avete voluto bene e io pure ho voluto bene a voi, ai vostri figli e a tutta la vostra famiglia. Ve lo giuro sulla Madonna della Montagna e sull’anima di mio padre, ho portato questo peso per venti anni, Dio sa quanto ho pianto». . «In nome di Dio - esclamò il padrone - la verità!». «Ricordate quando vostro padre, il podestà, dette la festa per la vostra laurea? Quando per molto tempo vi vedevo due volte l’anno, eravate per me come un principe, ma io ero la serva. Quella notte stanca e sfinita dal lavoro, ero da poco andata a letto e sentii vostra madre che mi chiamava; mi affacciai e dall’alto della scala, mi disse: “prepara un bicchiere di acqua e bicarbonato e portalo al dottore, vado a dormire non sto più in piedi”. . In camera mia usavo la candela mentre in casa si usava il lume a petrolio, salii in camicia da notte, anche se sentivo freddo, e aprii la porta piano per non svegliarvi, la porta rimase aperta. Mi avvicinai al comodino e mentre appoggiavo il bicchiere vi siete girato e vidi che eravate nudo. Voi dormivate e io rimasi a guardarvi, la candela si spense, nel buio sentii la vostra mano, dietro la schiena e mi sedetti sul letto, da seduta mi trovai sdraiata, provando emozioni e piacere, finché sentii un dolore. . Mi alzai e nel buio, con quella poca luce che filtrava dalla porta aperta, ho visto che vi siete girato su un fianco e dopo un lungo sospiro vi siete rimesso a dormire. . Ritornai in camera mia, mi buttai sul letto, non riuscivo a pensare, né a dormire finché fu giorno e mi accorsi che ero sporca di sangue. Mi lavai, mi vestii e mi misi a lavorare. Era quasi mezzogiorno quando vi incontrai per le scale, voi come al solito mi avete salutato e il giorno dopo siete ripartito. Passò qualche mese e una mattina stavo male e rimettevo. Vostra madre mi disse: “chissà cosa hai mangiato!”». . La padrona continuava a singhiozzare. Qualcuno bussò al portone, Annuzza si alzò, ma il padrone esclamò: «in nome di Dio fermati vado io, non vedi come sei combinata?». . Quando Annuzza si alzò, si girò di faccia e Bengasino vide un volto diverso da quello scorto pochi minuti prima, sembrava una vecchia con i capelli sugli occhi e le lacrime che sgorgavano come una fontana. Provò un grande dolore, voleva alzarsi ma non ne aveva la forza. Intanto il padrone rientrava con un’altra persona, era un vecchio con un grande cappello nero e si appoggiava ad un bastone. . Il vecchio si sedette, Bengasino vide che era un prete, il quale esclamò: «ma è morto qualcuno, che succede?». La padrona si alzò e con una grande dose di veleno esclamò - all’indirizzo di Annuzza: «sciagurata, ripeti al monsignore, ripeti in nome di Dio». . Il prete si alzò appoggiandosi al tavolo e guardando Annuzza disse: «che succede?». Annuzza con voce tremante, rispose: «padre vi ricordate del mio bambino? È qua dietro quella porta!». Il prete si sedette, si tolse gli occhiali dalle lenti spesse e le appoggiò sul tavolo, dopo qualche minuto di silenzio, esclamò: «fatelo entrare, deve sapere la verità!». . Bengasino entrò senza aspettare, la padrona si girò di spalle guardando la parete, il padrone lo guardava con compiacimento e Annuzza sembrava smarrita. Il prete si rimise gli occhiali, squadrò il ragazzo da capo ai piedi, poi lo fissò negli occhi e disse: «spero di non sbagliare. Ragazzo siedi e ascoltatemi tutti: molti anni fa, una mattina arrivò in chiesa il padre del dottore, era rosso in viso e agitato, lo feci sedere, gli presi un bicchiere d’acqua e mi sedetti vicino. Lui non parlava, si mise a piangere, era un vecchio ufficiale decorato della prima guerra mondiale, era podestà, riverito e temuto, gli chiesi cosa fosse successo. . Lui mi guardò e rispose: “mia moglie mi ha detto che Annuzza è incinta. Che vergogna in casa mia! Suo padre in guerra era mio attendente, quando si è saputo della sua morte, promisi alla madre di tenerla come una figlia. Annuzza non ha voluto dire a mia moglie chi è il padre, aiutateci! Cosa devo fare, nella posizione in cui mi trovo? Sapete è venuto il sensale e fra un paio di mesi dobbiamo fare il compromesso del fidanzamento di mio figlio. Mia moglie è come una pazza”. . Venni in questa casa e proprio in questa stanza, Annuzza, nel segreto della confessione, mi raccontò tutto. Lei nella sua ingenuità non si era resa conto di quello che successe quella notte. . Quando glielo spiegai e non fu facile, l’unica sua preoccupazione era che i padroni non dovevano sapere, non meritavano tanto dolore, l’avevano trattata come una figlia, gliel’ho dovuto promettere sotto giuramento. Nei giorni successivi si era pensato di sposarla con qualche contadino delle campagne, creandole una piccola dote ma lei disse caparbiamente di no. Negli ultimi mesi gravidanza quando non si poteva nascondere la pancia, si trasferì in campagna da una famiglia che dietro compenso, la ospitò e l’aiutò a partorire. Che Dio mi perdoni se ho sbagliato e se sto sbagliando, questa è la verità!». . Bengasino, si avviccinò ad Annuzza, si guardarono e si abbracciarono, bevendosi le lacrime, il medico si alzò e li abbracciò. La padrona avvicinandosi esternò: «Annuzza perdonami». . Bengasino si staccò dall’abbraccio e fece sapere che fra qualche mese doveva partire per il servizio militare, al ritorno sarebbe venuto a trovarli. Il medico con la voce rotta dall’emozione, comunicò alla moglie: «finché non gli arriva la cartolina rimane qua, tu che dici?». La padrona acconsentì, Annuzza ringraziò lei e anche il monsignore. Bengasino commosso: «grazie... siete brava gente, sono felice se mi riconoscete e mi date un cognome, adesso ritorno all’istituto». . Bengasino salutò, abbracciando e ringraziando tutti, anche il prete che si era commosso e diceva: «con tanta dignità andrai lontano». Da militare per corrispondenza fu perfezionato l’atto di legittimazione. Poi qualche cartolina di saluti. Quando si congedò scrisse una lunga lettera alla madre e una al padre. Scriveva dall’Australia, stava bene, era fidanzato, ringraziava e un giorno sarebbe ritornato a salutarli. Dopo quelle lettere, non si ebbero più notizie di lui. ... . ... Questa per la buon’anima. ... . ... Mico Racco, all’anagrafe Bruno Racco, mio nonno, è nato a Bovalino nel 1875, anche suo nonno si chiamava Mico (Domenico). Per tradizione il primo figlio portava il nome del nonno paterno ed è per questa tradizione che io mi chiamo Domenico. . Mio nonno morì nel 1942, mio padre era militare richiamato, io avevo due anni ma non lo ricordo. C’era la fame della guerra ed è morto cadendo dalle scale dentro casa, perché in stato di ebbrezza. Giovanissimo, ai primi del Novecento, emigrò negli USA, clandestino come era d’uso, per ritornare nel 1909 richiamato dai lutti causa del terremoto del 1908. . Nel 1910 sposò mia nonna Serafina, figlia di Michele Surace, ferito per errore sull’Aspromonte da Peppe Musolino e da lui trasportato sulle spalle fino a Bovalino. Mia nonna era la terza figlia della prima moglie, morta nel 1895, la matrigna si era già liberata delle altre due sorelle, mandandole a servizio al Cairo in Egitto da una famiglia inglese. Dopo un anno di matrimonio nacque il primo figlio, che morì dopo qualche anno. Poi nacque mio zio nel 1913 e mio padre 1914. . Erano tempi di fame, così con due figli, partì di nuovo per Stati Uniti, per ritornare nel 1918. Rimase a Bovalino fino al 1922 e nacque mia zia. La mancanza di lavoro e di prospettive lo costrinsero a partire per l’Argentina, sempre clandestino, dove rimase diversi anni. So che ha fatto tutti i lavori possibili, nelle miniere, nei campi e nelle fabbriche. Ogni volta che ritornava si consumava i risparmi e poi ripartiva. . Mia nonna in casa aveva il forno e panificava, ma molti non la pagavano ed era sempre in perdita. Mi piace ricordare un episodio che raccontava mia nonna. In quel periodo di fame e carestia, lei teneva quasi cinquant’anni, chi ritornava dalle americhe, finché disponeva di qualche soldo veniva riverito e spennato. I luoghi delle rapine erano il circolo dei nobili e la locanda. . Perché rapine? Nel circolo i blasonati si mettevano d’accordo fra di loro e, giocando a poker, spennavano gli ignari, e quando rimanevano al verde non venivano più ammessi. Nella locanda gli ignari venivano ubriacati e spennati dalla sapiente padrona, forse nel vino propinava qualche pozione. . Nonno Mico che di viaggi aveva fatto sette in venticinque anni e aveva subito diverse rapine, nel 1927, come di solito entrò nella locanda assieme a dei suoi parenti, fra cui un ragazzo di sedici anni. La titolare subito si mise a riempire i bicchieri di vino e tutti i presenti, compreso il fratello della padrona del locale a bere, tanto pagava compare Mico che era ritornato dall’America. . Mio nonno che era prevenuto non beveva, si portava il bicchiere alle labbra facendo finta di sorseggiare. Alla fine gli unici a non essere ubriachi erano lui, il ragazzino e il fratello della padrona. La padrona vedendo vanificato il suo progetto, si dichiarò offesa nel vedere quel risultato, forse il suo meraviglioso vino era aceto? Il fratello della locandiera spalleggiato dai compari ubriaconi e sbronzi lo circondarono minacciosi, a difesa della padrona. . Mio nonno che non era ubriaco, spinse due persone e scappò nella piazza, mentre il fratello della padrona dalla finestra si mise a gridare: «Mico Racco ha molestato mia sorella». La padrona si portò sulla porta, si strappò la saia e invocava aiuto, tutto sotto gli occhi del ragazzino. . Arrivano i carabinieri e arrestano mio nonno, a nulla valse la testimonianza del ragazzo, anzi di fronte ai carabinieri il fratello della locandiera gli da due schiaffi e lo dileggia. Dopo tre giorni di carcere mandamentale il pretore lo assolve per non avere commesso il fatto. . Nel 1946, alla festa della Madonnina, quel ragazzino di nome Peppino era diventato un uomo forte, grande lavoratore, tutto famiglia e lavoro. La festa della Madonnina di Lourdes era una festa religiosa, che si svolgeva, nel mese di maggio alla periferia sud del paese. Questa festa era l’occasione degli incontri dei cosiddetti uomini d’onore del comprensorio, i quali fra cena e danze si scambiavano opinioni e accordi. . Il fratello della padrona della locanda, lei era morta, durante la miseria della guerra si era ritagliato un posto di onorabilità. Quella sera alla festa che culminava con il ballo della tarantella, il ddrittu dirigeva il ballo (mastro di ballo). Il nostro Peppino, che non faceva parte di quel tipo di società, si trovava presente come tutte le persone del paese ad assistere, alle spacconate di quei personaggi. . I personaggi e il nostro mastro di ballo erano armati di coltelli portati in tasca e di bastoni di junco, simbolo di comando. Al nostro Peppino, ha dato fastidio vedere il mastro di ballo, che per lui era un vigliacco e un verme, nel ricordo del fatto avvenuto quando era ragazzo, insieme a Mico: decise che doveva punirlo. Così comprò da un vaccaro un nerbo, di quelli che usavano per le bestie, se lo nascose dentro i pantaloni e si chiamò il posto per ballare, lui che non aveva mai ballato. . Il mastro di ballo, risentito e offeso alzò il bastone e colpì Peppino. Peppino assorbi la bastonata ma nello stesso tempo tirò il nerbo. Il mastro di ballo mise la mano in tasca, prese il coltello a molla, ma non fece in tempo ad aprirlo perché Peppino lo riempi di nerbate. . La gente scappò via, rimasero intontiti i compari ddritti, increduli. Peppino capì che doveva scappare, perché i ddritti avevano pistole e coltelli, oltre i bastoni. Si era allontanato di qualche metro, poi ritornò sui suoi passi, guardò a terra sanguinante il mastro di ballo e gli diede un’altra nerbata, dicendo: «questa è per la buon’anima del cugino Mico». Saltò il muro della ferrovia e con una delle barche che erano sulla spiaggia si dileguò per mare! ... . ... Francesco. ... . ... Si era laureato. Aveva vissuto il periodo universitario dividendo le spese e il tempo libero con Bruno. Francesco proveniva da un paesetto sperduto e ha potuto studiare perché il padre era emigrato dopo la prima guerra mondiale. La famiglia di Francesco era composta dalla madre e da una sorella; il padre era sempre lontano, ma manteneva economicamente la famiglia. Allora si era benestanti con le rimesse dei padri emigrati, però solo loro sapevano i sacrifici, le angherie e i torti subiti per sostenere la famiglia in Italia. . La lontananza fisica, spesso, affievoliva gli affetti. Bruno, era una persona intelligente, intraprendente e anche acculturato. Bruno si innamorò della sorella di Francesco, anche per la dote che portava: un po’ di proprietà agricola, la rimessa del padre e il fratello dottore. Grande soddisfazione in casa di Bruno, formata da molte sorelle. . Quando si passò alla data delle nozze, i genitori di Bruno pretesero il “dupro” con una delle sorelle di Bruno, cioè Francesco doveva sposare la sorella maggiore del futuro cognato. Francesco accettò e una sera si recò a casa di Bruno per conoscere quella che doveva divenire sua moglie. In casa era atteso, la tavola imbandita, con la tovaglia bianca ricamata dalla promessa sposa. . Dopo i convenevoli, sedettero a tavola, Francesco era nervoso, la ragazza non era di suo gradimento. Esternò a Bruno il suo pensiero, l’allegria fece posto al gelo, mentre le otto sorelle di Bruno erano sbigottite. I genitori senza mezzi termini dissero che il matrimonio era annullato. All’epoca prima doveva sposare la donna più grande di età, le altre a seguire. Francesco voleva molto bene a sua sorella, la quale si era innamorata di Bruno, non solo perché era bello e elegante, ma perché sposandosi sarebbe andata a vivere a Napoli, città dove Bruno viveva. . Mentre nell’imbarazzo generale si salutavano, apparve la più piccola delle sorelle, circa sedici anni, molto bella. La promessa ne aveva trenta e Francesco circa quaranta, fu l’attimo fatale che rovinò la vita di Francesco! . Fra lo stupore dei presenti, Francesco rivolgendosi al capo famiglia, disse: «i matrimoni si faranno, mi sposo Giannina», così si chiamava la più piccola! La notizia fece il giro di Bovalino, fra commenti e pettegolezzi non si parlava d’altro in quei giorni e non mancavano le frecciate maligne alla sorella ripudiata. Bruno si sposò e andarono a vivere a Napoli, mentre Francesco rimase a Bovalino. . Francesco la mattina si alzava di buon’ora e prestava le cure, all’epoca i dottori si recavano presso il domicilio dei pazienti e ritornavano a pomeriggio inoltrato. Le frequentazioni di Francesco e Giannina erano limitate a qualche altro dottore del paese. Francesco era colto dalla gelosia, che lo divorava. Giannina con il matrimonio era esplosa in tutta la sua femminilità e avvenenza e questo portava Francesco alla esasperazione. Non erano un mistero per i parenti e amici le liti di gelosia, ma nessuno era a conoscenza delle lettere anonime, che alimentavano il sospetto. . I dettagli delle lettere erano molto precisi e non potevano provenire da persone estranee alla famiglia. La tragedia si consumò, quando la sorella di Francesco cercò di mettere la pace! Era un pomeriggio come tanti altri, Francesco ritornò dalle campagne, stanco e avvilito. . In casa la tavola era pronta per il pranzo, trovò la sorella la quale si mise a supplicarlo dicendo che Giannina era una brava figliuola, non gli aveva mai fatto torto. Francesco, in un gesto d’ira, prese un coltello e si mise a gridare «l’ammazzo», la sorella si portò fra i due per proteggere la cognata, Francesco evidentemente accecato dall’ira non si rese conto e l’accoltellò a morte! ... . ... Che i giovani sappiano. ... . ... Il 29 di Dicembre del 1943, a Bovalino, in via Mario e Luigi Spagnolo, che era la via che univa l’allora campo sportivo adiacente il municipio alla via Dromo, in una stanza presa in affitto, si teneva l’assemblea del Partito Socialista Italiano. Ordine del giorno: costituzione ed elezione del comitato direttivo e del segretario politico della sezione di Bovalino. . I convenuti erano quasi tutti artigiani, commercianti e qualche intellettuale. Il comitato direttivo risultò composto da Pasquale Badolato, vecchio socialista pre fascismo, come Fortunato Maisano, i fratelli Giuseppe e Michele Racco, Rosario Procopio e qualche altro componente che mi sfugge. Segretario politico fu eletto Fortunato Maisano. . Era un periodo storico, paragonabile al far west: si affacciavano sulla scena i nuovi ricchi nati dalle macerie della guerra, degli intrallazzi e dal mercato nero. I vecchi dirigenti fascisti, con gli accoliti burocrati, mantenevano il bastone del comando e si accompagnavano con le istituzioni ecclesiastiche clerico fasciste. . C’erano pure i monarchici e i fascisti convinti, ma quelli non contavano niente, avevano peso i “don” vecchi e nuovi, molti “don” vecchi si nascondevano in attesa di capire il vento da che parte tirasse. I nuovi erano indaffarati con il mercato nero. Mai toccare gli interessi dei “don”, sarebbe stato come toccare l’alta tensione! . Come in tutti i processi di transizione sociale e politica il caos era sovrano, ma i baroni erano sempre baroni e facevano affari con i nuovi baroni, si servivano dei fattori, delle istituzioni amministrative, militari e della criminalità. Siamo a tre mesi dall’armistizio e Bovalino, con il passaggio delle truppe d’occupazione “alleate” vive un periodo di transizione. . Le autorità fasciste scomparse sulla carta, di fatto hanno cambiato il colore della camicia. L’arrivo dei primi militari alleati, al ponte del Buonamico, lato sud di Bovalino, (il ponte era stato danneggiato dai tedeschi) è stato salutato, con riverente benvenuto da un ex podestà. Con il loro passaggio gli alleati hanno nominato commissario straordinario di Bovalino l’avvocato Gaetano Ruffo, antifascista, perseguitato per tutto il ventennio ma anche massone con il rango di 33. . L’avvocato Ruffo era anziano e ammalato, accettò l’incarico per pochi mesi, a lui subentrò il medico Francesco Ceravolo, anche egli antifascista, era il famoso sindaco de “I fatti di Casignana”. I Socialisti di Bovalino della prima ora erano: Fortunato Maisano, Pasquale Badolato, Gaetano Ruffo (altro cugino dell’avvocato), Giuseppe Guerrisi, Carmelo Ceravolo, Domenico Pedullà, Ferdinando Fonti, Giuseppe Alleruzzi, Vincenzo Affronte. Queste persone le ricordo bene, perché in casa si parlava tanto, erano artigiani e qualche commerciante, si sono affacciati anche degli intellettuali, molti sono entrati dalla porta e sono subito usciti dalla finestra. . I socialisti e i comunisti avevano creato il Fronte Popolare e nella sezione era stata istituita la camera del lavoro. Si è tanto scritto della guerra di Liberazione, ma poco si conosce la realtà che ha attraversato Bovalino, come centinaia di paesi del Sud! Io posso raccontare quello che ho vissuto, ricordando mio padre Michele Racco, classe 1914, e suo fratello Giuseppe, classe 1911, il primo calzolaio, il secondo falegname. . Fra i parenti di mio padre, tutti poveri, c’era il ricco ingegnere Giuseppe Primerano della “Primerano SpA”, che una volta ebbe a dire a mio padre: «Michele noi siamo parenti, perché mi fai la guerra?». Da parte di mia madre molti parenti poveri come noi, dall’altro la famiglia ricca dei parenti commercianti. Quante volte hanno fatto piangere mia madre, i parenti ricchi. Il ritornello era «tuo marito l’arrestano, stanno arrestando tutti i socialisti e i comunisti». . Alla fine mia madre indispettita, rispose per le rime: « mio marito, lavora dalla mattina alla sera, non ha mai rubato è povero di soldi ma è ricco di dignità» e li ha zittiti. Ricordo quando dicevano in giro che i socialcomunisti mangiavano i bambini con il riso. Parole stupide, certi discorsi in quel momento in cui larghi strati di popolazione non ricevevano notizie di congiunti dispersi in Russia, poi si saprà che erano vittime dei tedeschi, era tortura psicologica. . In questo clima di tensione socio politica mio padre e i suoi compagni artigiani erano un tenace baluardo contro l’arrogante tirannia dei gattopardi locali, i vari conti di Lampedusa avevano timore di questo drappello di cittadini che non erano in vendita. . Arrivò il referendum del 1946 e le elezioni politiche del 1948, i clerico fascisti conquistaronò il potere e iniziarono le vendette! All’epoca mio padre aveva la bottega di calzolaio e con lui lavoravano da calzolai dieci giovani apprendisti, ancora non c’era l’industria calzaturiera e il lavoro era abbondante. . Per comprare cuoio e pelli, mio padre aveva contratto un fido con la banca locale di 500 mila lire, fido avallato dal cugino Primerano. Pochi giorni dopo le elezioni, il direttore della banca chiamò mio padre e queste furono le sue parole: «Michele mi dispiace domani dovete portarmi 600 mila lire perché non avete più l’avallo». . Mio padre fu costretto a svendere tutta la merce e attrezzature per rientrare con la banca e emigrare a Torino. Mio zio Giuseppe emigrò a Omegna, era un buon falegname, ma dovette lavorare alla Cobianchi da operaio, lì è diventato comunista. Le condizioni climatiche e di lavoro lo ammalarono e morì! ... . ... I nuovi ricchi. ... . ... Finita la seconda guerra mondiale c’era una grande confusione, i blasonati si nascondevano dietro la foglia di fico, i nuovi ricchi si facevano notare per l’insipienza e la mancanza totale di cultura e modestia. Ricordo quanto si rideva su dei colloqui fra persone che, a loro modo, stroppiando le parole, nella loro ignoranza facevano sfoggio di grandezza derivata dal nuovo status sociale acquisito con il mercato nero e con altri intrallazzi. . C’erano i professionisti e i burocrati, attivi nell’esercito dei carristi lestofanti. I blasonati erano il terrore degli artigiani, perché in virtù del sangue blu non pagavano, in compenso facevano la comunione e si confessavano tutti i giorni per guadagnarsi il biglietto per il Paradiso. . Nei paesi rivieraschi, in quel periodo, si pativa la fame. La stazione ferroviaria di Bovalino era punto di arrivo e distribuzione della farina per tutto il comprensorio. Il pane veniva distribuito con la tessera; molto spesso la popolazione rimaneva senza, mentre chi aveva i soldi lo trovava sottobanco. Con il traffico di quella farina, alcune persone sono diventate ricche. . Così si svolgeva il traffico: si caricava un camion, destinazione uno dei tanti paesi interni pre aspromontani e per strada, il percorso era accidentato, mezzo carico si vendeva in nero a prezzo maggiorato. Alla consegna complici le autorità ben corrotte, dichiaravano che i sacchi erano caduti per strada. . Si mormorava che con il diretto Palermo Bari, alle quattro del mattino, arrivavano a Bovalino i falsari di Catania, con valigette piene di soldi falsi, amlire e altre monete, naturalmente c’erano i compratori, ciò avveniva due o tre volte la settimana. . Si diceva pure che arrivavano quintali di ghianda e alcuni fornai era obbligati a tostarle gratis, in cambio di qualche chilo di farina. A cosa serviva la ghianda tostata? Veniva spacciata per surrogato di caffè e venduta alle truppe alleate, composte da militari nordafricani, di cui alcuni tanto male hanno fatto alle popolazioni, un esempio è il film La ciociara. . C’erano famiglie benestanti dei paesi interni che si facevano “prescrivere” dai medici, la necessità dei bagni di mare. Nel nostro paese si affittavano le abitazioni d’estate, nei mesi di luglio e agosto. Dal passaggio a livello ferroviario lato Sud fino al passaggio a livello Nord esistevano le baracche di legno dell’élite di Bovalino che ospitavano quelli dei paesi interni, notabili come loro. . Vi era pure in legno il Lido Azzurro simbolo di questa “élite”, che divideva due mondi. Devo aggiungere che sull’arenile (alle sbarre, lato Sud) vi era pure un fabbricato detto Canceglia che funzionava da mercato coperto, ciò garantiva col lavoro un guadagno con la vendita di alimenti. . Sulla spiaggia stazionavano decine di barche, la pesca professionale era molto attiva. Attorno alle barche, al riparo da occhi indiscreti, si rifugiavano queste famiglie dei paesi interni mentre gli anziani, per i loro dolori reumatici, facevano le sabbiature. Tanti di loro arrivavano tutti i giorni con l’autobus e addirittura a piedi. . Facevano il bagno le popolane. Era un film tutti i giorni! Le mamme accompagnavano le figlie, signorine o giovani signore, fin dentro l’acqua coprendole con delle lenzuola di lino bianco. Per costume da bagno usavano immacolate sottovesti e, siccome non sapevano nuotare, rimanevano in piedi sul bagnasciuga, e con lo sciabordìo delle onde, inconsciamente si mostravano in tutta la loro nudità. . Gli adolescenti e non solo loro, si nascondevano a ridosso delle barche e sbirciavano verso il bagnasciuga. Quando qualcuno veniva scoperto erano urla di maledizioni e lanci di pietre. Uno spettacolo tragicomico! Si raccontava che un giorno, due donne di un paese interno, passando vicino ad un’abitazione nel centro di Bovalino, furono attratte da una conversazione. . Incuriosite sbirciarono all’interno dove non c’era nessuno, le voci provenivano da una cassa di legno su un tavolo, era una radio. Una delle due si mise a gridare, era impaurita e diceva: «è ’na magheria è ’u bruttu bestia», e scapparono. Questa era la società di allora: molta ignoranza, e tanti furbi che la facevano da padroni. ... . ... Bovalino nel tempo. ... . ... Finita la seconda guerra mondiale, Bovalino paese che allora aveva cinquemila abitanti, al centro naturale di un comprensorio pedemontano di circa quarantamila anime, rappresentava il punto di riferimento economico e sociale. A Bovalino erano fiorenti il commercio e l’artigianato, la pesca, l’agricoltura e l’industria olearia. L’artigianato vantava altresì la lavorazione della radica dell’Aspromonte, molto pregiata e esportata all’estero, nonché era di un certo pregio la lavorazione del baco da seta. La pesca era molto attiva. . E’ importante tenere presente che una forza lavoro di tante attività era l’apprendistato. L’apprendistato iniziava a undici anni fino ai diciotto: i ragazzi imparavano a vivere e ad apprendere un mestiere. Certo una piccola percentuale frequentava la scuola, ma la ricchezza dell’impresa era anche sostenuta dagli apprendisti, che non percepivano stipendio. In quegli anni Bovalino fu meta di immigrazione da molti luoghi della Calabria e del Veneto per la fabbrica del legno; vi erano pure tre cinema e uno stabilimento balneare, unico da Reggio fino a Soverato. . La stazione ferroviaria serviva tutto il comprensorio, le autolinee di Bovalino, Panuzzo e Spatolisano vantavano collegamenti con Reggio Calabria e Serra San Bruno. In quel periodo di ricostruzione Bovalino era stato individuato dall’organizzazione Scillese d’America come luogo per la costruzione dell’Ospedale Scillesi d’America. Il terreno veniva donato dalla Primerano SpA. A questo progetto si oppose la politica locrese forte dell’ascendente vescovile. . Teniamo presente che lo scudiscio del comando era nelle mani dei clerico fascisti. All’epoca i preti facevano politica attiva dai pulpiti e dai palchi elettorali: è famoso un contraddittorio in piazza Gaetano Ruffo. Si trattava di un piccolo uomo vestito di nero, prete dal tirabaci scomposto, che faceva comizi per la Democrazia Cristiana contro i socialcomunisti. . Bovalino in quegli anni fu travolto dal nuovo, dal progresso. La costruzione dello stabilimento del legno, la costruzione di tre opifici per la produzione di oli di sansa, la ricostruzione dei ponti e dei paesi interni, danneggiati dall’alluvione del 1951, hanno “ubriacato” il sistema economico. Le botteghe degli artigiani si sono svuotate degli apprendisti, gli stessi artigiani sono andati a lavorare da operai nelle industrie. . Le campagne sono state abbandonate, è finita la lavorazione della radica per le pipe, del baco da seta, del gelsomino e di molti prodotti agricoli, così come l’essicazione dei fichi. . Dimenticavo la costruzione della cartiera, la bretella ferroviaria, per la fabbrica del legno a Bricà, la costruzione di un porto di quarta classe, progetto finanziato con un miliardo dallo Stato, e la volontà di ammodernamento della S.S. 112 Bovalino Bagnara col progetto Brat. . Le industrie erano nate sull’onda dei finanziamenti del “Piano Marshall”, quelli per la ricostruzione dalla Cassa del Mezzogiorno. In realtà tutta quella pioggia di denari, fu appannaggio degli speculatori finanziari locali e nazionali, complici i rappresentanti bancari e istituzionali. Il risultato fu che, dopo pochi anni, tutto si dissolse come la neve al sole. . Gli speculatori avevano investito i finanziamenti in altri settori e non nella produttività e sono diventati i ricchi post seconda guerra mondiale, mentre i bovalinoti sono rimasti a guardare! ... . ... Il ragioniere. ... . ... Era il 1946, una mattina d’estate, sulla strada principale del mio paese c’era una grande confusione. A casa di mia nonna materna era un via vai delle vicine di casa, “le comari” ed i parenti. . Gli uomini erano presso la stazione ferroviaria, in attesa dell’arrivo dei prigionieri dall’Africa Orientale. Credo attorno alle 10, in strada c’erano tutti: vecchi, giovani, donne e bambini. C’ero anche io, controllato a vista da mio padre. Come un sogno ricordo delle persone al centro della strada, curve sotto il peso di un sacco di juta, dentro c’erano tutti i loro averi. . Una di queste persone si staccò dal gruppo e venne all’incontro di mio padre e zio Mario, era zio Totò. Abbracci e lacrime e poi un grido lungo, Totò: era mia nonna! Ancora oggi il ricordo mi emoziona. . Andammo a casa, una interminabile processione di parenti e amici veniva a salutare questo mio zio, il quale era confuso e stanco. Aveva degli spessi occhiali e indossava un vestito grigio. Ricordo, nella mia ingenuità, che aspettavo aprisse il sacco, pensando che ci fosse un regalo per me. . Rimasi deluso, c’era biancheria e arnesi di lavoro da barbiere, quale lui era. Zio Totò classe 1906, nel 1934 assieme al fratello Mario, lavoravano da barbieri. Erano rimasti orfani in età giovanissima, con due sorelle a carico, da sposare. Erano anni di fame, la gente non aveva i soldi per mangiare, di conseguenza non potevano andare dal barbiere. . I ricchi, detti nobili, detentori e delatori del potere fascista, non pagavano. Così mentre zio Mario espletava il servizio militare in marina, per ventiquattro mesi, zio Totò decise di emigrare. Gli amici dello zio erano artigiani come lui e qualche professionista, figlio di artigiano; unici oppositori al regime. . Il regime faceva leva sulla povertà economica e culturale del popolo. Non bisogna dimenticare le folle oceaniche ai farneticanti comizi dei gerarchi fascisti che promuovevano l’annessione dell’Africa Orientale, mediante occupazione militare. Fra i civili che emigravano in quelle terre ostili i più erano fascisti in cerca di gloria. C’erano anche i dissidenti che,, presi dal bisogno, non potendo emigrare nelle Americhe, per via delle sanzioni trovavano quella soluzione, anche perché i notabili locali favorivano questo tipo di allontanamento degli oppositori. . Zio Totò rimase in Africa molti anni, anche là lavorava da barbiere. I primi anni riusciva ad aiutare la famiglia economicamente, poi la lunga prigionìa e la mancanza di notizie coi propri cari, lo avevano minato nel fisico, ma elevato culturalmente. . Tornato a Bovalino s’avvide di un mondo cambiato. C’erano i neo ricchi, nati dagli intrallazzi del periodo bellico e molte famiglie povere, ma oneste, turbate e con ammalati in casa che avevano difficoltà a trovare medicine e generi alimentari. Il caos politico ed economico sociale, in una situazione del genere, i neo ricchi e la burocrazia la facevano da padrone. . Zio Totò aveva come titolo di studio la quinta elementare, ma aveva sempre coltivato l’amicizia e frequentato quei pochi della sua generazione che avevano conseguito diploma o laurea. Aveva una forte personalità intellettuale che, evidentemente, si era arricchita durante la prigionia. Erano i tempi della ricostruzione sociale ed economica negli anni che vanno dal 1950 al 1960. In quel tempo si iscrisse al Partito Socialista Italiano. I suoi migliori amici erano quelli che come lui, prima della guerra, erano invisi al potere fascista. . In quel periodo una ditta di Bovalino vinse un appalto di costruzioni pubbliche a Messina e lui fu assunto come contabile: evidentemente se la cavava bene in quel lavoro di contabilità, nei rapporti con le banche e con gli enti. . Morì giovane lasciando un bel ricordo in quanti lo conobbero, particolarmente agli operai, per i quali il ragioniere Camera era una brava persona. Zio Totò merita di essere ricordato: ha speso una vita per gli altri e per la sua famiglia! ... . ... I Nipoti. ... . ... Un antico detto calabrese a proposito dei nipoti recita “i nipoti potali”. Certamente ci sono nipoti e nipoti: i buoni non fanno storia, gli ingrati sono ricordati per le loro nefandezze. . Mi viene in mente Giorgio e i suoi fratelli: Giorgio era nipote di comare Flora, che aveva un solo fratello, Vincenzo. Flora e Vincenzo erano figli di un emigrato negli USA in California negli anni ’20. La moglie aveva cresciuto i figli con dignità e sacrifici, aveva investito parte delle rimesse, che le pervenivano dal marito Antonio, per acquistare vari appezzamenti di terreni, il più importante era in prossimità del paese. . Comare Flora era un bella ragazza e aveva molte richieste di matrimonio. Erano tempi di fame e la guerra era imminente, il fratello si arruolò in aereonautica e comare Flora accettò di sposare Agostino, artigiano stimato e persona perbene. La madre di Flora fece costruire per la figlia una casa grande in paese che sarebbe divenuta abitazione e laboratorio per Agostino. . Purtroppo la natura aveva precluso alla coppia di avere figli. Questo non ha inficiato il matrimonio, il marito lavorava e lei si interessava delle faccende di casa e accudiva la madre. Avevano anche affittato una stanza a un medico, che la usava come ambulatorio e per dormire. Il medico era persona preparata e stimata e quasi faceva parte della famiglia. . La seconda guerra mondiale portò il lutto in casa di Flora, il fratello, che si era sposato e aveva due figli, era morto in battaglia. Era mitragliere di bordo e lasciò la moglie e i figli in precarie condizioni economiche. Il padre Antonio era ammalato, ricoverato in un ospedale in California, aveva lavorato da minatore e aveva svolto anche altri lavori manuali. Anche la madre si ammalò e di lì a poco tempo morì. . Erano gli anni compresi tra il 1943 e il 1945: la guerra ufficialmente era finita, però la gente versava in condizioni misere. Agostino invece con il suo lavoro e l’affitto del medico, economicamente stava bene; gli artigiani o piccoli commercianti guadagnavano lavorando senza limiti di tempo. . Nel periodo tra il 1946 e il 1947 Flora e il marito, non avendo figli pensarono di crescere il nipotino Giorgio, per aiutare la cognata. Il fanciullo arrivò in paese e in poco tempo, anche per l’amore che lo circondava si adattò con facilità. Trascorse qualche anno, Giorgio frequentava la scuola elementare e, quando la madre naturale fu riconosciuta vedova di guerra, con miglioramento economico, volle riprendersi il figlio. . Passarono molti anni e Flora viveva per i nipoti, anche se erano lontano: tutto il suo affetto era per loro, aveva anche un buon rapporto con la cognata, che continuava ad aiutare in tutti i modi. A turno i ragazzi venivano a trovare la zia, in estate. . Un giorno Flora ebbe una bella notizia: il padre sarebbe rientrato in paese dall’America. Si era risposato ed era diventato pastore protestante, era ammalato e claudicante ma aveva una buona pensione come pure la moglie. Flora li accolse con affetto e li fece alloggiare nella casa dove aveva sempre vissuto con la madre, con un grande giardino prospiciente. . La casa sorgeva nella parte alta del paese e si vedeva il mare. Nel giardino c’erano alberi di fichi e altra frutta e si potevano produrre verdura e ortaggi. Contentissima la matrigna si mise subito a coltivare, anche se era in precarie condizioni di salute. Il padre trasformò la casa in Chiesa Evangelica. Flora che cominciava a subire gli acciacchi dell’età, si fece carico di accudire il padre e la matrigna, che era una brava persona. Tutte le mattine si alzava in ogni stagione all’alba, dopo avere svolto le faccende di casa andava dal padre pur non condividendo il suo credo religioso e lo assecondava sempre. . Il marito Agostino che per sua natura era persona calma e disponibile non faceva obiezioni. I nipoti erano diventati adulti e sposati. Dopo qualche tempo il padre, la matrigna e la cognata erano passati a miglior vita ed era morto anche Agostino. Comare Flora era rimasta sola, i nipoti arrivarono pieni di attenzioni verso la zia e i vari parenti prossimi che tanto avevano aiutato comare Flora nella quotidianità. In meno di un anno convinsero la zia a vendere tutti i beni, a inimicarsi i parenti e la chiusero in un ospizio, dove in completa solitudine morì. . L’ingratitudine degli “umani” aveva primeggiato ma la natura fece giustizia. Le maledizioni dei parenti e il comportamento scorretto verso la zia hanno impedito loro di godere del patrimonio, speso per cure mediche, colpiti essi stessi da cattiva salute. Chi di spada ferisce, di spada perisce! ... . ... Parente serva. ... . ... Le guerre cambiano l’assetto della società. I nuovi borghesi, col frutto di intrallazzi, si uniscono ai precedenti “don”. Questo era il titolo che distingueva i prevaricatori della coscienza popolare. Essi gestivano a loro piacimento e interesse la vita delle persone a loro sottoposte: in termini economici e psicologici, erano i padroni! Dalle Alpi alla Sicilia, sotto varie forme e titoli, i “don” erano onnipresenti! . La nostra storia inizia, durante la seconda guerra, in un paese: Bubalina. La famiglia di don Ubaldo, circa dieci figli fra maschi e femmine, vive agiatamente. Alla fine della guerra, diventa ricca e potente; mentre nel resto della parentela la povertà è totale. Fra i figli maschi, c’è il colto, il lavoratore e l’approfittatore senza remore! Le donne sono le regine, devono fare buoni matrimoni. . La moglie di don Ubaldo decide di prendere in casa la figlia di una parente povera, poco più che adolescente; la ragazza deve aiutare nei lavori domestici, retribuzione con avanzi del pranzo o della cena, qualche vestito vecchio delle signorine e rimproveri dalla mattina a sera. . Passano gli anni e la ragazzina Olivia diventa una bella signorina. Intanto fratelli e sorelle si erano sposati ed erano sparsi per l’Italia. Uno dei fratelli Ottavino, si accorse della bellezza di Olivia. Il suo non era amore, solo attrazione fisica. Forse Olivia credeva di avere trovato il principe azzurro, Ottavino era un bel giovane, e cedette alle di lui lusinghe! . L’abitazione non era una lussuosa villa in campagna, aveva due o tre stanze sempre affollate, anche se una parte della prole si era accasata e trasferita in altri luoghi. Ottavino approfittò di Olivia, finché un giorno si scoprì che era incinta! Per la padrona di casa fu un dramma, si sentiva in torto nei riguardi del padre di Olivia suo cugino, così si riunì la famiglia. Di matrimonio non si parlava, per Ottavino c’erano altri progetti, non certo con la servetta, e decisero di mandare la ragazza in città dalla figlia sposata col pretesto di aiutarla. Forse l’intento era di farla abortire. Nessuno doveva sapere niente e nessuno seppe! . Il periodo trascorso in città è avvolto nel mistero, circa un anno e mezzo. Quando Olivia ritornò dalla città, era intontita, non era più quella ragazza svelta e spiritosa, rimase in questa condizione tutta la vita, quasi 70 anni. La città l’aveva condizionata, così dicevano! Lei si portava dentro un peso! Passarono diecine di anni, Ottavino fu punito duramente negli affetti, mentre la nostra Olivia, raggiunta la vecchiaia, meritò delle pensioni che arrivavano in casa, pensioni sociali e lavoretti di cucito assieme alla sorella. . Si era ritrovata nella solitudine, con gli acciacchi della vecchiaia, i suoi familiari erano morti, con la casa rimessa a nuovo e dei risparmi in banca! Erano passati più di quaranta anni, un giorno alla porta di Olivia bussò una donna che non riconobbe. Questa donna la chiama mamma e le dice: «ti ho ritrovata». . L’emozione di Olivia fu immensa, lei aveva avuto la bambina, e subito dopo il parto era stata consegnata alla ruota del brefotrofio della città e non aveva saputo più niente. . La bambina era stata adottata, aveva studiato e lavorava, si era sposata e da poco era morta la madre adottiva, la quale le aveva svelato la verità e l’identità della vera madre! La solitudine e l’atroce pensiero che aveva accompagnato Olivia nella vita, nel pensare alla figlia, che aveva portato in grembo e per qualche mese in braccio, la riempirono di gioia! . La festa durò qualche mese, poi la figlia doveva andare a lavorare e partì, dopo essersi impossessata di quel poco che Olivia, con immensi sacrifici, aveva risparmiato! Questa è una delle migliaia di storie che devono fare riflettere: la tristezza della povertà! ... . ... Filomena e Chicchineglia. ... . ... Ero ragazzo, d’estate gli adulti sedevano all’aperto a godere del fresco e a chiacchierare. Gli uomini da una parte, le donne dall’altra, erano tutti parenti e vicini di casa. . Gli anziani raccontavano episodi della loro giovinezza, spesso legati ai viaggi nelle Americhe, e non mancavano le allusioni, velate ma comprensibili, di tradimenti coniugali. I racconti più interessanti e ricchi di particolari con nomi e soprannomi (fino al 1950, le persone erano individuate tramite il soprannome, solo negli atti ufficiali si usava il cognome) le raccontavano le zitellone. . Da adulto capii che spesso i velenosi racconti erano frutto di vecchi rancori personali; certamente avevano una base di realtà, però non venivano mai menzionate le cause che avevano creato l’evento. Passarono molti anni e ho scoperto tante verità sui pettegolezzi che sentivo raccontare. . Noi ragazzi giravamo indisturbati fra i vari gruppi di persone, alle ragazze era impedito. Nel 1943, due donne parenti fra loro, una vedova, l’altra con il marito prigioniero di guerra, cercarono di darsi da fare con un onesto lavoro. Entrambe avevano diversi figli in tenera età, privi di qualsiasi sostentamento economico, che piangevano per la fame. Erano due belle donne, forti nel fisico e nella mente. Andavano nelle campagne e compravano (a credito che puntualmente saldavano) olio, uova e verdure e si recavano nella città per venderli. . L’ultimo viaggio fu fatale. Stavano per salire sul treno, contente della giornata, avevano venduto tutto e su commissione avevano comprato caffè e stoccafisso. Il treno stava per partire, era al tramonto, arrivarono aerei tedeschi (la città da diversi mesi era occupata dagli americani), e un violento bombardamento colpì la stazione ferroviaria ed anche il treno fu colpito. . Le due donne terrorizzate si ricoverarono nel sottopasso. assieme ad altri passeggeri. La stazione fu colpita e rimase danneggiata nei binari. Intanto si fece la notte, dal sottopasso non si poteva uscire, vigeva il coprifuoco fino alle sei. . Qualcuno andò via ma i più furono costretti a rimanere al freddo e al buio. C’erano uomini, donne e qualche ragazzo. Improvvisamente fecero irruzione, illuminando con torce puzzolenti, soldati neri americani, comandati da un soldato bianco, biondo. Sotto la minaccia delle armi tutti furono identificati, si fa per dire, non conoscevano una parola d’italiano, e derubati di tutto. . Un giovane e un anziano hanno tentato di proteggere una donna, che veniva perquisita da un soldato mentre un altro le teneva appoggiata la canna del moschetto sotto il mento. Tutti furono malmenati con i calci dei moschetti e lasciati a terra sanguinanti e tramortiti. Le donne giovani, comprese le nostre due, furono prese e portate fuori sul marciapiede della stazione in mezzo ai sacchi di sabbia e lì ripetutamente violentate e stuprate. . Il calvario durò tutta la notte. Con le prime luci dell’alba su quel marciapiede si sentivano i lamenti delle donne e il pianto di un ragazzo, figlio di una delle vittime, che piangeva abbracciato alla madre credendola morta. . Lo sbuffare di una locomotiva destò tutti. Mentre un poliziotto e due carabinieri chiedevano i documenti di riconoscimento. Una donna si alzò da terra in preda ad una crisi di nervi, cercando aiuto. In malo modo furono costretti a seguire le forze dell’ordine in una sala d’attesa per essere interrogati e identificati. Non potevano muoversi, pena l’arresto immediato. . Le ferite, la fame, la sete, la paura, potevano aspettare. Era giorno, la stazione era deserta, vi stazionavano solo pattuglie di soldati. Ad un tratto sulla porta apparve un uomo in tuta, aveva in mano uno straccio e si asciugava la faccia sudata e sporca. Era un macchinista paesano delle due donne, che vedendole andò loro incontro. Capì la situazione e senza pensare al rischio personale le fece salire sulla locomotiva e le nascose dietro i sacchi di sabbia di protezione, esortandole a non fiatare. . Il treno partì, ma in una galleria si dovette fermare e il macchinista scese per ispezionare l’uscita. Le due donne stremate, si misero a tossire, attirando l’attenzione del fuochista che si mise a bestemmiare e inveire: «ho famiglia adesso ci arrestano». Il ritorno del macchinista, che poi era il responsabile servì a calmare il fuochista e il pianto delle donne. Qualche chilometro prima di arrivare alla stazione di Bovalino, il macchinista fermò il treno e fece scendere le due donne. . Sul treno però viaggiavano alcune persone del luogo, che avvertendo la strana fermata si affacciarono e le riconobbero. Le due donne hanno raggiunto il paese, camminando scalze sui ciottoli della linea ferrata, fu un vero supplizio. . Quando arrivarono a casa tutto il paese sapeva che erano scese dal treno prima che arrivasse alla stazione, per non farsi vedere. Per diversi mesi, le due donne cercarono di curarsi le ferite fisiche e morali. Poi le loro strade si divisero, la vedova aprì un piccolo negozio di generi alimentari, dedicandosi al lavoro e a educare i figli, l’altra a curare il marito, ritornato dalla prigionia, affetto da una grave malattia che lo portò alla morte. . La vedova aveva figli maschi, l’altra tutte femmine. In paese venivano additate come poco di buono. Le pettegole, iniziavano al mattino e fino a sera ricamavano sulla vita quotidiana delle due donne. La mattina le comari, timorate di Dio, raccontavano la giornata precedente delle due donne, con quanti uomini si erano salutate, poco importante se erano saluti di cortesia. . Erano “male donne” e non meritavano nessuna indulgenza. Naturalmente alle pie donne si univano gli spacconi del paese, che respinti e umiliati si vendicavano, raccontando falsità di prestazioni sessuali ricevute. . Il marito ammalato aveva parenti oltre oceano. Qualcuno raccontò, sia a lui che ai parenti, che la moglie, in sua assenza, aveva fatto la bella vita. Nevrastenico e geloso com’era, la mise alla porta. L’uomo reagì con tanta durezza, anche se ammalato grave, perché sapeva che la moglie era figlia di una serva di un notabile del paese, infatti lei era figlia di “nn”, ma da ragazza aveva condotto una vita irreprensibile. . Naturalmente le vicissitudini la avevano abbrutita, nessuno aveva pietà di lei e delle bambine. Erano gli anni dell’emigrazione al Nord e lei partì alla volta di Milano. Passarono diecine d’anni, le figlie studiarono ed erano belle ragazze. Una di loro sposò un imprenditore, matrimonio normale d’amore, poca la differenza d’età. . Durante il fidanzamento, la ragazza scrisse ai parenti oltre oceano, uno era il fratello del padre, il quale l’accolse con entusiasmo, tanto da offrirle il viaggio di nozze e l’ospitalità a casa sua negli USA. . Da quel momento la vita di questa famiglia cambiò. Lo zio, in ricordo del fratello defunto da anni, accolse con amore le nipoti e la cognata. Dopo alcuni decenni, “la milanese” cosi la chiamarono e la ricorderemo, fece ritorno al paese e fu accolta nella casa dove era stata concepita, quale parente ricca e importante. La milanese sfoggiava eleganza nel vestire e nei modi, una gran signora. . Le figlie non erano da meno: belle, eleganti e di compagnia; dove arrivavano attiravano l’attenzione dei latin lover locali e del comprensorio. La madre frequentava i salotti e si divertiva a raccontare la vita condotta a Milano, dove per sopravvivere e sfamare le figlie aveva fatto di tutto. Naturalmente lasciava le comari sbigottite ma non indignate: la milanese era ricca. . Durante queste conversazioni non mancavano i racconti del periodo antecedente la partenza per Milano. «Sapete comare, vostro marito mi importunava» e all’altra comare riporta che “vostro marito l’ho preso a sassate» e ad un’altra ancora: «ho sentito che vostra figlia ha sposato un vecchio per i soldi». . Così recitando si toglieva i sassolini dalla scarpa e creava scompiglio nelle famiglie che le avevano fatto tanto male. Questi eventi, fra leggenda e storia, testimoniano le sofferenze, le conseguenze della guerra che nella vita reale e quotidiana i popoli pagano! ... . ... Erminia. ... . ... Erano gli anni del dopoguerra, che vanno dal 1944 al 1950. Il mio paese non aveva subito bombardamenti. Nel 1943, ritirata dei tedeschi con strade minate (via Dromo), i ponti delle fiumare distrutti e un aereo che quasi ogni giorno puntualmente mitragliava la ferrovia. . Un giorno un aereo forse tedesco, non sono sicuro della nazionalità, so per certo che cadde in mare, non abbattuto. Il pilota si salvò, l’aereo venne saccheggiato e con il caucciù che era all’interno del velivolo, molti si aggiustarono le scarpe! . In un tugurio sporco e malsano, di fronte ad un sontuoso palazzo, in povertà e solitudine viveva una donna. Era una morta che respirava, per la gente era stata una poco di buono e non meritava compassione. I bambini avevano paura di passare di fronte a quella porta, perché là viveva il diavolo, u mamau. Qualche persona timorata di Dio, per guadagnarsi un biglietto per il paradiso, le portava qualche scodella di cibo. . Un giorno Erminia morì con grande sollievo dei puritani locali. Dalle chiacchiere, arricchite da leggenda e da evidenze, capii che Erminia da giovane era stata una bellissima ragazza, viveva con la madre, che la accudiva come una principessa, ma nessuno sapeva chi era il padre. . Di Erminia si innamorò un giovane del luogo, figlio di una famiglia altolocata di quel tempo. Quale rapporto ci fu fra i due non è dato sapere se non chiacchiere, che li davano amanti. . La famiglia di lui si oppose, lui si chiuse in casa e non usci per decenni. In famiglia erano in tanti fra fratelli e sorelle, erano benestanti di tutto ma nessuno si sposò! Erminia si lasciò andare, la madre impazzì e malediva tutto e tutti, finché morì e Erminia rimase sola, in quella stanza senza energia elettrica, nella massima indigenza! . Passarono gli anni e ogni tanto sentivo parlare di questa persona, dicevano che era un bell’uomo elegante e distinto, che usciva di casa di notte, evitando di incontrare persone, ma qualcuno asseriva di averlo visto in altre occasioni. Io abitavo lontano da dove abitava lui; ero ritornato per la seconda volta dall’Argentina, cinque anni sono tanti, faticavo a riconoscere i conoscenti. . Una sera di ottobre, verso le tre di notte, reduce da una cena fra amici, ritornavo a casa a piedi per digerire e avevo dimenticato l’accendino. Messa la sigaretta in bocca, cercavo nelle tasche l’accendino e in quel momento nel buio mi vedo d’avanti un signore elegante, con il soprabito, era già autunno a Bovalino. Rimasi intimorito, pur tuttavia gli chiesi se aveva da accendere, mi rispose con grande gentilezza che non fumava. Rimanemmo qualche minuto in silenzio, poi io gli chiesi se era di Bovalino. Lui disse: «credo di si!».. . Non riuscivo a vederlo in faccia ma notavo una persona distinta e a modo, oltre che un bell’uomo in età. Lui mi dice: «io la conosco, lei è il figlio di Michele e nipote di Mario, lavorate in Argentina con Pino. È da molto che non lo vedete?». Gli risposi che avevo incontrato l’ingegnere qualche mese prima a Milano. Con un secco buonanotte se ne andò, lasciandomi intontito. . A pranzo riferii a mio padre l’incontro avuto. Mio padre che non condivideva le mie sortite notturne, mi disse: «vedi cosa capita a girare di notte, si possono fare brutti incontri». All’epoca, a mezzanotte, c’èra il treno Palermo Bari, che da Melito a Locri fermava solo a Bovalino, dal quale scendevano molti passeggeri e spesso le tre macchine di noleggio antistanti la stazione, non erano sufficienti a trasportare le persone, e quelli che rimanevano a piedi e erano avvezzi, non disdegnavano di rubare una macchina per rientrare al loro paese. . Passò qualche giorno e chiacchierando con mio zio Mario, gli raccontai l’incontro con quella persona, mio zio mi guardò con quel sorriso che lo distingueva, mi disse: «fra qualche giorno tu parti per il Brasile, dimentica. Quello è un signore, è una persona per bene» e mi informò chi era, senza aggiungere altro. . Partii per il Brasile e preso dal lavoro dimenticai quanto per quindici giorni mi assillava quell’incontro, forse era curiosità, unita alle chiacchiere che avevo ascoltato da ragazzo. In Brasile lavoravo nella Amazzonia e la quotidianità del posto mi ha fatto dimenticare. Adesso a volte mi capita di passare, là dove una volta viveva Erminia, e ritornano i ricordi. ... . ... Il bel giovane. ... . ... Frequentavo la quinta elementare, 1950 51, nel breve tragitto fra la scuola e casa mia, all’angolo della strada, su una sgangherata scala di legno un uomo ben vestito, giovane e bello scriveva il nome della via. Lo chiameremo Bruno. . Come ogni domenica pomeriggio mio padre mi portava con lui, alla sezione del Partito Socialista Italiano, per tenermi sotto controllo. Nella sezione giocando a carte, discutevano di tutto: politica nazionale e locale. C’era sempre qualcuno con il giornale l’ “Avanti” che dava qualche notizia nazionale, allora lasciavano le carte e discutevano. . C’era pure il consigliere comunale che raccontava quanto succedeva al Comune. Fu così che sentii parlare del fatto che il Sindaco aveva assunto provvisoriamente Bruno, per scrivere nelle vie del paese la toponomastica. Si creò così una lunga discussione: chi diceva che era uno sfaccendato, che non voleva lavorare; altri dicevano che era sfortunato, ma alla fine convennero di lasciarlo lavorare in quanto quei soldi gli sarebbero serviti per andare in Argentina in cerca di lavoro. . L’opposizione, nel consiglio comunale, creava molti problemi alla delibera contestata. Negli anni che seguirono sentivo spesso gli adulti parlare di Bruno. . Aveva sposato una bellissima ragazza, figlia unica di un commerciante, al quale le cose erano andate male per la crisi economica ante seconda guerra mondiale. Bruno era inviso ai più forse perché piaceva alle donne, lo apostrofavano “il bel giovane”. Si diceva che Bruno si era dimenticato della moglie e del figlio e non dava più notizie di sé dall’Argentina. . Passarono gli anni e il figlio cresceva, la madre invecchiava all’ombra del padre che non si risparmiava, lavorando anche se in tarda età. Era un signore distinto e dignitoso. Il figlio, come tutti i giovani, emigrò nel settentrione, restando sempre vicino alla madre e al nonno finché vissero, certo tutti e tre vissero di stenti e mai felici. . La società non li ha mai aiutati! Nel 1962 mi trovavo a Buenos Aires ed ero andato a salutare un mio amico di Bovalino che faceva il barbiere, nel salone dove lavorava, a Plaza Once. Mentre attraversavo l’entrata del salone, nella confusione, mi scontrai con un omone grasso e prepotente, dietro c’era il mio amico, che mi guardava, quasi impietrito. . L’omone mi offese, con frasi correnti nei bassi fondi di Buenos Aires. Io rimasi confuso e impaurito, mi trovavo di fronte un pazzo inferocito, non gli risposi, anche perché sparì nella folla. Il mio amico mi prese per il braccio trascinandomi dentro, era bianco come un lenzuolo, siamo stati diversi minuti senza dire una parola, poi Gigi mi disse: «sai chi era quello?». Dico: «no, mai visto». Lui rispose: «era Bruno, te lo ricordi il figlio di tizio, abitava nella piazza di...». Di istinto feci per alzarmi, perché volevo parlargli, al che Gigi mi disse: «sei pazzo? Andiamo a prendere un caffè». . Così venni a sapere che Bruno arrivato in Argentina si mise a lavorare. In quel periodo l’Argentina aveva una economia florida ed era facile lavorare e guadagnare bene. Gigi mi disse che dopo qualche anno Bruno aveva inviato alla moglie i soldi del viaggio per lei e il figlio. Sempre con il beneficio del dubbio si diceva che la moglie pretendeva il viaggio anche per il padre, per non lasciarlo solo. . Bruno si indispettì e dopo vari tentativi smise di scrivere e di lavorare, vivendo di espedienti. Gigi mi raccontò che quel giorno era andato da lui per farsi tagliare i capelli, come sempre a credito, ma lui non poteva, aveva una famiglia da mantenere e inoltre doveva pagare l’affitto della sedia e una percentuale sul lavoro prodotto. Mi disse che se scopriva chi ero e dove lavoravo, non mi avrebbe lasciato in pace, dovevo dimenticarlo. . Dopo tanti anni incontrai, diverse volte, il figlio, lavorava al Nord Italia, veniva in ferie a Bovalino. Abbiamo spesso chiacchierato, ma non ho mai avuto il coraggio di dirgli, che seppure di sfuggita, avevo incontrato il padre in Argentina! ... . ... Giovinezza paesana. ... . ... Nel 1957, in paese i ragazzi la sera si ritrovavano fra di loro, accomunati dalle attività che frequentavano, gli studenti e gli apprendisti dei vari mestieri, a gruppi omogenei passeggiavamo, raccontando i trascorsi della giornata. Ricordo che gli studenti parlavano di lezioni e dei loro professori; gli apprendisti invece dei calci nel sedere. Non mancava lo sfottò, che animava la passeggiata, né le malignità sulla figlia di tizio o la moglie di caio! L’età media era 16 18 anni. A Bovalino c’erano due cinema, la televisione in qualche bar o circolo cosiddetto ricreativo, ma di fatto bisca, interdetti a noi giovanotti! D’estate e d’inverno, quando non pioveva, questa era l’aggregazione sociale, in attesa di emigrare per studio o per lavoro. Spesso quando era possibile, la sera andavamo alla stazione ferroviaria, transitava il diretto Palermo Bari: era una festa. . I marinai di leva della Sicilia e della provincia di Reggio Calabria che cantavano, i passeggeri, che confluivano da Palizzi ad Ardore, Bovalino era l’unica fermata. Chi viaggiava per lavoro, chi per andare a fare visita ai parenti, e chi a volte ai detenuti nelle carceri pugliesi. . Le grida dei ferrovieri, il vociare dei passeggeri animavano la stazione e nella confusione non mancava la mano morta, che spesso creava la piccola rissa! All’epoca la ferrovia era al servizio dei cittadini, tre classi: nella prima viaggiavano i ricchi, i burocrati coi biglietti gratis e i ferrovieri, nella seconda la classe media e nella terza la classe meno agiata. . La locomozione era a vapore, si partiva da Bovalino per tutte le destinazioni senza cambiare treno o vagone. Il Bovalino Roma viaggiava la sera con arrivo al mattino presto nella Capitale. Nella stessa serata, dopo avere soddisfatto gli interessi del viaggio, ripartenza. Con lo stesso treno si era agevolati perché potevi trasportare varie mercanzie (ad esempio collettame, con l’utilizzo dello scontrino verde), che la città offriva nell’acquisto. . Un locomotore trainava diecine di carrozze e alcuni carri merci. Questa era economia e servizio! Mi ricordo la Freccia del Sud, Palermo Milano, il viaggiatore saliva a Palermo e scendeva a Milano. . Ricordo un episodio negli anni ’80: era di pomeriggio del mese di ottobre, mi recai alla stazione ferroviaria per ritirare un collo, mentre entravo c’era dietro di me una persona anziana claudicante che si appoggiava ad un bastone, lo feci passare e lui, con garbo mi ringraziò. . Si appoggiò con un gomito vicino allo sportello e chiese al ferroviere quanto costava trasportare un morto da Milano a Bovalino. Il ferroviere gli rispose che doveva consultare il regolamento. . Gli domandai chi gli fosse morto, lui mi guardò, tirò un sospiro e rispose: «mia moglie l’anno passato». Riprese fiato e continuò: «dopo la morte di mia moglie vivo da solo, due figli sono emigrati in Australia e la figlia che vive a Milano mi propose di andare da lei per Natale. Sapete, ha quattro figli e la più piccola di tre anni non l’ho mai vista. . Mi piacerebbe conoscerla prima di morire, il 26 dicembre compio 87 anni, non ho più la forza. Vado non tanto per la festa, ma per conoscere mia nipote. In Australia ho otto nipoti che non conoscerò mai e di questo sono dispiaciuto, me lo porterò nella tomba». . Intanto il ferroviere, gli passò dei foglietti, con le varie modalità di trasporto e relativi costi. Prese le carte se le mise in tasca, mi guardò e dandomi la mano a mò di ringraziamento, disse: «a casa mi faccio i conti se ho i soldi per ritornare da morto». . L’emigrazione ha sempre falciato i sentimenti affettivi. Questo dovrebbe farci riflettere sulle persone che partono per altre terre in cerca di vita migliore o a volte per la sopravvivenza! . Le Ferrovie dello Stato erano una tutela al servizio dei cittadini, ora i trasporti sono un appannaggio della “privatizzazione”. Le stazioni della tratta jonica sono all’abbandono, chiuse, senza personale e senza anima, sono lontane dalla “disponibilità” che in passato aveva l’utente. Allora la vita pulsava nelle stazioni, mentre adesso tutto quello che concerne il viaggio è seguito in automatico da una centrale operativa. . Per me ricordare quel periodo e quelle Ferrovie dello Stato, confrontandolo con l’oggi disattento al bene comune, mi amareggia molto. Io mi vergogno di tutto questo! ... . ... Mastro Mico. ... . ... Girando per il cimitero fra sontuose cappelle, loculi e loculi abbandonati e fatiscenti (causa l’emigrazione), m’imbattei nella tomba di mastro Mico, deceduto da qualche anno! Negli ultimi era diventato loquace e spesso gradiva raccontarmi fatti e particolari degli ottanta anni della sua vita! . Aveva vissuto la fame della seconda guerra mondiale e l’adolescenza nella povertà, comune alla sua generazione, non gli aveva consentito di proseguire gli studi; così suo padre lo aveva avviato ad apprendere il mestiere di meccanico. . In quegli anni, mentre molti suoi compagni continuavano la frequenza scolastica e vivevano una fanciullezza, in confronto alla sua, spensierata, egli entrava in officina alle sette del mattino e usciva a volte col buio, sempre sporco e spesso anche emarginato dai vecchi compagni delle elementari! Non aveva tempo di andare al catechismo, anche perché non era stato accolto bene dal prete, essendo la sua famiglia di estrazione socialista, e per questo il nostro amico non fece mai la comunione. . A diciassette anni con un discreto bagaglio professionale fu inviato da un imprenditore locale a Catania, per fare un corso di specializzazione presso la Piaggio, ad opera di tecnici francesi. Lì mise a frutto quanto aveva appreso nei cinque anni di “apprendistato”, vera fucina di educazione mentale e professionale. Per questo ringraziava sempre i suoi Mastri, che con metodi spesso bruschi lo formarono (quanti calci nel sedere!) . I primi tre mesi di lavoro presso un “sansificio”, a diciotto anni, come aiuto fuochista, per apprendere e conseguire la patente, furono veramente formativi; poi nell’agosto del 1958 la svolta che le cambiò la vita. Era per strada e incontrò un suo zio, che passeggiava con un amico ingegnere di Milano, salutò e destò l’interesse dell’ingegnere, che s’informò della sua situazione e consigliò lo zio di portarlo con lui in Argentina. . A lla fine di settembre di quell’ anno mastro Mico fu convocato a Milano, sottoposto a una serie di prove di capacità e visite mediche, e, poi, assunto con un contratto di due anni. Così a novembre, munito di passaporto e nullaosta militare per l’espatrio per motivi di lavoro, partì verso l’ignoto, la Patagonia-Argentina: perforazioni petrolifere. . Dopo due anni, per fine contratto, che poi fu rinnovato a tempo indeterminato con la qualifica di operaio specializzato, ebbe la prima disavventura con la burocrazia. Per poter usufruire dell’allegato 29, necessario e funzionale per non essere trattenuto in Italia ad espletare il servizio militare (in Marina, 24 mesi!), si rivolse al consolato, dove il Console Onorario, dietro esoso “compenso” gli consegnò il documento, che gli permise un mese di ferie a casa e il rientro in Argentina. . Negli anni successivi ogni anno cambiando consolato, istruire la “pratica”, pagando lautamente, poteva ritornare a casa e rientrare a lavoro. Finché, trovandosi in Brasile e dovendo partire per l’Italia, un funzionario di quel consolato si mise a sua “disposizione” e, dopo lauto compenso in dollari gli fornì il documento, addirittura glielo consegnò in albergo. . Quattro giorni dopo a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, la sorpresa: al controllo di frontiera il sottoufficiale lo invitò a seguirlo in ufficio, lo fece sedere e uscì con i documenti; era la prima volta che gli succedeva e ne aveva passate di frontiere! . Dopo venti minuti entrarono nell’ufficio tre persone, due poliziotti e un carabiniere. Il maresciallo della polizia gli disse che era stato truffato, perché l’allegato 29 da sei mesi era stato abolito e che se passava il confine, essi erano tenuti a denunciare alla procura militare e lui sarebbe diventato renitente alla leva, con gravi conseguenze, perché era previsto l’arresto. . Mastro Mico aveva notato che tutti e tre militari erano dispiaciuti della sua situazione, ma tanta era la gioia di rivedere il suo paese e la famiglia e convinto che avrebbe trovato una soluzione, con spirito “temerario”, decise di tornare al suo paese. . Partì da Roma in treno e dopo tante ore di viaggio raggiunse casa sua, fece in tempo ad abbracciare i suoi, mentre in un attimo la casa si riempi di parenti e vicini di casa. . Mastro Mico era confuso dal vociare e dalle domande più svariate, quando d’improvviso entro un carabiniere. La caserma era quasi di fronte e i carabinieri erano come i vicini di casa. L’appuntato si avvicinò al padre di mastro Mico, gli disse qualcosa e si allontanarono in cucina. Dopo qualche minuto il padre si affacciò sulla porta, chiamò mastro Mico e un cognato, che subito entrarono e l’appuntato disse: «chiudete la porta», aveva in mano una busta, dalla quale tirò fuori una lettera, era un fonogramma, bevve un sorso d’acqua e poi guardando un po’ tutti esclamò: «sto rischiando il posto! Lo faccio perché siete una famiglia come la mia di lavoratori onesti. Qui c’è un fonogramma della Procura Militare di Palermo!». . Dall’euforia del ritorno, in famiglia, si passò al gelo e il padre si coprì il viso con le mani, mentre la madre che, incuriosita, era entrata si accasciò su una sedia senza una parola. Lo zio andò a chiudere la porta con il chiavistello e il carabiniere dopo un sospiro riprese: «domani mattina quando il comandante leggerà il fonogramma, dobbiamo mettervi i ferri e portare a Palermo, siete renitente alla leva!». . Il silenzio fu rotto dal rumore del chiavistello. Lo zio, aperta la porta, disse ai presenti: «Mico è stanco, il viaggio è stato lungo, deve mangiare e riposare, buona sera», e tutti se ne andarono. Ritornarono nella stanza dove erano rimasti alcuni parenti stretti che furono messi al corrente. Un altro zio ebbe l’idea di andare a chiedere consiglio al colonnello in pensione del Genio Militare che viveva a circa cento metri e istruiva pratiche di pensioni di guerra. . Il padre di mastro Mico era attivista di sinistra, mentre il colonnello era monarchico e anticomunista, i due si salutavano per cortesia, tuttavia il padre assieme a mastro Mico e il carabiniere, andarono dal colonnello. Era già notte, la donna che aprì, disse che il colonnello era già a letto e richiuse la porta. . Era evidente che non li aveva voluti ricevere. Avevano fatto una diecina di metri, la porta si riaprì e la donna chiamò: «Appuntato venite, il colonnello si è alzato!». Entrarono, il colonnello era di tutto vestito, segno che era nello studio dove li ha ricevuti; guardò mastro Mico e chiese al carabiniere: «cosa è successo?», senza degnare gli altri due. Il carabiniere accennò al saluto militare e, l’unico invitato a sedersi, espose il problema facendo leggere il fonogramma. . Il colonnello d’improvviso cambiò espressione, guardò tutti e senza parlare si alzò da dietro la scrivania, si mise a passeggiare per la stanza e poi sedendosi disse: «fatemi pensare». Dopo interminabili minuti si rivolse a mastro Mico: «caro giovanotto domani all’alba presentatevi alla capitaneria di porto di Reggio Calabria, dovete dichiarare e essere convincente che siete rientrato per assolvere il servizio militare, né una parola di più, mi raccomando, questa è l’unica possibilità che avete». . Rivolgendosi al padre disse: «mi raccomando, nessuno deve sapere niente, altrimenti l’appuntato passa un brutto guaio, signori buona sera» e li accompagnò alla porta. . Uomini muti e donne senza parola fino al mattino, quando alle cinque si misero sulla macchina di noleggio assieme al padre e si recarono alla capitaneria di porto della Città, dove arrivarono alle sette. Espletate le formalità di rito, la sera mastro Mico fu tradotto a Taranto e dopo quaranta giorni imbarcato su una cannoniera, qual motorista congegnatore per la durata di ventiquattro mesi. . A bordo era l’unico insieme al comandante a potere sputare contro vento, il comandante per lunga navigazione e mastro Mico per avere attraversato l’equatore (leggi marinaresche!). . La vita militare, all’inizio, era piuttosto dura. Mastro Mico, abituato a soffrire, fece buon viso ai soprusi e alle angherie per i primi mesi. Col tempo ha conosciuto l’andamento della vita di bordo, che comportava intrallazzi sui viveri, sui combustibili e sui pezzi di ricambio. In poco tempo si è conquistato la fiducia e il rispetto dei commilitoni e dei graduati. . Fu esonerato dalla guardia in coperta e da tutte le mansioni manuali, aiuto del capo cannone, che era l’aiutante del comandante. Fino al congedo ha fatto il turista nei porti dell’Alto Adriatico. I militari fanno parte della burocrazia, ci sono i portatori d’acqua, i lavativi e i delinquenti; questi ultimi non sono molti in percentuale ma riescono a esercitare un potere illimitato sui sottoposti e spesso sui superiori, che avendo degli scheletri negli armadi, chiudevano gli occhi. . I malavitosi agivano indisturbati alla luce del sole. Da marinaio imbarcato si trovava in un porto dell’alto Adriatico, si inventò dolori addominali e lo ricoverarono all’ospedale militare di Venezia. Tutte le mattine, beveva un bicchiere di bario, però i medici sapevano che non aveva nessuna malattia. . Un giorno il capitano gli disse: «vediamo chi la vince». Per venti giorni, ha bevuto il bario, alle sei del mattino e fatti i raggi X, ritornava in corsia. Si vestiva in uniforme, usciva dalla finestra e raggiungeva Canal Garibaldi, prendeva il vaporetto e si recava al Lido, dove le tedesche andavano matte per la divisa militare della marina. . Si arrangiava con l’inglese e lo spagnolo ma si esprimeva in calabrese, faceva più colpo. La pacchia era terminata con l’intervento del cappellano militare, in quanto non andava a messa e non faceva religiosamente la comunione. Sanzione: massimo di rigore a bordo, mai fatto, bontà del comandante tenente del CEM, sottoufficiale, che per meriti speciali e lunga navigazione, era stato promosso al rango di ufficiale, però malvisto dai superbi ufficiali di provenienza accademica. . A bordo era amico di tutti. Un giorno il sottocapo furiere gli fece leggere il foglio matricolare, sul quale era scritto, non idoneo ai segreti Nato, perché di cultura e provenienza social comunista. . Nell’imminenza del congedo, si mise a consultare le varie proposte di lavoro che gli erano pervenute da diverse compagnie petrolifere nazionali e internazionali, dal Sud America, dall’Africa Settentrionale, dall’India e dall’Australia. . Mastro Mico raccontava che un giorno transitando in un villaggio, la temperatura era a meno 15 gradi, vedendo un bar chiese al cileno, che era con lui, di fermarsi per bere un’aguardiente. Il cileno era astemio e rimase sul Pick Up. Nel bar c’erano, oltre la donna dietro il banco, una diecina di persone, avvicinandosi al banco domandò: «quiero tomar algo porque tengo frío», (voglio bere qualcosa perché ho freddo). . La barista lo guardò pronunziando: «aquí no hay nada para los gringos», (qua no non c’è niente per gli stranieri); quattro persone si alzarono da un tavolo con fare minaccioso. L’impatto per mastro Mico fu di paura, fortunatamente il cileno che era rimasto in macchina si rese conto di quanto stava succedendo, scese e si mise a gridare: «el señor es italianito no es norteamericano». . In pochi secondi le persone cambiarono espressione; la barista gli preparò caffè caldo e un bicchiere di rum, non avevano aguardiente, era proibita. A causa del Pick Up lo avevano scambiato per nordamericano e senza l’intervento del cileno, lo avrebbero punito: gli Americani, gli Inglesi e i Francesi erano malvisti dalle popolazioni, che non solo manifestavano il loro odio, ma quando potevano passavano ai fatti; spesso sulle piste veniva trovato qualche straniero morto. . Qualche giorno prima un americano ubriaco aveva tentato di abusare della figlia quindicenne della barista e i militari avevano fatto finta di niente. Il territorio era sprovvisto di polizia e i militari che facevano le veci, con dieci dollari chiudevano occhi e orecchie. . Terminato il servizio militare, mastro Mico era indeciso se partire per l’India o per l’Australia. Un giorno ebbe una triste notizia: quattro suoi amici e compagni di lavoro della Saipem Eni erano stati sgozzati in Biafra. L’evento lo ha fatto riflettere e decise che la vita era più importante dei soldi. Assieme al padre, che era calzolaio, avviò un esercizio di vendita al dettaglio di calzature a Bovalino. ... . ... La foresta pietrificata. ... . ... A Natale del 1959 abbiamo allestito l’accampamento Perro Negro, nella Meseta Espinosa in Patagonia Argentina. Eravamo ventinove persone di Saipem Eni e una cinquantina assunti a Buenos Aires, questi erano di varie nazionalità. Si sentiva parlare: tedesco, russo, greco e italiano con vari accenti. . Per la prima volta vivevo l’estate australe: il 24 dicembre in quel luogo era un giorno come gli altri, lavoravamo senza sosta. La mattina del 25, mentre lavoravo nell’officina meccanica, notai nel piazzale un’auto strana, vecchio Dodge degli anni trenta, e un assembramento di persone. . Incuriosito mi avvicinai, nel mezzo c’era un prete, questi mi guarda e dice: «che ci fa qua questo bambino?». Parlava in argentino. Un italiano assunto in loco, ha tradotto la frase del sacerdote e ci fu una risata generale. Io ritornai al mio lavoro. Verso mezzogiorno, mi chiamarono nell’ufficio del capo campo e mi dissero di lasciare qualsiasi lavoro e mettermi a disposizione del prete. . Il prete parlava l’italiano intercalando con il castellano, per me era uno spasso. Mi disse che dovevamo allestire un altare per celebrare la messa di Natale. Chiamai il falegname e l’elettricista e costruimmo un altare di fortuna sotto la direzione di padre Corte, salesiano di Comodoro Rivadavia. Dopo circa un’ora, l’altare era pronto. Il prete, morto qualche anno fa all’età di oltre cento anni, si ricordava di me anche a distanza di tanti dalla nostra conoscenza. Era un grande uomo e di cultura e di umiltà. . La messa veniva celebrata nella tarda sera. In quel periodo non faceva mai buio. L’alba e il tramonto erano uno spettacolo straordinario, contemporaneamente si mescolano. Padre Corte mi chiese di servigli la messa, avevo diciotto anni, gli dissi che non potevo perché ero cattolico a modo mio, non avevo mai fatto la comunione, mio padre era socialista. . Lui non fece una piega! Durante la messa esortò i presenti a non dimenticare le mogli e i figli. In Argentina di solito gli uomini soli si accompagnavano con donne del luogo e dimenticavano le famiglie. Poi si rivolse a me e un altro giovane, dicendoci: «quando vi recate a Comodoro non andate con le prostitute di strada, vi accompagno io al prostibulo, lì le donne sono sane. In giro potete prendere delle malattie e pentirvi per tutta la vita!». . Quella sera il cuoco, aiutato da un paio di perforatori romagnoli ci fece il regalo: gli agnolotti con sugo di capra e lepre alla cacciatora (la zona era ricca di lepri, struzzi e guanachi), per l’occasione vino Chianti di Mendoza. . Ricordo con nostalgia, e spesso mi emoziono, quando al suono della orchestra improvvisata, con bencio, chitarra e fisarmonica, tutti in coro, in quella landa deserta, cantavamo: Terra Straniera e Romagna mia. Anche le pietre piangevano. I perforatori erano uomini duri, come pure i minatori, molti di loro ex partigiani, ma ho visto tanti di loro piangere come bambini. . Nessuno andò a dormire perché, per la prima volta, eravamo in estate australe. Al mattino presto ci rimettemmo al lavoro, avevamo delle scadenze che andavano rispettate, per avere i premi di produzione mensili di 100 mila lire, franco stipendio e tasse. . Il prete andò a dormire nella mia baracca e si coricò nel letto del mio compagno che era a Puerto Deseado. Nel primo pomeriggio, nell’officina venne il prete e il capo campo, un geometra altoatesino, ex ufficiale tedesco, adatto a quell’incarico; stavano visitando l’accampamento. Il prete mi disse di passare a trovarlo quando andavo a Comodoro, anche se ero comunista perché lui parlava con tutti, glielo promisi e lui volle darmi la mano, sporcandosi di grasso. . Dopo qualche mese, uscivo dal Comodoro Hotel e sentii una voce dietro di me: «italianito adonde vas, parate, fermati». Ricordo come fosse adesso. Era padre Corte con la sua espressione solare e simpatica, mi fermai e ritornai indietro. Vicino a lui c’erano alcune persone, ci stringemmo la mano mentre diceva ai presenti, in castellano: «questo bambino lavora nella Meseta Espinosa». . Nei visi dei presenti vidi meraviglia e stupore. Per molti quella zona era la Siberia dell’Argentina . Ci incamminammo verso il collegio dei salesiani e volle conoscere la mia storia, che in parte sapeva. Era al corrente che ero paesano dell’ingegnere Giuseppe Badolato di Bovalino, direttore generale della Saipem Eni per il Sud America, con sede a Città del Messico. Queste informazioni le aveva apprese dal capo campo. . Nel suo ufficio mi colpì una pigna molto pesante, sembrava di pietra, così seppi della foresta pietrificata di Jaramillo, che lui aveva visitato più volte. Me la descrisse e, su un foglio di carta, mi tracciò una mappa alla buona con latitudine e longitudine, ma non c’erano strade, solo piste a volte interrotte dagli eventi atmosferici, e di distanza approssimativa dall’accampamento 600 km. . Nel 1961 all’accampamento Perro Negro l’attività di perforazione aveva raggiunto ottimi risultati. Molti erano gli impianti di perforazione realizzati e, grazie al sacrificio e alla professionalità, avevamo sbaragliato la concorrenza nordamericana, conquistando la fiducia dell’ente minerario di stato “JPF”. . Il personale aveva raggiunto quasi seicento unità, noi della Saipem eravamo circa ottanta, il 70% perforatori e il resto: meccanici, elettricisti, periti chimici, geometri. I dirigenti, ingegneri minerari, un geologo e impiegati amministrativi. . La mensa, il bar e l’infermeria, a differenza degli accampamenti americani, erano uguali per tutti. Mi piace ricordare che, in occasione della visita all’accampamento, l’ing. Giuseppe Badolato ha pranzato e cenato assieme a noi. Ai tavoli sedevano circa dodici persone di diverse etnie. L’ingegnere era uno dei collaboratori di Enrico Mattei, che tante soddisfazioni ha dato all’Italia. . Ricordo quando a Puerto Deseado arrivavano mercantili jugoslavi. All’epoca la Jugoslavia non allineata, vantava grande prestigio nei trasporti via mare. . Che soddisfazione per me e per un perito elettrotecnico di Crotone! Le navi provenivano da Taranto e trasportavano aste di perforazione fra le migliori al mondo, con grande disappunto delle compagnie nordamericane, che fino ad allora avevano truffato l’Argentina. . Successivamente, per gli accordi raggiunti da Enrico Mattei, arrivavano mercantili russi, con cavalletti cecoslovacchi, prodotti con ottimo acciaio e con costi del 50% in meno di quelli nordamericani. . Ho divagato! Ritornando alla foresta pietrificata, un giorno, chiacchierando con il geologo, gli feci vedere la mappa che mi aveva tracciato padre Corte. Da lui seppi la natura di questa foresta, era una delle tre conosciute al mondo. Patagonia, Siberia e Congo. Con il geologo si era creata una buona amicizia. Lui era di Bologna, nel 1947 si era laureato a Torino e aveva presentato la tesi sull’Aspromonte, che aveva visitato nel 1939, abitando a Bagnara. Ricordava pure una indicazione stradale verso il mio paese: Strada Statale 112 Bagnara Bovalino. . Nel 1950 era entrato nell’ AGIP Mineraria. Era gennaio del 1961, estate australe, nel personale assunto in loco c’erano avventurieri, nazisti, fascisti ed ebrei a caccia di nazisti. . In quel periodo fu scoperto e ci fu il rapimento del nazista Eichmann, lo sterminatore di ebrei. Le sparatorie erano all’ordine del giorno, fra ebrei e nazifascisti. In quella zona spesso c’erano morti per strada, nazisti e fascisti, ma anche ebrei che gli davano la caccia per i loro crimini di guerra. Questo lo seppi dopo molti anni. . Una volta, quando c’era la bassa marea, viaggiavamo sulla spiaggia, perché le piste erano di terra battuta e piene di buche, vidi una Pick Up capovolta e semibruciata. Mi fermai ma non c’era nessuno, fra i miei compagni di viaggio c’era un greco, mi disse che dovevamo andare via perché l’auto era saltata con una granata. . Io ero molto giovane e l’incoscienza mi aiutava a superare le difficoltà. Dopo qualche tempo seppi che in quel Pick Up erano morte tre persone, un tedesco padrone di una fattoria e due cileni, suoi operai. . Io a mensa e nei bar, di Picu Trunquado e di Caletta Olivia, parlavo spesso della foresta pietrificata; in realtà cercavo qualcuno che la conoscesse. Senza esito le mie ricerche. Un giorno a mensa, mi sento chiamare da un autista greco, che mi invita a sedere assieme a lui e altre tre persone, due erano italiani e l’altro canadese. I due italiani erano geometri e il canadese era tornitore, tutti assunti a Buenos Aires. . Il greco, venne subito al dunque, erano interessati a visitare la foresta di Jaramillo, ma non avevano nessuna possibilità e volevano che io li accompagnassi. Il greco sapeva tutto di me, ero capace nel mio lavoro, in quei luoghi la teoria non valeva molto, valeva l’arte dell’arrangiamento e di questo avevo un buon bagaglio. I miei maestri si erano fatte le ossa in tempi di guerra e ci avevano forgiati con rigore e amore per il mestiere. Ci mettemmo d’accordo e ci dividemmo i compiti. . Io dovevo impegnarmi a trovare tre campagnole Fiat e relativo equipaggiamento; i geometri dovevano attrezzarsi per tracciare le mappe con le strade da percorrere e il canadese, assieme al greco, dovevano provvedere per la logistica e il carburante. . Loro ogni ventuno giorni di lavoro avevano diritto a nove giorni di riposo e potevano andare a Buenos Aires, 1200 km senza strade o ferrovie. Io lavoravo sempre ma, quando volevo, potevo mettermi d’accordo con i miei colleghi e assentarmi due tre giorni. Parlai a lungo con il capofficina e il capocampo, il primo mi disse no, mentre il capocampo, dopo avere parlato con il greco, mi disse che se volevo potevo andare, ma senza la sua personale responsabilità. . In quindici giorni nei ritagli di tempo, quando dovevo riposare, aiutato dai miei compagni dell’officina, approntai tre campagnole con rimorchio. Un rimorchio adibito con attrezzatura e pezzi di ricambio, un altro carburante e acqua e il terzo per i generi alimentari. . Devo precisare che per ragioni di contabilità industriale, i mezzi aziendali compiuti cicli di lavoro, dovevano essere sostituiti e i vecchi distrutti. In mezzo a quelli da distruggere (li buttavano nell’oceano) c’erano mezzi efficienti, che erano preda dei militari e dei compari. Lì ho attinto e per i mezzi e per i ricambi, mentre abbiamo dovuto comprare il carburante, una vera spesa! . Primi di febbraio 1961, quella notte non riuscivo a dormire, andavo avanti e indietro per controllare le campagnole e ogni volta trovavo qualche cosa che avevo sbagliato, nella disposizione dei ricambi e degli attrezzi. . All’alba, si fa per dire perché lì era sempre giorno, partimmo sorbendoci i sorrisi di scherno dei presenti. Tutti scommettevano che dovevano venire a cercarci. Viaggiammo per circa tre ore su piste di terra battuta, fra pozzi di petrolio in attività e molti abbandonati. . Finito il perimetro dei giacimenti, si presentò ai nostri occhi una infinita pianura: sembrava di essere in alto mare. Fino a quel momento i pozzi ci davano la sicurezza che lì era passato l’uomo, oltre c’era il deserto senza sabbia solo arbusti alti un metro, a volte dovevamo ritornare indietro per aggirarli. . A questo punto il canadese prese una cassetta di legno che avevo notato, chiusa a chiave e con lucchetto. Mi fece fermare, l’aprì e tirò fuori tre aste, di circa 30 cm. A me sembravano dei cannocchiali, erano dei tubi, uno dentro l’altro; li allungò e fece un tre piedi, alto un metro e mezzo. Lo aveva costruito lui al tornio, poi prese una cassetta di legno sulla quale era incastonata una giro bussola e delle asticelle di legno con numeri e simboli. . Il geometra mise sul cofano della campagnola carta da disegno a quadretti e mi chiese la mappa. Gliela diedi e chiesi al canadese cosa servisse lo strumento che aveva approntato, mi rispose che era un sestante per non perdere l’orientamento e fare la mappa per il ritorno. . Il greco rimase seduto e non disse una parola. I due geometri e il canadese si misero al lavoro e io controllai l’acqua e l’olio alle campagnole, presi una stuoia, mi misi a dormire e mi svegliarono all’ora della partenza. Camminavamo a un velocità media di trenta km all’ora. Ma non ci annoiavamo perché era una continua gincana. Nella macchina di testa viaggiavano il greco e il canadese, io da solo nel mezzo e dietro i due geometri, che a turno, tracciavano su carta millimetrata il percorso, in base alle coordinate che gli dava il canadese. . All’improvviso apparve una vallata, sembrava una grande fossa scavata nell’immensa pianura. Al centro si vedeva una casa e altre più piccole e dei capannoni, alberi e coltivazioni, pecore, vacche e cavalli, tutti liberi. Trovammo la strada per scendere, il greco che era diventato il capo, stabilì che non si poteva scendere con il rimorchio: era vero. Così sganciammo il mio rimorchio e con uno dei due geometri, altoatesino e parlava l’austriaco, scendemmo piano piano senza incontrare nessuno, per sette o otto chilometri. . Vicino al laghetto siamo stati circondati da una diecina di persone armate, anche con mitra. Scendemmo dalla campagnola, la mia giovane età li tranquillizzò e abbassarono le armi, però guardarono dentro la macchina. Gli uomini erano, due argentini e gli altri cileni, non erano molto loquaci, né facevano domande. Anche noi eravamo armati di pistole e di fucili da caccia, però il greco ce li aveva fatto lasciare nella campagnola, ci dissuase dal prenderli. . Io incominciavo ad avere paura, il mio compagno ostentava tranquillità. A un certo punto sentii il trotto di alcuni cavalli, in sella c’erano tre persone. Quando si avvicinarono mi accorsi che erano due gauchos e un signore elegante dai capelli biondi, il quale scese da cavallo e ci girò attorno. . Io avevo la tuta della Saipem e la campagnola gialla, segno inconfondibile in quei luoghi, di appartenenza all’ENI italiana, i nordamericani erano invisi alla popolazione. Con tono sprezzante mi disse, in un argentino strano: «ragazzino ti sei perso, sei lontano dal tuo accampamento». . Gli risposi alquanto intimorito, che ero diretto alla foresta di Jaramillo e che ero sceso incuriosito del posto. Senza tanti preamboli mi disse di andare via, perché gli uomini dovevano lavorare. Provai ad allungare la mano ma lui non si mosse, mi accorsi che, sotto la giacca di velluto, portava una pistola Mauser calibro 45. . Il padrone della fattoria, che al mio amico non aveva rivolto la parola, dopo che ebbi avviato il motore, mi disse che era dispiaciuto di non poterci dare ospitalità, perché aveva la moglie ammalata e la foresta non era lontana. Raggiunti gli altri tre ci allontanammo in fretta. Avevamo viaggiato per circa dodici ore, fermandoci in tutto due volte, per mezzora, a mangiare. . All’improvviso gli arbusti sparirono come d’incanto. La terra era mista a pietrisco nero, faceva paura. L’orizzonte era rosso, alba e tramonto australe si mescolano. Viaggiammo per diverse ore, finché il pietrisco nero diventò luccicante, sembrava di essere sulla battigia del mare con tutte quelle pietre colorate. L’oceano era lontano centinaia di chilometri e ci fermammo per riposare e mangiare. Non si poteva guardare per terra a causa del riflesso luminoso del pietrisco, sembravano diamanti. . Su quel terreno sdrucciolevole usammo la doppia trazione della macchina e camminavamo a 60 70 km all’ora. Senza renderci conto ci ritrovammo davanti enormi alberi disseminati per terra, non potevamo andare oltre. Ci avviammo a piedi, per cinquecento, seicento metri. . Eravamo nella foresta pietrificata. La foresta aveva una estensione quanto mezza Italia. Durante il viaggio e sul posto scattai molte fotografie. Presi per terra pigne e pezzi di legno pietrificati (ancora oggi conservo un tronchetto come ricordo). . Il ritorno all’accampamento fu più semplice e spedito. Per sviluppare le foto, le dovevo inviare a Buenos Aires. Quando mi apprestavo a spedirle, il greco mi disse che all’indomani andava a Baires e a darle a lui che avrebbe fatto delle copie per tutti. Gli diedi il pacco con i negativi, ma le fotografie non sono mai arrivate. . Nello spazio di qualche giorno seppi che erano spariti tutti e quattro, si erano licenziati; erano quattro ebrei a caccia di nazisti e fascisti, i due italiani, uno era ex poliziotto, l’altro sergente pilota, il canadese ex militare che aveva combattuto in Francia e il greco era un partigiano jugoslavo. Si erano serviti di me per non dare nell’occhio. . Il tedesco della fattoria assieme a tutta la famiglia era stato trucidato dopo un paio di mesi da ignoti. Lo venni a sapere dopo qualche anno. E pensare che il greco mi sembrava una brava persona! Parlava correttamente cinque lingue. Di quell’evento non ho nessuna testimonianza fotografica, credo che sia stato un bene, sicuramente avrei parlato e non mi avrebbero lasciato in vita. ... . ... Patagonia 1960. ... . ... Da un anno lavoravo nella Meseta Espinosa, operaio comune, con mansioni di meccanico, autista di mezzi pesanti, auto e mezzi di soccorso. Lavoravo in media 15 17 ore al giorno, che mi venivano ben pagate. Fra stipendio e premi di produzione avevo un’ottimo guadagno, franco spese di vitto e alloggio. Naturalmente il lavoro era pesante e rischioso, i soldi si sudavano: l’inverno Australe, poche ore di luce, ghiaccio e rischi continui, mettevano a dura prova il fisico. . Avevo 19 anni ed ero il più giovane delle ventinove persone, tecnici della Saipem Eni cantiere Argentina. Nell’accampamento di Perro Negro, perforazioni petrolifere. . Devo molto a quelle persone che mi hanno aiutato a sopravvivere o meglio a vivere. Certo da parte mia c’era l’incoscienza della gioventù che mi dava la forza di essere sempre pronto a lavorare. Ero il tappabuchi dei trasporti, finito il lavoro in officina, in media dieci ore, conducevo un camion di bentonite, all’impianto di perforazione, da percorrere 30 40 km sul ghiaccio; oppure l’ambulanza: gli incidenti erano soventi e a volte c’erano anche i morti. . Quando sono partito per l’Argentina, non sapevo esattamente dove ero diretto. Quando a casa ricevettero la mia prima lettera consegnata dopo circa un mese di tempo, scoprirono che a Comodoro Rivadavia, abitava il cognato di mia zia, sorella di mio padre. . Il nostro indirizzo di riferimento era Comodoro, ma l’accampamento era a molti chilometri di distanza. Due volte al mese conducevo l’autobus dall’accampamento a Comodoro, trasportavo il personale e il giorno seguente ritornavo con altro personale. Fra queste persone, alcuni andavano a divertirsi due tre giorni; altri se ne andavano e neo assunti arrivavano. Sul pullman non c’era differenza di nazionalità o di ansioni, a differenza delle compagnie statunitensi invise alla popolazione locale, dove c’era una netta divisione tra le varie categorie. . Non andai mai a trovare i parenti di mia zia, per mancanza di tempo. Vennero loro a trovarmi all’accampamento e poi incominciai a frequentarli. Finito l’inverno, non stavo bene, le temperature rigide avevano messo a dura prova il mio fisico e lamentavo dei dolori all’osso sacro, era una fistola. Nell’accampamento c’era un infermiere, e siccome spesso conducevo l’ambulanza, eravamo diventati amici. . Lui mi consigliò di operarmi e mi recai a Comodoro all’ospedale. La struttura era moderna e ben gestita a livello medico e logistico. Gli italiani e gli spagnoli eravamo ben trattati, meno gli altri stranieri, i gringos nordamericani malvisti. . Ricordo un texano della Halibut con due gambe rotte, era sempre ubriaco e l’inserviente per dispetto, gli cambiava il pollo arrosto con cornacchie o gabbiani, che il texano gli pagava lautamente. Il medico che mi operò si chiamava Kuluvata, qualche anno fa diventai amico su facebook di Alejandro Kuluvata e recentemente scoprii che è il figlio di quel dottore, ormai morto da molti anni. . Avevo taciuto alla famiglia dei parenti di mia zia il mio ricovero, non volevo che a casa sapessero, con conseguente preoccupazione. Era già passato qualche mese, avevo ripreso a lavorare e mi trovavo a Comodoro, nelle vicinanze dell’abitazione dei parenti di mia zia. . Lungo la strada incontrai un infermiere dell’ospedale e ci salutammo, questi era amico dei familiari della zia e a Bovalino, a casa mia, vennero a sapere quanto avevo nascosto. . Per i miei genitori fu un dramma che durò finché non ritornai un anno dopo. Racconto questi episodi della mia vita giovanile, con la speranza che le ultime generazioni riflettano sul senso della vita. La vita sociale e economica si conquista giornalmente e se vogliono avere rispetto personale, devono rispettare i ruoli reciproci. L’egoismo del voglio è deleterio: meglio vorrei, se possibile! ... . ... A Gnura Peppina. ... . ... Quand’ero adolescente, accanto all’abitazione della mia nonna materna, abitava una famiglia della quale una componente, negli anni venti, era sparita: dissero che «sa ndavia levatu a Hiumara». All’epoca, le donne del popolo, si recavano alla fiumara a fare il bucato e a rifornirsi d’acqua da bere, che trasportavano con un’anfora, la quartara. . Erano donne denutrite dalla povertà, dalle gravidanze e dalle malattie. I mariti erano emigrati nelle Americhe in cerca di lavoro, erano gli anni della depressione economica mondiale. Era il tempo della Rivoluzione d’Ottobre e della quota quaranta dell’Occidente. Quella povertà economica e sociale si trascinò fino agli anni ’60! . Fra le tante leggende, quelle dei racconti dei nonni attorno al braciere in inverno, anche se colorate, traevano sempre spunto dalla realtà. Una mi ha particolarmente colpito, quella da Gnura Peppina, che si disperava perché il marito emigrato in Argentina non scriveva più e si sentiva abbandonata. . Addirittura alla fiumara, spesso si metteva a urlare e imprecare contro la cattiva sorte e, le amiche di sventura, che non la sopportavano, di solito l’abbandonavano. Fu così che una mattina d’improvviso la fiumara si ingrossò e della gnura Peppina, che si era allontanata, non si seppe più nulla, nel paese si era sparsa la voce che se l’era portata via la fiumara impetuosa. Questo si disse, ma il corpo non fu mai trovato. . Era il 1961 e per motivi di lavoro mi trovavo a Buenos Aires, alloggiavo all’Hotel Florida, in via Florida y Corrientes, nel centro della città, a spese della società per la quale lavoravo. Un giorno andai a trovare un amico di mio zio soprannominato u zighì, Dattilo, un barbiere che lavorava in Plaza Once. . U zighì era stato discepolo di mio zio: giovanissimo era emigrato in Argentina, lo trovai sposato e con due figli. L’incontro fu particolare: io non lo conoscevo, tutto quello che sapevo era che lavorava da barbiere in Plaza Once. Andai diverse volte in questa piazza “immensa”, entrando nelle sale e domandando se c’era un barbiere calabrese. . Un giorno quando avevo perso la speranza di trovarlo, dovendo cambiare un assegno bancario, entrai in una filiale del Banco Argentino. Come era di prassi diedi al cassiere il mio passaporto come documento. . Mentre compilavo il modulo, il cassiere si allontanò con il mio passaporto e ritornò insieme ad un’altra persona, la quale mi guardò e mi disse: «mia madre è di Bovalino», il cognome era Stillitano. . Gli chiesi se conoscesse un barbiere calabrese che lavorava nei dintorni. Mi rispose di no e quando gli dissi che ero entrato quasi in tutte le sale della piazza, mi indicò che nascosta dagli autobus c’era un altro salone da barba. Era lontano, però mi avviai, convinto che avrei perso tempo. . Finalmente lo trovai ed entrai, mentre mi guardavo attorno si avvicinò un barbiere e mi chiese: «qué hacemos el pelo?», (facciamo i capelli?) e mi tirò per un braccio dicendomi: «si segga qua». Così usavano fare. Mi sedetti e lui mi guardò negli occhi e continuò:« lei è italiano?». . Io annuii e senza darmi tempo disse in dialetto, prima parlava in spagnolo, «mannaia a ... mu tu si u niputi i Mariu Camera!». Lo disse gridando e attirando l’attenzione dei presenti, poi mi spiegò che durante la guerra mi aveva tenuto in braccio. La domenica mi invitò a casa sua, abitava in periferia e fu festa indimenticabile. . Gli altri Stillitano che si trovavano in Argentina però non li conosceva. Una sera rientrando trovai un biglietto con un numero di telefono e poche righe che mi invitavano a contattare un numero telefonico, perché il dr. Stillitano non riusciva a trovarmi in albergo. In realtà tenevo il telefono staccato quando ero in camera. . Quando provai a telefonare, mi rispose una voce di donna, seccata mi disse che avevo sbagliato numero. Il giorno seguente ripartii per Comodoro in Patagonia. Dopo circa un mese ritornai a Buenos Aires. All’accettazione dell’Hotel Florida, dove ero conosciuto, mi fu recapitato un messaggio datato il giorno che ero partito, da parte del Banco Argentino, che mi invitava a contattare il signor Stillitano tramite il numero telefonico allegato. . Il giorno seguente di buon mattino ero preoccupato, non immaginavo il motivo della richiesta, telefonai e il signor Stillitano mi chiese se potevamo incontrarci nel pomeriggio, in una cuonfiteria in via Corrientes, vicino all’Hotel Florida. Negli ’60 a Buenos Aires era di moda il caffè all’italiana e in quel periodo c’era la canzone “Voy a tomár un café all’italiana”. . In Calle Corrientes, non lontano dall’hotel dove io alloggiavo c’era uno di questi “bar” alla moda. Dopo il caffè mi accompagnò all’hotel ed era avido di sapere notizie dell’Italia, di Roma, del Papa, di Mattei, presidente dell’ENI che era la diga contro lo strapotere delle compagnie petrolifere americane. . All’appuntamento feci la conoscenza del fratello e bevendo il mate mi chiesero se potevo andare con loro dalla madre, che da quarant’anni non aveva notizie da Bovalino. Ci avviammo in taxi alla periferia, dove avevano parcheggiato una vecchia Ford, tenuta in ottime condizioni. Gli chiesi quanto era lungo il percorso e dove andavamo. . Mi rispose che saremmo andati ad Olivos e, notando la mia meraviglia, ebbe un’espressione di grande soddisfazione. Olivos era e forse lo è ancora un pezzo di Buenos Aires residenziale, dove vivono le famiglie che danno i natali alla classe dominante dell’Argentina, tra militari, economisti, politici e prelati. . Dopo un’ora arrivammo davanti a una villetta, dal giardino ben curato. Erano tutte ville, quasi uguali, viali alberati, era un quartiere residenziale. Sulla porta di casa c’erano due donne, una vestita da infermiera, l’altra era la sorella, una donna bella e simpatica dall’espressione solare, tipica delle donne cittadine. Io ero abituato alle donne patagoniche, che erano agli antipodi. . Dopo i convenevoli d’uso entrammo in un salone, in fondo al quale, in penombra, su una poltrona, circondata da tavoli e tavolini sedeva una donna anziana. Aveva le gambe coperte da una pelliccia di caprone delle Ande. Era il mese di febbraio e lì è estate, rimasi fermo e lei mi disse: «avvicinativi ca ieu no viju, ndavi tempu chi non parlu cu unu i Bovalinu». Mi avvicinai e mi resi conto che non vedeva, le diedi la mano e sentii che era gonfia e bagnata. . Intanto il figlio prese una poltroncina e mi fece sedere. Su sua richiesta le dissi come mi chiamavo e di chi ero figlio e lei con garbo mi chiese «pe favuri dicitimi cu ennu i nonni vostri», questo è il momento straordinario che ho vissuto. . Le risposi: «la madre di mia madre è a gnura Rosina Quattroni». Lei mi strinse la mano, pensò e mi chiese: «siti figghiu i Ernesta o Chicchina?». Lei mia zia Genoveffa non la conosceva, perché ancora non era nata. I figli non capivano i nostri discorsi, ma erano molto attenti e gioivano. Poi seppi che era sempre taciturna, essendo da anni ammalata e allettata. Mi chiese notizie delle vicine, le varie comari, poi mi raccontò la sua storia. . Finita la prima guerra mondiale, il fidanzato era ritornato e si erano sposati, c’era fame e non c’era lavoro e il marito, come gli altri, emigrò in Argentina. Lei per mangiare, come le altre donne, andava alla fiumara, faceva la lavandaia e portava a casa acqua da bere. Dopo qualche anno non ricevette più notizie dal marito. Spesso gli uomini dimenticavano la famiglia, ubriacandosi del benessere che trovavano in quella terra lontana. . Ella non si rassegnava e andava alla fiumara, anche da sola e con la fiumara in piena. Quel giorno un treno si fermò prima del ponte, all’epoca i macchinisti prima di passare controllavano i ponti. Senza pensarci, salì sul treno senza documenti, senza soldi e con i vestiti che aveva addosso. . Mi raccontò: «ero giovane e bella conoscevo solo il dialetto calabrese, immaginate quante ne ho passate e quanto ho sofferto, ho impiegato quattro mesi per arrivare all’indirizzo che avevo dall’ultima lettera. Lì ho scoperto, che mio marito non mi aveva abbandonata, era ammalato di tubercolosi e ricoverato nell’ospedale fuori città. Lo trovai in condizioni pietose, ammalato e avvilito. Presi in affitto una casa vicino all’ospedale e lo portai a casa e con l’aiuto di un medico spagnolo e di una infermiera, che poi è stata la mia migliore amica, lo abbiamo curato. . Ho fatto tutti i lavori buoni e cattivi. L’ho accudito e sono nati tre figli, che adoro e che come vedete mi adorano. Hanno lavorato da piccoli e nello stesso tempo studiavano, si sono laureati, la ragazza è medico, i maschi sono laureati in economia, sono sposati, ma a turno la sera dormono qua con me, perché sono ammalata, anche se loro pagano due donne, che mi assistono». . Si era fatto tardi. Ci salutammo e le promisi che sarei ritornato a trovarla. Promessa che non ho potuto mantenere. Sono ritornato a Buenos Aires dopo un anno e mezzo, per due giorni, in mezzo alla rivoluzione: nel caos. Ma non la rividi più! ... . ... Mariela. ... . ... Primavera australe del 1961, Buenos Aires, aeroporto di Ezeiza in attesa dell’imbarco per Comodoro Rivadavia. Puntuali siamo arrivati con il mio amico e compagno di lavoro Carlo, io calabrese e lui romagnolo, io 21 anni, lui 40 e sposato con un figlio di 6. Eravamo in Patagonia da oltre due anni, le date sono importanti. . Avevamo consegnato i bagagli e i documenti d’imbarco e aspettavamo di salire sul Dakota DC3, originariamente ex fortezze volanti della seconda guerra mondiale. Era passata più di un’ora dall’orario di partenza, quando il megafono annunciò due ore di ritardo per avaria all’aeromobile. . Era consueto il ritardo, così ci sedemmo e chiacchierando passarono tre ore, era tarda notte. Carlo continuava a parlare della moglie, bella donna e donna di casa, aveva conquistato i genitori di lui, grande lavoratrice e molto religiosa, in un paese di comunisti, a suo dire, era emarginata. . Carlo era un perforatore ed ex partigiano, aveva studiato ma non si era diplomato a causa della guerra. Mi dava spesso dei consigli, come ad un figlio. A mezzanotte comunicarono ulteriore ritardo di altre tre ore. . Facevamo la spola, fra la sala d’attesa e il bar, bevendo sidro e whisky, finché fummo attratti da due belle ed eleganti ragazze, fecero tutto loro e ci ritrovammo seduti a bere. Lavoravano nell’hotel dell’aeroporto come hostes. I genitori di Mariela, erano tedeschi e vivevano a Cordoba, lei parlava anche l’inglese e il tedesco, avevamo la stessa età. Mi propose di andare con lei. . Carlo mi chiamò da parte e mi disse: «non hai capito che sono due prostitute?». Io ho una moglie che adoro, rimango qua, stai attento a non perdere il volo, perché domani dobbiamo lavorare, non siamo qua in vacanza. . Non gli detti ascolto, anzi lo mandai a quel paese, era anche l’alcool, lui lo reggeva meglio di me, e con Mariela ci allontanammo e andammo nella sua camera al quinto piano. Mentre salivamo in ascensore, Mariela mi disse: «qua faccio la cameriera per copertura, i miei clienti sono nordamericani, ubriaconi e insolenti, li odio, voglio passare qualche ora con te che hai la mia stessa età, da te non voglio soldi, voglio solo gentilezza, oggi ho avuto quattro clienti. Stai tranquillo sono sana, mi faccio visitare tutti i giorni!». Mi fece tanta tenerezza. . Lei naturalmente era attrezzata e pretese gli accorgimenti del caso. Nell’ambiente che frequentavo era un evento unico quanto mi stava capitando, la sbornia si stava diradando, merito della doccia e della professionalità di Mariela, quando qualcuno bussò ripetutamente alla porta, Mariela andò ad aprire. Era Carlo con l’altra ragazza, e mi diceva di fare presto perché l’aereo stava per partire. . Mi vestii alla meglio, addirittura l’amica di Mariela mi allacciava le scarpe, mentre Carlo teneva occupato l’ascensore, misi la mano in tasca e senza guardare, presi dei dollari e li misi sul comodino e con la giacca in mano corsi verso la cabina. Arrivati al cancello misi la mano in tasca per prendere la carta d’imbarco, l’aereo aveva i motori in riscaldamento e gli altoparlanti scandivano la partenza. . Dissi a Carlo di imbarcarsi, certamente la carta l’avevo dimenticata da Mariela e mi misi a correre verso l’hotel. Arrivato all’ascensore usciva Mariela, aveva in mano la carta d’imbarco e due pezzi da venti dollari. Continuammo con Carlo a correre verso la sala d’imbarco, ma a metà sala ci siamo accorti: l’aereo era partito! . Carlo si mise a bestemmiare, non lo avevo mai visto così arrabbiato, Mariela si mise a piangere, si sentiva responsabile, io ero confuso non sapevo cosa dire. Passata la bufera, alle prime ore del mattino, andammo a prendere un caffè, che diventò una colazione di un’ora e mezzo! . Mariela volle pagare il conto con una parte dei soldi che le avevo dato e ci accompagnò al terminal di Austral per cercare un altro volo! Una grande confusione animava la sala, chi gridava, chi si disperava, un uomo anziano per terra, che rischiava d’essere calpestato. Chiesi a un poliziotto cosa stava succedendo, lui mi guardò e quasi sussurrando mi rispose che l’aereo partito per Comodoro era precipitato, non si era salvato nessuno! . Mi sedetti per terra, sentivo caldo in faccia, poi, d’improvviso, sentii nuovamente il vociare e Carlo che mi diceva: «vado a trovare un telefono per dire in ufficio che siamo salvi». . In città c’era un ufficio di rappresentanza della compagnia, Carlo se ne andò dicendomi di non allontanarmi. A Mariela dissi di andare a lavorare perché era già tardi e lei continuava a carezzarmi sul viso, con la sua mano vellutata, mentre io provavo vergogna di dirle che avevo bisogno di andare in bagno. . Lei si accorse del mio stato, mi diede una mano per alzarmi, entrò nel bagno degli uomini, tra le proteste dei presenti e, tenendomi la fronte, vomitai. Ritornammo dove dovevo attendere Carlo, mi trovò una sedia e io insistetti che andasse a lavorare. . Mariela mi prese la faccia fra le mani, mi guardò negli occhi, sfiorando con le sue le mie labbra, cosa che non mi aveva permesso prima. Se ne andò senza girarsi. La cercai tante volte, quando passavo da quell’aeroporto, ma nessuno la conosceva, lì non aveva mai lavorato una cameriera come quella che cercavo. Era una prostituta d’alto bordo il mio Angelo custode che mi aveva salvato la vita! . Rientrammo all’accampamento di Picu Truncado, nella Meseta Espinosa in Patagonia, dopo tre giorni. All’accampamento, morti e feriti sul lavoro erano frequenti, eravamo assuefatti. I premi di produzione di quei tempi, molti arrivano anche alle 200 mila lire al mese, che oltre allo stipendio e franco spese, ci rendevano privi di sentimento umano! . Nell’accampamento, eravamo circa quaranta persone a contratto assunti in Italia, tutti da quaranta ai sessanta anni di età, eccetto io e un altro, ventenni. C’erano inoltre qualche centinaio, assunti a Buenos Aires e la manovalanza presa sul posto, circa centocinquanta. Questi ultimi erano una legione straniera. . La nostra compagnia Saipem Eni li trattava da lavoratori e li pagava, mentre negli accampamenti nordamericani, texani, venivano trattati come schiavi! Da noi si mangiava nella stessa mensa, dagli americani a parte e non potevano entrare nel bar a bere alcool. . Io pensavo tanto a Mariela, qualcuno mi sfotteva, altri mi dicevano vedrai che la incontrerai, ma se vuoi rivederla, fai molta attenzione sul lavoro, sei troppo distratto. Carlo, in ogni occasione mi diceva, dimentica. Qui hanno un altro modo di vivere, ti devi sposare in Italia. . Il nostro lavoro ci porta in giro per il mondo e quando ritorniamo, dobbiamo trovare la moglie a casa, che ci aspetta con amore! Nella stanza di Carlo, le pareti erano tappezzate dalle foto della moglie e qualcuna del figlio e dei suoi genitori. . Con il mio lavoro ero spesso in giro per i paesi vicini. Un giorno scoprii un artigiano che lavorava le pelli di volpe e di caprone selvatico delle Ande. In città frequentavo una famiglia di Bovalino con la quale avevo parenti in comune. La padrona di casa, donna calabrese alla vecchia maniera (la ricordo sempre con tanto affetto), mi disse di comprare una coperta che in Italia aveva molto valore. . Mancavano due mesi per il rientro in Italia, così comprai due coperte con relativi scendiletto, andavano rifiniti e foderati. Li feci vedere a Carlo il quale pretese che andassi a comprargli delle pelli di volpe argentata. Insieme andammo in città e trovammo una sarta che confezionò un cappotto per sua moglie. Carlo era un perforatore, gente rude che non ride mai, in quell’occasione esternava tanta felicità e mi diceva: «in paese l’avrà soltanto lei, tutti la invidieranno, se lo merita, è giovane e bella, sono due anni che mi aspetta con fedeltà e amore!». . Viaggiammo in Comet delle Aerolinee Argentine, poche compagnie aeree al mondo vantavano questo aeromobile. Diciotto ore di volo Buenos Aires Milano, con quattro scali. A bordo ci siamo ritrovati solo sette passeggeri e dodici persone d’equipaggio. . Noi non sapevamo che questi aerei potevano esplodere in volo, ne siamo venuti a conoscenza in Italia, quando al ritorno l’aereo esplose nel cielo di Recife in Brasile. Il viaggio è stato favoloso, caviale champagne e whisky a volontà, allegramente assieme alle hostess e steward. . Arrivati a Milano, espletate le formalità doganali, non senza problemi a causa delle pellicce, delle sigarette e bottiglie di whisky, siamo usciti dall’aeroporto Malpensa. Fuori c’era confusione sul marciapiede e poche auto, io cercavo un taxi e Carlo scrutava in mezzo alla gente. Si fermò una Fiat 1500 colore nero, nuova di zecca, al volante una donna bellissima, elegante e molto curata, a fianco un ragazzino esile, quasi malaticcio. . Il ragazzo scese dall’auto e corse da Carlo, la donna parcheggiò e uscì come una diva! Si abbracciarono tutti e tre, con grande effusione da parte di Carlo. Poi ci furono le presentazioni e si offrirono di darmi un passaggio sino a Linate, si era sulla loro stessa strada, dovendo percorrere la Via Emilia. . La signora sapeva tutto di me, la storia di Ezeiza, ma voleva sapere se Carlo avesse fatto l’amore con altre donne. Si creò una discussione, con parole grosse da parte della signora, incurante della mia presenza e del figlio che piangeva. Scesi dalla macchina a Linate e non ci siamo dati neanche la mano. Baciai il bambino e lei parti a razzo! . Dopo venti giorni andai a Milano e all’ufficio del personale incontrai Carlo. Era un uomo distrutto, trasandato e avvilito. La moglie aveva dilapidato tutti i risparmi e l’aveva trovata incinta di quattro mesi. . Lui mancava da due anni da casa. La casa costruita con i soldi del marito se l’era intestata lei e aveva rotto con i suoceri. Carlo mi disse: «se trovi Mariela, dille da parte mia che è una signora! Io in Argentina non ritorno più, vado in Africa e rimango lì». E lì trovò la morte dopo qualche anno. Io non trovai Mariela per darle i saluti e il messaggio! ... . ... L’anello. ... . ... Luglio del 1962, mi trovavo a Comodoro Rivadavia nel ristorante del Comodoro Hotel, al tavolo miei ospiti tre compagni di lavoro, un italiano, un greco e un cileno, festeggiavamo il mio ritorno in Italia, dopo due anni di lavoro. La sala era affollata, con qualche tavolo riservato. Il pranzo in quei ristoranti iniziava a mezzogiorno e si concludeva alle tre del pomeriggio. Tra un piatto e l’altro poteva passare anche mezzora, tutto veniva cucinato al momento. Fuori la temperatura era a meno 10 gradi. . Avevamo iniziato con l’antipasto e vermut quando il mio amico cileno mi disse: «quello non è il tuo amico inglese?». Mi girai e vidi il Console inglese assieme alla moglie, alle bambine e altre due persone, che sedevano ad un tavolo prenotato. . Qualche mese prima, in mezzo a un giacimento petrolifero, con una temperatura di meno 16, tutto ghiacciato, c’era un’auto Chevrolet ferma e dentro delle persone. Eravamo distanti da Comodoro Rivadavia 300 km e dall’accampamento Saipem 60. Io ero con la Fiat Campagnola assieme a due cileni, mi avvicinai e scoprii dall’autista argentino che si erano persi, dovevano andare a Comodoro Rivadavia e provenivano da Puerto Deseado. A bordo dell’auto c’era il Console inglese con la moglie, due bambine, una di dieci e l’altra di cinque anni. . Erano stati fortunati perché, lungo il percorso, quei luoghi erano disseminati di enormi vasche di cento e passa metri quadrati piene di fango, residui delle perforazioni, che coperte dalla coltre di ghiaccio erano trappole mortali. Noi eravamo pratici del posto, ma rischiavamo pure, e qualcuno ci ha rimesso la vita. Fu così che li portammo con noi all’accampamento. Il capocampo li ospitò nel suo prefabbricato e cenammo assieme nella mensa. . Il capo campo, un geometra altoatesino, forse ex ufficiale tedesco, parlava molto bene tedesco e inglese, ma stentava con l’italiano. Io stavo zitto anche perché con l’inglese ero scarso, ma capivo perfettamente che tutti e due erano razzisti nei confronti dei cileni, argentini e anche italiani. . Il giorno dopo accompagnai il Console per circa 100 km, dove la pista era curata e trafficata. Ci salutammo con una stretta di mano, la moglie, come avevo fatto io, si era tolto i guanti, lui no! Le bambine mi hanno abbracciato e la piccolina ha pianto. La moglie mi invitò ad andare a trovarli e finì lì! . Nel ristorante, fra noi e loro, c’erano molti tavoli occupati, mi alzai e mi avvicinai al tavolo. Li salutai in spagnolo, la signora rispose in inglese, mentre il marito si limitò, da seduto, ad allungare la mano. . Gli ospiti rimasero muti, le bambine si alzarono e mi abbracciarono. Pochi secondi e il padre con gli occhi le zittì e tornarono a sedersi. Nessuna presentazione, né mi offrì da bere come lì era d’uso. Mi chiese solo come mai mi trovavo in quel posto. Gli risposi che il giorno seguente a mezzanotte sarei partito dall’aeroporto di Ezeiza a bordo dell’aereo Comet, destinazione Roma. Augurai buon pranzo e ritornai al mio tavolo. . Il giorno seguente 27 luglio ero a Buenos Aires, aeroporto internazionale di Ezeiza, pronto per l’imbarco mi si avvicina un signore elegante e mi chiede: «si ricorda di me?». Lo guardo, lo riconosco, ma per istinto di rabbia gli dico di no. Lui in perfetto italiano, ma con evidente accento romanesco, mi spiega che il giorno prima era a pranzo con il Console inglese. . Dopo di che mi disse: «dovete farmi un grande favore, dopodomani, a Roma si sposa mia nipote», mette le mani in tasca, tira fuori una busta e mi spiega che dentro c’è un anello d’oro e un biglietto d’auguri. Sulla busta c’era scritto l’indirizzo, mi porge trenta dollari per il taxi, che io rifiuto. Intanto ci incamminavamo verso la scaletta dell’aereo e lo steward mi fa cenno di sbrigarmi a salire. . Intanto mi domandavo chi era quella persona che poteva arrivare fino all’imbarco dell’aereo. Arrivato a Roma Fiumicino, dovevo attendere la coincidenza per Reggio Calabria alla stazione ferroviaria. Avendo ancora tempo disponibile per la partenza, in taxi andai all’indirizzo vergato sulla busta. Ricordo, via Nomentana, una villa con alberi secolari ma la strada era misera, sapeva di periferia povera. . Dentro la villa diecine di auto, belle lucide con autisti. Il tassista si avvicinò al cancello, parlò con il custode ed entrammo con la macchina per circa cento metri, dicendo che arrivavo dall’Argentina. . Mi fecero entrare da una porta laterale in un salotto molto elegante con poltrone foderate di pelli pregiate. Quando si aprì la porta sentii un gran vociare, la signora, una matrona sulla cinquantina, prese la lettera che avevo in mano, l’aprì e vide l’anello. Non so quanto valeva, dette uno sguardo al pizzino e, senza degnarmi di un’occhiata, disse che era molto impegnata, si girò e se ne andò. Il “servo” mi fece cenno con la mano e mi accompagnò fino al taxi. Lì mi svegliai, ero come intontito, come se mi avessero preso a pugni. Il tassista mi vide sconvolto, chiedendomi il perché. Gli raccontai della matrona scostumata e lui mi informò che era una contessa, vedova di un repubblichino di Salò. . Dopo un mese ritornai a Comodoro e seppi, ma non lo rividi più, che il tizio dell’anello era un fascista, l’altra persona vista in Argentina era di origine ebrea. Che rapporti avevano queste tre persone, in apparenza, così diverse? ... . ... La Giustizia. ... . ... “La Legge è uguale per tutti”, così recitano tutte le Costituzioni che regolano i diritti e doveri dei popoli, quasi in tutto il mondo civilizzato. Nel mondo detto incivile valgono le regole tribali, spesso meno utopistiche delle Costituzioni scritte e osannate. . In tutti i tribunali del mondo, sotto varie forme e simboli la Legge viene amministrata in nome del Popolo. L’amministratore è un essere umano, con tutte le debolezze fisiche e psicologiche. Certo succede a volte l’equivoco, per i profani, dell’interpretazione delle norme. . Mi trovavo in un paesino nell’estremo sud dell’Argentina, un luogo anonimo in una immensa pianura, circa 5.000 abitanti, il 10% delle abitazioni erano in muratura e il resto in legno e lamiere. . In gennaio la temperatura media era di più 15 gradi. Nel mese di giugno incominciava a manifestarsi l’arrivo dell’inverno australe, la temperatura si abbassava a meno 17 gradi ed era fastidioso lavorare all’esterno. . Un giorno ritornavo assieme ad un compagno di lavoro dal vicino porto sull’Atlantico e ci fermammo a bere un mate per riscaldarci, nell’unico posto di ristoro, sul nostro percorso. Il locale era in muratura, con il tetto spiovente di legno e lamiere, aveva poche finestre e la porta d’ingresso, molto stretta, la sala era rettangolare e molto grande. . Appena entrati ebbi la sensazione di essere osservato dai presenti con diffidenza. Io salutai ma nessuno mi rispose, ci avvicinammo al banco e una ragazza giovane e carina mi disse: «largance» (se ne vada). Il mio compagno tirandomi per il braccio mi diceva di andare via. Girando lo sguardo, vidi in fondo al salone una donna per terra, in piedi un uomo con un coltello in mano e molti uomini attorno. All’uscita fummo fermati da due persone, che con tono autoritario si qualificarono polizia locale. . Ci sedemmo ad un tavolo e il mio amico cileno mi disse di parlare solo italiano, altrimenti ci avrebbero trattenuti fino all’indomani. . Mi sentivo come ubriaco: il vociare, l’aria pesante di fumo e di odori nauseanti di cucina, quella donna per terra (di morti sul lavoro ne avevo visti tanti come pure feriti che avevo soccorso) mi dava un senso di nausea e di paura. . Dopo circa mezzora, mi ero alquanto ripreso, si avvicinò uno dei due poliziotti, feci scena muta e gli diedi il passaporto e la tessera aziendale scritta in cinque lingue, mentre il mio amico gli spiegava che noi eravamo entrati poco prima di loro e non avevamo visto niente. Il poliziotto rispose che lui non poteva lasciarci andare se non arrivava il suo superiore e si mise a scrivere le nostre generalità. Bevvi una tazza di mate e un bicchierino di aguardiente (bevanda proibita ma regolarmente in commercio). . Io curiosavo, volevo scoprire cosa era successo. Tre persone sedute ad un tavolo vicino, convinte che non capivo quello che dicevano, parlavano a ruota libera. Il mio amico si era allontanato ed io mi intrattenevo leggendo una rivista italiana comprata al porto da un marittimo anche lui italiano. Il signore con il coltello era un ricco estanciero, possedeva migliaia di ettari di terreno, migliaia di pecore, bovini e cavalli, mentre la donna era la proprietaria del locale, ricevuto in dono da quell’uomo, quando anni prima era l’amante. . Nel locale lavoravano molte ragazze e l’estanciero, spesso fra un poker e l’altro, si intratteneva con loro e se perdeva al poker non pagava, con inevitabili liti con la padrona. Quel pomeriggio il copione si arricchì con l’estanciero ubriaco e la donna decisa a farsi pagare la prestazione di una giovane ragazza. . Dalle parole la donna passò ai fatti schiaffeggiando l’uomo, il quale era armato di coltello come tutte le persone del posto, lama venti centimetri, affilato come un rasoio. L’uomo colpì ripetutamente al petto la donna uccidendola sul colpo. . Era notte fonda quando arrivarono delle persone, era un giudice, un medico legale e altri poliziotti. Iniziarono interrogatori e verbali. Il mio compagno si avvicinò al giudice e gli disse quanto avevamo detto al poliziotto circa quattro ore prima. Il giudice chiamò il poliziotto, il quale gli passò un registro, parlarono e poi dissero al mio amico che potevamo andare via e, se fosse necessario, ci avrebbero convocati. . Il processo è stato celebrato al tribunale più vicino, distante 300 km. L’estanciero, su cauzione non aveva fatto un giorno di carcere. Era stato difeso da due avvocati arrivati dalla Capitale che sono riusciti a dimostrare la sua innocenza. Potenza dei danari! . Sono passati oltre 55 anni e nella società Occidentale la prevaricazione del potere economico calpesta la dignità umana. Le cronache sono eloquenti e la giustizia è sempre “uguale” per tutti! ... . ... Burocrati. ... . ... L’assetto Istituzionale è composto anche dalla burocrazia, come in tutte le sedi lavorative c’è il buono, il cattivo e l’abusivo. Il buono è rappresentato dal timorato che vuole vivere tranquillo, in percentuale il numero è limitato. . I cattivi, sono persone prive di scrupoli, leste ad approfittare delle debolezze dei cittadini, a volte create con arte a uso e consumo del burocrate. L’abusivo è incompetente, inoperoso e portatore d’acqua per i cattivi, i quali, quando possono, scaricano i loro misfatti sugli abusivi. Fino agli anni del 1960 e per un certo tempo la burocrazia mantenne alcuni privilegi, di natura normativa ed economica. . Nel 1957, ero apprendista meccanico e, spesso, assieme al mio mastro, maestro d’arte e di vita, o a qualche apprendista più adulto, lavoravamo per strada. Camion e autobus che erano vetusti rimanevano per strada e li andavamo a riparare. . L’officina aveva la sede a Bovalino, ma noi ci spostavamo nei paesi interni, fino a Reggio Calabria, a Serra San Bruno. Quante notti a Croceferrata, lavoravamo stesi per terra con le spalle sopra la neve. Ricordo che gli autisti, nella patente, mettevano dei soldi, servivano per eludere i controlli: i mezzi erano fatiscenti. Quanti episodi tragicomici, di cui uno in particolare; ero in una strada statale di montagna, dove un camion Fiat 121 aveva, a causa delle buche, rotto una balestra. . Il mastro, mi accompagnò e mi lasciò sul posto in compagnia dell’autista per fare la riparazione e rientrare con lo stesso. Mentre lavoravo, in precarietà essendo la strada in forte pendenza, sentii l’arrivo di una bicicletta a motore, poi un vociare in modo alterato. Stavo ultimando il lavoro, ma avevo bisogno dell’aiuto dell’autista e uscii da sotto il camion. L’autista che era un buontempone sfotteva il cantoniere dell’Anas, il quale appena mi vide disse: «veni cca, scrivi». . Lo guardai smarrito e l’autista rispose che avrebbe scritto lui. Bisognava scrivere un verbale di contravvenzione, poiché in una strada piena di curve, il camion non poteva fermarsi. Il cantoniere dettava articoli del codice della strada che conosceva a memoria; l’autista scriveva quello che voleva, improperî per lui e chi lo pagava. L’autista finì in pretura e fu condannato per oltraggio, il proprietario del camion pagò la contravvenzione mentre il cantoniere ebbe la sua percentuale: tutto il trambusto per incassare la percentuale! . Nel periodo che va dal 1960 e successivi anni, con il contributo dei partiti socialista e comunista, sinistra democristiana e sindacati degli operai, checché ne dicano e scrivano i detrattori della storia, vennero approvate delle Leggi Amministrative che misero fine, in termini normativi e economici, ai privilegi dei burocrati e imposero i concorsi per titoli ed esami nella pubblica amministrazione. . Chi non ha patito soprusi e ingiustizie, nell’esercizio dei propri diritti, da parte del burocrate di turno, nella vita? Fra le tante ingiustizie ricordo che per ragioni di lavoro mi trovavo in Patagonia Argentina, avevo venti anni e non avevo espletato il servizio militare di leva. Una sera fui avvicinato da un signore vestito elegante, non lo avevo riconosciuto. . Era un ex pilota militare tedesco che avevo visto all’accampamento con il suo aereo taxi Piaggio. Eravamo in un bar e gli offrii da bere, lui venne subito al sodo, sapeva che ero munito di permesso militare temporaneo e che al ritorno in Italia avrei dovuto espletare il servizio militare. . Mi propose un affare: compiere il servizio di leva presso il consolato di Comodoro e non avere problemi al rientro in patria. Lo avevano fatto molti italiani, bastava pagare. Io avevo venti anni e accettai la proposta. Al consolato versai circa trecento dollari. È stato solo un imbroglio: persi soltanto i soldi dati. . Dopo tanti anni, rientrando in Italia, all’aeroporto di Fiumicino a Roma, ho avuto la buona sorte di incontrare un sottufficiale di Polizia di Frontiera, che controllando i miei documenti disse: «domani l’arresteranno quale disertore di leva, lei è segnalato dalla Procura Militare di Palermo». . Su consiglio del poliziotto e dei Carabinieri di Bovalino, il giorno seguente mi presentai alla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, e dovetti sorbirmi 24 mesi di Marina Militare, imbarcato sulla nave Segugio. ... . ... Dauma. ... . ... Rio De Janeiro 1964, Sierra del Imperador, foresta amazzonica. Era in corso il colpo di stato in Brasile. Per circa un mese, noi nell’accampamento non abbiamo avuto notizie di quello che succedeva in città, distante 400 km; di cui 150 km di pista nella foresta, partendo da Miguel Pereira, altitudine 1300 mt, piccolo paese di circa 6000 abitanti. L’80% della popolazione era nera e schiava. . Le attività produttive riguardavano: agricoltura, allevamento di bovini ed estrazioni minerarie. Con il nostro passaggio costruivamo il gasdotto dall’Atlantico a Brasilia. Fiorirono le attività ricettive: hotels, ristoranti, case da gioco e la prostituzione. Noi eravamo protetti dall’esercito e da un elicottero per l’emergenza. . Ci muovevamo nella foresta scortati e armati, anche se la legge lo vietava categoricamente, le armi ce le vendevano i militari. Per il mio lavoro, mi recavo spesso a Miguel Pereira, sempre scortato da un sergente e due militari con fucile mitragliatore. Giunti in paese, loro andavano in caserma e io, con la mia campagnola e l’autista, provvedevo a ordinare i pezzi di ricambio per i mezzi meccanici; tutto presso una ditta di Sao Paulo, società americana. . Ritiravo la posta e la spedivo, ordinavo ad un tornitore, unico in paese, quello che mi serviva in officina e la mattina seguente ritornavamo all’accampamento. Non si viaggiava mai di notte, il pericolo erano le tribù selvagge, così dicevano. La verità che seppi in seguito era che i proprietari terrieri e le imprese minerarie andavano nella foresta, sequestravano i giovani, uomini e donne, e li sfruttavano tenendoli in schiavitù. . L’odio verso i bianchi era feroce, ma i bianchi erano protetti dall’esercito ben pagato. Noi bianchi eravamo lavoratori a contratto, non avevamo niente in comune con i bianchi locali portoghesi, spagnoli e nordamericani. Legittimamente per i nativi eravamo tutti invasori! . Dopo aver ritirato tutto andai in un ristorante a mangiare. Erano le tre del pomeriggio, 50 gradi all’ombra. Nella strada c’erano due autoblindo dell’esercito e soldati dappertutto, dell’autista nessuna traccia. Mentre mi avvicinavo alla campagnola, due soldati armati di mitra e di bastone, mi affiancarono e mi accompagnarono, mi fecero sedere tenendomi sotto tiro. . Passarono circa dieci minuti, arrivò un graduato, gli diedi il passaporto e facendo il finto tonto, gli dissi che ero italiano; fra il nervosismo misto a paura, il caldo e il fatto che avevo mangiato da poco, stavo per farmela addosso. Ad un tratto arrivò la Pick Up che mi scortò: sul cassone c’era il mio autista. . Il sergente scese, si avvicinò al collega e si misero a parlare, e il mio autista mi disse che si era accorto di quanto stava per succedere in quella zona e aveva deciso di andare a piedi a chiamare la scorta. Mentre aspettavo, circa un quarto d’ora, sempre sotto il tiro dei mitra, mi accorsi che a una diecina di metri c’erano tante persone: uomini, donne e bambini. . Della loro presenza, data la paura non mi ero accorto! Incrociai lo sguardo di una ragazza nera, non bella, ma dal viso si notava un’espressione impaurita che mi faceva tenerezza. Quello sguardo era diventato come la camomilla, mi rilassava, sfuggivo il presente. . Tornarono i due sergenti, il mio interlocutore aveva il passaporto in mano, si avvicinò e mi domandò, se avessi dollari americani. Io gli dissi di si, e lui mi chiese 20 dollari per il collega che era stato gentile. Presi un pezzo da venti, e lui ancora: «vedi se hai due da dieci». Glieli diedi e mi accorsi che dieci li aveva già trattenuti, ma feci finta di niente. . L’autista si mise al posto di guida, in quel momento incrociai lo sguardo della ragazza, scesi dalla macchina e andai vicino al Pick Up, mentre il sergente ci intimava andare via. Gli dissi: «vedi quanto vuole per quella ragazza col cappello di paglia». Lui senza battere ciglio scese e raggiunse il collega, pochi secondi e ritornarono insieme, senza preamboli, mi chiesero quaranta dollari, venti ciascuno. . Un soldato prese la ragazza e la portò vicino la campagnola, come fosse un cagnolino. Le feci cenno e salì, era sporca, puzzava e per salvarsi dagli insetti seppi che i nativi si cospargevano la pelle di grasso di puzzola. Arrivati all’hotel presi venti cruzeiro indicando alla ragazza di andare a mangiare e bere alla mia salute. Lei mi guardò con aria di sfida, disse soltanto «boa tarde», si girò e se ne andò. . L’autista mi disse che l’avevo offesa perché per loro usanza voleva sdebitarsi in natura, in quanto era destinata alla prostituzione, o forse era già prostituta. Si allontanò, bestemmiando al mio indirizzo! . La mattina seguente appena arrivò la scorta, andammo all’ufficio postale per prendere la posta e quando l’autista aprì il tendone del Pick Up per mettere il sacco mi chiamò: la ragazza era rannicchiata che dormiva. L’autista mi suggerì di portarla con noi e lasciarla vicino a qualche villaggio, così l’avremmo salvata dalla schiavitù e dalla prostituzione. . «Io sono un padre, ho sette figlie a Baya, morirei se sapessi mia figlia nelle mani di questi delinquenti in divisa». Forse la ragazza non dormiva, aprì gli occhi tristi ma luminosi, mi diventò bella e attraente. . Il clacson dei militari mi riportò alla realtà. Chiusi il tendone e dissi all’autista «che dio ce la mandi buona», glielo dissi in italiano. Partimmo, gli spiegai cosa avevo detto, lui rispose che «questa ragazza è un essere umano». . L’autista era pratico della zona, ci fermammo vicino a un laghetto, lui sapeva che nelle vicinanze c’era un villaggio e, la polvere che si sollevava in strada era come un fumogeno per la scorta militare che ci seguiva a una cinquantina di metri, cosicché la ragazza poteva sfuggire alla loro vista. Mentre viaggiavamo l’autista aveva spiegato alla ragazza cosa doveva fare e così quando la macchina si fermò la ragazza scese aiutata da me, mi guardò, mi abbracciò e disse: «io Dauma». . Cercò di baciarmi ma io la respinsi. Scappò via e si fermò in mezzo alla vegetazione, sotto gli alberi. Mi vergognai, la raggiunsi e la baciai con passione, la puzza di puzzola era sparita. Alla realtà mi richiamò l’autista. La lasciai che piangeva e piansi anche io! ... . ... Zio Peppino. ... . ... Nel 1962 mi trovavo nella città di Milano, a Metanopoli centro organizzativo e amministrativo dell’ENI, in attesa di ritornare in Patagonia, Argentina. Ero arrivato lunedì e tutti i giorni veniva rimandata la partenza per problemi logistici. Arrivato a venerdì, il responsabile dell’ufficio del personale mi comunicò che non sarei partito prima di cinque giorni, se volevo potevo ritornare in Calabria in aereo a spese loro. In realtà abitavo al Santa Barbara e a loro costava di più. . Declinai l’invito. Telefonai al cugino di mia madre, il quale venne a prendermi alla stazione e mi accompagnò a San Donato, vera Metanopoli. Non ci conoscevamo, io scesi dal treno sventolando un fazzoletto rosso. . Peppe era “fidanzato” da trenta anni, un bell’uomo, alto e elegante, vendeva lampadine per telefono, non si era sposato con Giulia, nonostante fosse ricca e benestante. A tavola lei, la madre e il fratello ingegnere, pranzavano assieme al gatto siamese. Questa era la versione, ma credo che mio cugino e la suocera, non si sopportassero: Peppe era un meridionale e lei proprietaria di diversi palazzi e negozi a Milano, Vienna e Zurigo, mal sopportava il rapporto fra la figlia e Peppe. . Peppe al telefono mi propose di andare a Omegna, dove vivevano i suoi fratelli, le sue sorelle e anche il fratello di mio padre, lo zio Peppino. Mi disse che avremmo fatto una sorpresa perché erano mesi che non li vedeva. Io, erano anni, che non vedevo mio zio e famiglia. . Siamo rimasti che ci saremmo visti mattina di sabato, alle otto, alla stazione centrale, mi indicò il binario e di non fare il biglietto perché ero suo ospite. Mio zio era falegname di fede socialista, con mio padre e altri nel 1943 riorganizzarono la sezione del Partito Socialista Italiano a Bovalino, e come tanti artigiani, quasi il novanta per cento, erano andati a lavorare nell’industria del legno, la Bricà, sorta in paese nel 1945, delizia e croce del nostro paese. Il proprietario della fabbrica era un parente, la madre una Racco, cugina di mio nonno. . Nel 1948, mio padre fu costretto a chiudere la calzoleria e emigrare a Torino, mio zio con tutta la famiglia a Omegna. Il padrone della fabbrica non sopportava che due parenti facessero politica contro il suo potere, li allontanò. Mio Padre dopo due anni ritornò al paese di Bovalino e furono anni difficili per la mia famiglia, mio zio rimase a Omegna. . Il tragitto fu piacevole, io gli raccontavo dei miei viaggi e lui mi spiegava i posti che attraversavamo, costeggiando il lago Maggiore. Arrivammo a Omegna, i suoi fratelli abitavano qui, altri a Crusinallo. . Era una giornata limpida d’autunno, fiancheggiando il lago Maggiore, ammiravo panorami mozzafiato e testimonianze storico artistiche. Arrivato sul lago d’Orta l’impatto mi ha sconvolto. . Colonne di camion in movimento, le abitazioni a piano terra erano adibite a laboratori di varia natura. Attraversammo un ponte nel centro di Omegna e Peppe mi disse, quella concessionaria d’auto è di un meccanico di Bovalino, è passato così tanto tempo che non ricordo il nome. Ovunque c’erano laboratori di gente del Sud, molti lavoravano nove dieci ore alla Cobianchi, le mogli i figli e a volte i nonni lavoravano nei laboratori a cottimo per le grandi industrie. . La ricchezza era lampante, camminando notavo che le abitazioni erano vecchie, l’aria era malsana, ammorbata dagli odori delle fabbriche, dai camion che trasportavano le merci da e per Genova Porto, dagli acidi usati nei laboratori. Quella popolazione nel tempo ha pagato la “fortuna” di quel lavorare con la salute, ricordo la voce rauca di tutti quelli che incontravo. Arrivati a casa di mio zio, non ero atteso e fu festa. . Avevo attraversato l’oceano ed ero un personaggio, vestivo alla sudamericana, per tutti venivo dall’America. Mio zio aveva sei figli, tre maschi e tre femmine, la moglie, la zia Rorò, era una donna tranquilla. . Mio zio lavorava alla Cobianchi come operaio metalmeccanico, da socialista era diventato comunista. Nel pomeriggio mi portò con lui in una osteria sulla montagna, dove ogni sabato si incontrava con i suoi compagni comunisti, molti ex partigiani, tanti meridionali e fra una partita a carte e due bicchieri di vino parlavano di politica e di problemi sindacali. . Mi colpì la genuinità delle discussioni, tutte propositive nell’interesse degli operai. Ricordo che c’erano due componenti della Camera del Lavoro di Omegna e quando parlavano loro tutti ascoltavano con attenzione. Non bisogna dimenticare che ancora c’erano tante resistenze padronali, neutralizzate con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, grazie all’impegno e sacrificio degli operai. . Quelle poche ore trascorse in quell’osteria di montagna, con i compagni di mio zio, mi fecero riflettere su un episodio avvenuto qualche giorno prima a Metanopoli. . Alla meraviglia che lo zio Peppino fosse diventato comunista, i discorsi ascoltati mi davano risposta allo stupore. La politica sindacale socialista era troppo blanda; il proletariato aveva bisogno di una difesa energica e nelle fabbriche si moriva di malattie e di incidenti. La classe operaia cominciò a prendere coscienza dei problemi interni alle aziende e si organizzò. . Si costituiscono “le commissioni interne”, composte da tutte le sigle sindacali, nuclei fondamentali per il controllo dell’ambiente di lavoro e di coinvolgimento diretto della base; furono molto osteggiate dai clerico fascisti, che militavano nella Democrazia Cristiana e nei partiti di centro destra. . Scendendo a Omegna, raccontai a mio zio quanto avevo ascoltato, qualche giorno prima, a Metanopoli. Non avendo impegni di lavoro durante il giorno, girovagavo. Vedevo gente che a mezzoggiorno, invece di andare in mensa, entrava nella chiesa di Santa Barbara e per curiosità entrai anch’io. . C’erano diecine di persone di una ditta esterna di pulizie che aveva sede a Piacenza. Il personale proveniva dalle campagne e anche dal Meridione, questi partiva alle quattro del mattino da Piacenza per fare ritorno alle proprie case alle diciannove. Questi lavoratori venivano retribuiti per dieci ore lavorative e pagamento del biglietto del viaggio. . In chiesa si erano riuniti per costituire la commissione interna e poter rivendicare i propri diritti. Ero fermo, in piedi e ascoltavo, mi sentii toccare sulla spalla, un signore distinto mi disse: «lei cosa fa qua dentro, non è dipendente estero della Saipem? Vada a pranzare!». Lo percepii come un ordine, e lo era. . Lo capii il giorno dopo all’ufficio del personale dove alla scrivania era seduto quel signore, il quale mi fece sapere che stavo per essere assunto al lavoro a tempo indeterminato e pertanto mi consigliava di stare lontano dalle riunioni sindacali. Lo stesso consiglio me lo diede mio zio Peppino. . Ritornammo a Omegna dove mi attendeva il cugino Peppe, che mi avrebbe accompagnato a salutare due sue sorelle e un fratello che abitavano a Crusinallo. L’altro fratello, Pasqualino, classe 1876, aveva vissuto circa trenta anni fra Stati Uniti e Argentina, era molto ammalato e stava seduto dalla mattina alla sera. Diceva Peppe che era taciturno ma quando seppe della mia permanenza in Argentina, in ottimo castigliano, conversammo per circa due ore. . Lui era vissuto per anni a Buenos Aires e ricordava molto bene, ma voleva sapere della Patagonia, che non era riuscito a conoscere per paura del freddo. Erano gli anni ’20. Quell’incontro fu indimenticabile. Alle sera con Peppe andammo a ballare nella sala La Perla che era composta da due piste terrazze, ricavate in una collina fuori Omegna, quasi a picco sul lago d’Orta. In una si ballava il moderno, cha cha cha e rock and roll, nell’altra il classico. . Peppe mi presentò come il cugino arrivato dall’America, infatti ero ben vestito: in pantaloni blu e giacca bianca. Ballando mi accorsi che vi erano delle belle ragazze, non truccate, che avevano le mani con i calli: sembravano delle grattugie. . Io ero abituato a ballare con le entraineuses sempre curate. Poi nel tempo ho capito la differenza. Credo che il 70% delle ragazze erano calabresi o siciliane e facevano umili lavori manuali. . Da quella volta Zio Peppino lo vidi ancora altre tre volte, non ricordo le date ma gli eventi: venne a Bovalino a fare visita alla madre, nonna Serafina, poi negli anni ’80, ritornò convalescente da un trattamento antitumorale. In quell’occasione, un giorno pranzò da noi, la sua malattia gli aveva inibito il gusto delle pietanze, si sedette a tavola poco convinto, ma poi la onorò alla grande, facendo i complimenti a mia madre. Ricordo ancora le parole: «grazie cognata, era tanto tempo che non mangiavo con tanto gusto». Era la cucina delle grandi occasioni: ragù, pasta casareccia fatta mano, contorno di verdura e le cosiddette nocatole per addolcire il palato. . Dopo non molto tempo mio padre subì un intervento chirurgico ad una corda vocale, al policlinico di Milano. Anche le condizioni di zio Peppino erano peggiorate. Sono state giornate tristi. Mio padre era ritornato a casa ma non parlava, piangeva e si disperava perché da Omegna, zio Peppino, dal letto dell’ospedale chiedeva di lui. . In famiglia si decise che sarei stato io ad andare a trovare zio Peppino al posto di mio padre. Arrivai direttamente all’ospedale di Novara, accompagnato da mio cugino Domenico, il figlio maggiore dello zio. Entrai nella stanza e mi resi conto della realtà che, durante il viaggio, non accettavo. Mi avvicinai al lettino, c’era un medico, mi guardò negli occhi e senza parlare mi fece capire che lo zio era alla fine dei suoi giorni. Respirava a fatica, gli occhi fissi verso il tetto. Gli presi la mano, cercai di avvicinarmi per baciarlo e portargli i saluti di papà e di tutti i parenti. . Lui allungò l’altra mano, dove non aveva attaccata la flebo; spalancò gli occhi, mi strinse la mano e, muovendo il mento, comprendemmo che mi aveva riconosciuto, aveva capito tutto. Il medico dopo un po’ mi premurò di allontanarmi. A distanza di poche ore zio Peppino non c’era più. Partecipai al funerale e capii quanto era benvoluto dai paesani e da tutti coloro che lo avevano conosciuto. ... . ... L’abbraccio della sposa. ... . ... Era un giorno di pioggia, gennaio o febbraio del 1970. Il freddo era pungente. Di fronte al negozio di mio padre, dall’altra parte della strada c’era una gioielleria affollata di clienti, mezzi dentro e mezzi fuori. Indossavano il vestito della domenica gli uomini e con enormi scialli di lana le donne; in mezzo una signora elegante, vestita sfarzosamente, con i capelli in ordine, entrava e usciva per fare vedere ai parenti i gioielli che stava acquistando. . All’epoca era d’uso nei paesi dell’entroterra che, in occasione del matrimonio, i parenti degli sposi scendevano a Bovalino e compravano tutto il necessario: arredamento, abbigliamento e gioielli. Tutto doveva essere di gradimento dei genitori, in realtà delle mamme. Le altre persone al seguito erano spettatori! Di solito, dopo la gioielleria, entravano da mio padre per comprare le scarpe. . Io li osservavo con curiosità. La strada era deserta, loro si riparavano sotto enormi ombrelli per proteggersi dalla pioggia, mandando imprecazioni e bestemmie quando si bagnavano al passaggio di qualche automobile che schizzava acqua. Fu così che notai un ragazzino che andava avanti e indietro dal gruppo di persone, incurante della pioggia, sulla porta a fianco del negozio di mio padre, dove c’era una donna con lo scialle sulla testa che la copriva e teneva una busta di plastica in mano. . Il bambino aveva fatto diverse volte la spola, credo gli raccontasse quello che stavano acquistando. Mi accorsi che quella donna era invece una giovane ragazza. Presi l’ombrello e gli passai vicino, era esile con un viso stupendo, grandi occhi chiari e piangeva, beveva pioggia e lacrime. Rimasi sorpreso e, incurante dei suoi parenti che sostavano dall’altra parte della strada, le chiesi perché piangesse. Lei non rispose, ma scostò, lo scialle dal capo scuotendo la testa, e aprì la busta di plastica dove c’èra un treccia di capelli neri di almeno trenta centimetri. . Sentii una mano sulla spalla, era un uomo che mi diceva, con fare minaccioso: «cosa vuoi?». Era il padre della ragazza, lo seppi dopo. Candidamente gli risposi che la invitavo a ripararsi dentro il negozio considerato che pioveva. Così finì senza conseguenze. . Il negozio di mio padre era di modesta grandezza, gli avventori passarono dalla gioielleria al nostro negozio e i più rimasero fuori dalla porta, compresa la ragazza. Era usanza che i genitori comprassero in eguale quantità le scarpe per gli sposi. La madre dello sposo sceglieva e pagava quelle della sposa e viceversa, però dovevano essere tutti d’accordo. Era estenuante, ma valeva la pena, pagavano in contanti. . Alla fine mi resi conto che tutti pendevano dalla madre dello sposo, era lei che decideva. Degli sposi nessuna traccia: arrivammo alle tre del pomeriggio e pagarono, con l’impegno che eventualmente avremmo cambiato, in seguito, il numero delle scarpe. . La domenica successiva notai tre donne che entravano nella gioielleria, una di queste era elegante, l’altra vestita da contadina con l’immancabile scialle e una ragazza in minigonna che aveva in mano due buste del magazzino di mio padre. Dopo circa due ore attraversarono la strada ed entrarono da noi, dovevano cambiare il numero delle scarpe della sposa, bianche di raso, e quelle dello sposo nere di pelle lucida. . Erano stanche per essere arrivate il mattino con la corriera delle sei, girando per il mercato e i negozi. La signora elegante, che veniva dall’Australia, si sedette sulla sedia che serviva per misurare le scarpe, mentre la madre della sposa sugli scalini dell’entrata del negozio. La giovane stette in piedi. . La ragazza era impacciata per il suo abbigliamento, mentre io me la mangiavo con gli occhi e la facevo arrossire. La signora chiacchierava con mio padre, raccontando di quando era partita per l’Australia nel 1947. Il padre di lei era stato prigioniero degli inglesi in Africa e fu un militare australiano a farli emigrare in Australia. Di famiglia erano in cinque, genitori e tre figlie, lei la più grande di diciotto anni; per il viaggio avevano impegnato la casa e il terreno di campagna. . Dopo sei mesi, dall’arrivo in Australia, si sposò con il figlio del padrone della fattoria dove lavorava tutta la famiglia. La signora era madre di due figli maschi, in età di maritare, non apprezzava le ragazze australiane, che a suo dire erano libertine, lavoratrici, ma poco affidabili come madri di famiglia! Così scrisse a dei parenti al paese affinché trovassero una moglie per il figlio, e le trovarono una lontana parente, povera, illibata e disponibile: disponibilità imposta dalla famiglia. . La corriera per il ritorno a casa partiva alle quattro del pomeriggio. Io, per farle risparmiare due ore mi offrii di accompagnarle con la macchina. Nel viaggio di circa mezzora, seppi altro. La signora aveva fatto tagliare i capelli alla ragazza, perché dove abitavano il clima era molto caldo, le aveva fatto indossare la minigonna, al paese era scandalo ma doveva abituarsi; doveva parlare con tutti e ascoltare. . La lingua l’avrebbe imparata facilmente. Era seduta dietro di me e ci guardavamo dallo specchietto retrovisore negli occhi. . Arrivammo a casa della ragazza. La suocera andò a rinfrescarsi e la madre per disobbligarsi si recò da una comare per regalarmi un paio di uova. Rimanemmo sull’uscio da soli con la giovane, lei mi confidò che aveva paura del viaggio e delle incognite di un altro mondo. Era passata circa mezzora io cercavo di rincuorarla dicendole che questo viaggio sarebbe stato di aiuto anche per la sua famiglia. . Aveva tre sorelle più piccole. Mi accorsi che piangeva, d’istinto la abbracciai, per qualche minuto si lasciò andare, poi si allontanò dicendomi: «come vi permettete? Sono una donna sposata!». Dopo qualche minuto, mentre io non sapevo cosa fare, arrivò la madre con le uova e nel salutare allungai la mano, ma lei si girò: «buona sera!». Non la vidi più. . Una mattina, nel mese di settembre del 1994, davanti alla gioielleria c’è una coppia che mi guarda insistentemente, mi dà fastidio, capisco che sono stranieri, attraversano la strada e si avvicinano a me. Sono molto alti tutte e due, la ragazza mi dice: «Tu si Roccu? ». . Io rispondo: «sugnu Racco». Lei un po’ in dialetto e un po’ in inglese continua: «sono la figlia di Rosa» e per farmi capire chi è mi racconta per filo e per segno, il paese, il viaggio in macchina e l’abbraccio con dovizie di particolari che io avevo completamente dimenticato. . Il marito non parlava, ma certamente sapeva quanto la ragazza mi diceva: «siamo in viaggio di nozze, siamo venuti a salutare i miei parenti e mia madre mi ha detto di venire a dirti che ti ricorda con simpatia, che ti abbraccia e che io devo comprarmi un paio di scarpe anche se non mi piacciono». . L’ho rivista dopo un paio di giorni e salutandomi, ridendo mi ha abbracciato dicendo queste parole: «questo abbraccio da parte di mia madre!». ... . ... Maddalena. ... . ... Nel 1975 per ragioni di lavoro spesso viaggiavo nelle Marche. Fra Ancona e Pescara sorgevano come i funghi fabbriche di calzature a conduzione familiare. Spesso la sera ero ospite a cena nei ristoranti della zona. . Una sera, uscendo dal ristorante, notai una sala da ballo. Salutai i miei ospiti ed entrai. C’era poca gente, più donne che uomini, in media quarantenni. Osservavo le poche coppie che ballavano, quando la mia attenzione fu attratta da tre donne sedute su un divano: una era molto attraente e distinta, le altre nella media. . Mi avvicinai e invitai una delle due a ballare. Questa alzò gli occhi e, con un’espressione glaciale, mi disse no. Ero abituato, fa parte del ballo in pubblico, ma quel no era cattivo, insolente. Rimasi male ma feci finta di niente. Dopo un po’ mi ritrovai a chiacchierare con Maddalena, così si chiamava la bella del terzetto. Ci presentammo, scambiandoci reciproche informazioni, in un angolo della pista. . Verso la mezzanotte la sala si animò e nell’allegria della confusione, la invitai a ballare. Maddalena era una persona distinta e a modo, gentile ma sobria nel parlare. Rimasi subito affascinato, aveva una espressione, unita alla sua bellezza, che mi suggestionava e avevo paura di guardarla negli occhi. . Le raccontai tanto di me ma seppi molto poco di lei. Quando ci salutammo, mentre si allontanava assieme alle amiche, mi assalì il tormento della ragione. Era una bella persona, molto giovane per me, non potevo aspirare neanche ad una semplice amicizia. Non avevo niente da offrirle: prestanza fisica zero, cultura zero, nessun titolo di studio, situazione economica precaria, differenza anagrafica incolmabile. . Abitavamo in regioni diverse, ma di tanto in tanto ci incontravamo durante i miei viaggi di lavoro nelle solite sale da ballo. Maddalena era sempre elegante e gentile, ma a volte avevo la sensazione di metterla a disagio con il suo ambiente. Una sera, assieme a un amico mi trovavo a una cinquantina di chilometri dalla città dove lei abitava, vidi un bar con il simbolo del telefono pubblico e, con la scusa di prenderci un caffè, ci fermammo. Telefonai a Maddalena, era un po’ di tempo che non la vedevo e le dissi che mi trovavo a qualche chilometro dalla sua città e avrei avuto piacere di salutarla. Con la consueta gentilezza mi dette appuntamento in centro, un luogo che io conoscevo. . Era una sera d’inverno, vento freddo di tramontana, il traffico intenso che non avevo calcolato mi faceva ritardare e innervosire, tant’è che avevo il dubbio di non trovarla. Lasciai il mio amico e mi avviai a piedi. Pensavo di non incontrarla, invece c’era. . Indossava un cappotto e scarponcini senza tacco, in testa un cappello di lana. Il suo sorriso luminoso mi fece passare il freddo e ci rifugiammo nel bar vicino. Abbiamo chiacchierato un po’ e ci siamo intrattenuti per poco tempo, in quanto lei aveva degli impegni e doveva andare via. Io anche, dovevo raggiungere il mio amico, del quale avevo approfittato della sua disponibilità. Ci salutammo. . Il tempo vola inesorabile, la vita continua con i problemi quotidiani di varia natura, mentre i bei ricordi aiutano ad alleviare momenti di tristezza. Di lei ancora conservo un accendino che non ho mai usato per il timore di sciuparlo, anche quando rimanevo senza fiammiferi. . Ero consapevole della mia debolezza, che con ogni mezzo cercavo di nascondere, ma quando mi ritrovavo accanto a lei non riuscivo a dissimulare i miei sentimenti. Tanto tempo è passato, un’eternità ! ... . ... Il Pastore. ... . ... Era l’alba di un giovedì di febbraio, siamo nel 1976, piovigginava e il freddo era pungente; per terra, nella fiumara, la brina era ghiacciata e si scivolava facilmente. Avevamo camminato per circa due ore, fino ad arrivare ai piedi della montagna. A caccia eravamo in quattro, con due cani da riporto, solo Antonio aveva abbattuto un’anatra; io e gli altri due non avevamo sparato un colpo. . Arrivati nella gola dove si formava la fiumara, ci dividemmo due da un lato e due dall’altro. Io e Bruno incominciammo a salire verso la montagna, mentre Antonio e Francesco, con i cani si addentravano nella gola. Arrivammo a circa 400 metri di altezza, trovammo un terrazzino e facemmo colazione con del pane a zippuleria, all’interno vi era la peperonata, e terminammo con un bel bicchiere di vino. . Poi ci incamminammo in mezzo alla vegetazione, avevamo percorso circa 10 chilometri e finalmente iniziammo la caccia. I nostri due amici sotto e noi di sopra, camminando tra gli alberi facevamo volare la selvaggina: tordi e beccacce e qualche merlo. . A mezzogiorno ci siamo riuniti all’imbocco della gola, avevamo fatto buona caccia e come di consueto abbiamo diviso. Le due anatre e le tre beccacce le avremmo mangiate assieme invitando alcuni amici, che portavano anche vino e pane, pasta fatta in casa e formaggio. . I tordi presi, circa cinquanta, li divisero Francesco e Bruno che dovevano regalarli ai rispettivi medici. Eravamo stanchi ma soddisfatti e decidemmo di rientrare e fu una fortuna. Di solito aspettavamo fino al tramonto. . Dall’alto avevo notato nella parte della fiumara, dove convergevano altri corsi d’acqua, diversi greggi di pecore e capre e una cinquantina di vacche, che pascolavano, apparentemente nessun pastore. . Il cielo era coperto, per tutto il tempo, la pioggerellina era stata sempre presente, e anche se ben equipaggiati, eravamo inzuppati. Ci incamminammo e sentimmo arrivare dalla gola della montagna l’urlo del vento e tuoni. La gola arrivava in cima alla montagna, oltre i 1000 metri. Incominciammo a correre per guadagnare il guado, circa trecento metri fra grosse pietre, pietrisco, rami e sterco di animali. . Attraversata la fiumara, il cielo d’improvviso si oscurò, sembrava notte fonda, ci arrampicammo sulla costa in cerca di un rifugio: c’erano massi enormi, caduti precedentemente dalla montagna e lì ci rifugiammo. Ognuno trovò un riparo negli incavi, io posai il fucile, la cartucciera e il coltello da caccia e mi accovacciai un po’ impaurito dai fulmini e dalla violenza dell’acqua. . Mi trovavo ad una altezza di circa cinquanta metri dall’alveo della fiumara, al chiarore delle scariche elettriche, vidi le vacche in mezzo al fiume. In testa un ragazzo aggrappato al collo di una vacca e un cane che nuotava. Per un paio di minuti, misto al rumore della pioggia e del vento, sentivo una voce che gridava ma non capivo, alla luce di un fulmine vidi un uomo in mezzo all’acqua con una pecora nelle braccia che combatteva con la corrente. . D’improvviso al vento si unì un rumore strano, assordante, arrivava dalla montagna. L’uomo aveva raggiunto il ragazzo, nelle braccia mi accorsi che non portava una pecora ma un vitellino, lo poggiò per terra e si misero a correre venendo verso di me, poi scomparvero in mezzo ai massi. . Il rumore era come un tuono infinito e col bagliore delle scariche elettriche, vidi uno spettacolo della forza della natura allucinante e affascinante. Era la testa della fiumara, come un’onda di mare; trascinava nell’acqua tronchi d’albero e pietre di diversa grandezza. In pochi minuti dove prima c’erano le due persone, l’acqua aveva raggiunto più di un metro e mezzo. Smise di piovere, il sole fece capolino dalle nuvole che il vento spingeva verso il mare. . L’acqua della fiumara era impetuosa con alberi e rami e a volte si sentivano rotolare le pietre, mentre raccoglievo il fucile e il resto in mezzo al fango, sentii parlare, credevo fosse uno dei miei compagni e mi avvicinai. . Rimasi sorpreso, il pastore assieme al figlio lavavano il vitellino pieno di fango e mi dissero che aveva appena venti giorni, lo trattavano con tenerezza, come un bambino. Il figlio prese un secchio munito di un tubo di plastica al quale era attaccato un biberon e lo mise in bocca al vitellino, mentre il padre continuava ad accarezzarlo. . Era trascorso qualche mese, stavo sorseggiando un caffè nel bar adiacente il mio negozio, quando entrarono tre persone e un ragazzo. Uno era il macellaio, mio vicino, gli altri due non li conoscevo. Il ragazzo aveva in mano un libro e un quaderno. . Come d’uso, al saluto dei tre, dissi al macellaio: «cosa vi offro», lui rispose, «tre caffè grazie!» Anche al ragazzo cosa prendesse e lui, «niente grazie». Tutti e quattro emanavano l’odore acre delle capre, con grande disappunto della barista che arricciava il naso e non gradiva la loro presenza. . Si sedettero a un tavolino, mentre il ragazzo rimase in piedi. Pagai e mi avviai verso l’uscita. Mentre li salutavo, uno dei due uomini, mi guardò e disse che mi conosceva, il ragazzo aggiunse «pa’ lui è quello che ha buttato il fucile nel fango». Il padre lo guardò e il ragazzo ammutolì. Senza l’esclamazione del ragazzo, non li avrei riconosciuti. Mi avvicinai e gli strinsi la mano. . Mi sedetti con loro e dalla conversazione seppi che il figlio frequentava la scuola commerciale a Bovalino. Il preside aveva convocato il padre, il ragazzo era intelligente ma poco socievole; avevano poco tempo disponibile perché dovevano incontrare il macellaio, per i rapporti commerciali che intrattenevano da anni. Salutai e ritornai nel negozio. . Dopo un po’ vidi il ragazzo sulla porta guardare la vetrina, mi avvicinai e lui mi chiese: «quanto costano quelle scarpe marrone e bianche?». Gli rispondo: «vedi che c’è il prezzo», lui mi guarda in modo strano e aggressivo, con occhi socchiusi e penetranti carichi di astio e disse: «il padrone le aveva ai piedi quando venne al paese in Mercedes, per estorcere i soldi a mio padre». Mi resi conto, che per lui, noi della marina, eravamo come il suo padrone! . Sul marciapiede a pochi metri un gruppo di studenti litigava con frasi pesanti. In particolare una ragazza apostrofava uno della compagnia: «cornuto e figlio di puttana!». Erano compagni di classe del ragazzo, il quale accennò a salutarli ma nessuno gli rispose, non gradivano il suo saluto. . Il ragazzo mi guardò con aria di sfida mi disse: «questi, per i professori, sono figli di persone perbene, io sono figlio di pecoraio e studio sorvegliando gli animali, io odoro di fatica loro puzzano di merda!». . Arrivarono nel frattempo il padre e lo zio, assieme a un maestro di scuola, mio amico e loro lontano parente. Il maestro chiamò da parte il ragazzo, si sedettero sugli scalini di un portone e si misero a parlare. Il padre mi disse: «vediamo se il cugino lo convince a continuare, non intende andare a scuola. Qualche professore mi ha detto che può arrivare lontano, per intelligenza e predisposizione allo studio, ma è alquanto ribelle». Entrarono dei clienti nel negozio e dopo mezzora circa, il padre del ragazzo che si era momentaneamente allontanato, ripassò per salutarmi, mentre lo zio mi salutò con un cenno della mano. . Era passato tanto tempo, un giorno sulla via marina incontrai il maestro. Era una persona a modo e con lui era piacevole conversare. Ci mettemmo a camminare avanti e indietro. Avevamo idee politiche diverse e passavamo il tempo discutendo, quando incrociammo un gruppo di ragazzi, rumorosi e insolenti. Uno di questi venne verso di noi e salutò il maestro con un «buonasera cugino», a me niente saluto. . Il maestro disse: «peccato un ragazzo così intelligente, destinato a diventare delinquente», e mi raccontò la storia di quella famiglia. Il nonno del ragazzo, emigrato nelle Americhe rientrò al paese nel 1946, con un po’ di soldi e ammalato, cinque figlie femmine le aveva sposate con le rimesse del duro lavoro nelle miniere, mentre l’unico figlio maschio, espletato il servizio militare era emigrato in Germania. Il figlio, il nostro pastore, con un po’ di risparmi suoi e quelli del padre, comprò un paio di ettari di terra, vicino alla fiumara e si dedicò alla pastorizia. . Nel 1950 il figlio si sposò. L’anno dopo nel 1951 ci fu l’alluvione che distrusse tutto il loro lavoro. Rimasero poveri e con la morte degli animali anche indebitati con il “signorino”, il padrone delle terre che avevano comprato, per un debito residuo. Dopo alcuni anni arrivarono gli indennizzi dei danni alluvionali. I fondi furono incamerati dal “signorino” che, tutelato dalla legge, si riappropriò della proprietà poiché la compravendita non era stata registrata a causa della modesta insolvenza residua. Il nostro pastore fu costretto a fare l’affittuario del terreno e socio al 50 % degli animali. . Il padre del pastore morì di dispiacere, dicevano in paese. Il pastore, che aveva famiglia numerosa, subiva giornalmente le vessazioni del “signorino”. Il figlio che aveva passato la fanciullezza soffrendo le angherie della società che lo opprimeva, non poteva vivere dignitosamente, lo incattiviva. L’odio è un’arma incontrollabile, spesso produce effetti devastanti per la società! ... . ... Drammi esistenziali. ... . ... Ne è passato di tempo: era il 1978, mi trovavo a Milano per lavoro e incontrai per caso un vecchio amico, compagno di lavoro in Brasile. Era sabato, lui mi disse che il giorno dopo dovevo essere ospite a casa sua, per il pranzo. Abitava in provincia di Modena, un paese di circa diecimila abitanti, dei quali, il cinquanta per cento, erano arrivati negli ultimi anni dai paese vicini allettati da possibilità di lavoro e servizi sociali. . Il mio amico aveva cambiato mestiere, come avevo fatto io. Aveva creato una ditta di costruzioni, gli affari andavano bene. La moglie era una bella donna. Erano sposati da quindici anni, ma non avevano figli. Lei aveva una disfunzione che le impediva di concepire; vane le cure alle quali si era sottoposta anche in Francia. . Ero a conoscenza della situazione, perché in Brasile spesso lui si confidava con me di questo suo assillo. A volte diceva: «per chi mi sacrifico, vorrei avere un figlio, ma non voglio infierire su mia moglie perché le voglio bene». Era storia di tutti i giorni. . Domenica mattina mi recai in treno e lui venne a prendermi alla stazione di Reggio Emilia. Aveva una bella villetta con un grande giardino, sulla porta c’erano la moglie e una bambina di circa quattro anni che avevano adottato. Salutai la moglie che già conoscevo, mentre la bambina mi guardava con curiosità. Lui mi disse: «ti presento Rosita, mia figlia». . Mi abbassai e la baciai sulla fronte. Rosita mi sorrise, mentre sua madre si mostrò disinteressata. Entrammo in casa: erano le undici e Franco mi propose di fare una passeggiata, in attesa che sua moglie preparasse il pranzo. Prese la bambina in braccio e uscimmo a passeggiare ricordando le notti di Rio, le giornate di lavoro nella foresta, quando al mattino entravamo nella pista stradale con temperature quasi allo zero, e un freddo cane. Alle nove la temperatura saliva a 30 gradi e alle 14 arrivava a 50 gradi all’ombra, con forte escursione termica. . «Quei sacrifici non li ho fatti invano, guarda che amore di figlia!», mi ripeteva. A pranzo ho notato qualcosa di strano nel comportamento della moglie, a momenti di loquacità cordiale, ritornava assente e scontrosa; io naturalmente facevo finta di niente. A Franco non era sfuggito il mio disappunto. Dopo il pranzo ci raggiunsero i suoi genitori, che mi conoscevano dai racconti e dalle foto del figlio, tant’è che sembrava ci conoscessimo da sempre. . Nel tardo pomeriggio, andati via i suoceri, la moglie decise di venire insieme alla bambina alla stazione ferroviaria di Bologna, dove Franco mi avrebbe accompagnato per prendere la Freccia del Sud. Si preparò molto elegante e in tarda serata partimmo in auto. . Avevamo viaggiato per circa trenta chilometri sulla Via Emilia, ma d’improvviso, la moglie di Franco redarguì la bambina: «stai zitta» e disse al marito: «ritorna indietro, lasciami da mia cugina a San Michele, dormirò là e tornerò a casa domani mattina. Così siete liberi tutta la sera a raccontarvi le puttanate di Rio». . Franco dopo qualche chilometro fece inversione senza dire una parola. Nel mutismo generale la bambina si era addormentata. Andammo a Parma, uscimmo dalla città e ci fermammo a San Michele, davanti a una villetta. La donna scese dall’auto, prese in braccio la bambina e disse al marito in stretto dialetto romagnolo: «ho cambiato idea, lascia il tuo amico alla stazione di Parma, si arrangerà per arrivare a Bologna e noi ritorneremo a casa». . Il tutto con insolenza nei miei confronti e con il ginocchio chiuse la porta dell’auto senza salutarmi. Raggiungemmo la stazione ferroviaria di Parma, senza dire una parola. Mi dispiaceva per quanto accaduto ma non sapevo cosa dire. Scendemmo dalla macchina, mi presi la valigia che era nel cofano e lui mi disse: «andiamo a vedere se c’è un treno altrimenti ti accompagno in macchina». . Entrammo in stazione e c’era un treno che mi andava bene, dovevo solo attendere quaranta minuti. Ci sedemmo nella sala d’aspetto, a quell’ora deserta. Franco mi disse: «quando ritornai da Rio, ho raccontato a mia moglie di quando a Miguel Pereira mi presentasti quella coppia di romani, che come noi non avevano figli. Il marito con il consenso della moglie aveva messo incinta una donna, era nata una bambina e loro erano lì per portarsela in Italia e assieme abbiamo festeggiato». . Io ricordavo tutto, li avevo incontrati diverse volte a Roma. La bambina era diventata una bella ragazza, mi aveva raccontato che alle scuole elementari era po’ emarginata, poi ci aveva fatto l’abitudine, anche se si portava dietro una certa tristezza. Poi a sedici anni, aveva preteso la verità. . La verità l’aveva sconvolta ed ebbe una violenta reazione, non andò più a scuola, odiava tutto e tutti. Era una ragazza intelligente e per la sua età abbastanza colta, ma disse che si sentiva come un oggetto e non come un essere umano. . Intanto il treno arrivò nella stazione, ci salutammo e Franco mi abbracciò forte. Ci lasciammo con la promessa di poterci rivedere e raccontare ancora episodi vissuti nell’America del Sud negli anni della nostra giovinezza. . A Roma andavo spesso per motivi di lavoro, ma anche per divertirmi. Avevo tanti amici con i quali intrattenevo buoni rapporti. Ogni volta che ritornavo telefonavo a qualcuno di loro e ci incontravamo a casa o in qualche locale del centro. Ritornai dopo tanto tempo a Roma, quell’anno avevo avuto grossi problemi in famiglia e la malattia di mio padre. . Dalla stazione Termini telefonai all’amico Bruno, che avevo conosciuto a Rio, del quale avevamo parlato con Franco quando andai a Milano. Mi rispose una voce di donna, che non conoscevo, una voce stanca, era della sorella della moglie di Bruno. Dissi chi ero e chiesi se mi poteva passare la sorella o la nipote. Dopo un interminabile silenzio stavo per riporre la cornetta, quando sentii una voce triste: «buongiorno Mimmo, mio marito è al lavoro fuori Roma. Mia sorella è venuta a abitare con me provvisoriamente, per non lasciarmi sola e la ragazza va e viene». . Di solito mi invitavano a casa, le dissi che sarei ripartito la sera stessa. Lei mi rispose: «mia figlia ci sta distruggendo, non so cosa ho fatto di male per meritare tanto odio, almeno parlasse dei suoi problemi. So che spesso va a piazza Farnese a vendere libri usati, mi dice che studia, ma io non le credo. Ho cercato di sapere chi frequenta e mi ha detto che se lo faccio ancora, non la vedrò mai più. Con mio marito ha rotto definitivamente». . Non mi ha lasciato parlare e ha concluso: «Lei Mimmo, ricorda i bei momenti della mia vita, ma era tutto sbagliato, per adesso non telefoni più». E chiuse la conversazione. . Rimasi di stucco chiedendomi perché tale discorso, mi convinsi che io non c’entravo. Nel primo pomeriggio mi recai a Piazza Farnese, erano gli anni ’70. La piazza era gremita di ragazze e ragazzi, dall’abbigliamento multietnico, capelli lunghi i ragazzi e corti le ragazze. I più sembravano ubriachi, molti seduti sui gradini o per terra, leggevano o dormivano abbracciati; altri rovistavano sulle bancarelle dei libri. . C’era chi mangiava un panino e beveva birra, era uno spettacolo allucinante. Giravo per la piazza senza che nessuno mi notasse; ero incuriosito dal vociare. Una ragazza, forse ventenne, mi chiese cento lire per comprarsi un bicchiere di latte. Glieli diedi, ma non riuscii a vederla in faccia, non disse neanche grazie. . Continuai a girare, con la speranza di trovare Eleonora, così si chiamava la figlia dei miei amici romani. Due persone mi fermarono, qualificandosi poliziotti e mi chiesero i documenti. Gli diedi la patente di guida, non bastò e presi la carta d’identità. Uno dei due, su un quaderno, si mise a trascrivere i miei dati, l’altro mi chiese perché mi trovavo nella piazza. Risposi: «per curiosità», allora mi consigliò di allontanarmi e stare attento al portafoglio. . Mi avviai, a piedi, alla stazione Termini, dove arrivai che era buio, sostando in un bar, avevo inoltre comprato in via Nazionale delle cravatte. In stazione mi sono seduto a un tavolo del bar in attesa di prendere il treno. Guardavo distrattamente la gente che correva avanti e indietro. Il vociare e gli altoparlanti mi davano fastidio. . A un certo punto la mia attenzione fu attratta da un gruppo di ragazze vestite con tuniche bianche fino ai piedi e turbanti di seta colorati: “erano figli dei fiori”, chiedevano offerte. Le seguivo incuriosito e notavo che si avvicinavano a uomini anziani, chiedendo offerte e offrendo dei libretti che tenevano nelle sacche sempre bianche. . Mi alzai e girandomi a un tavolo vidi un uomo anziano che sorbiva un the e due ragazze vestite di bianco, che gli offrivano un libro. Riconobbi in una delle due Eleonora, ci guardammo negli occhi senza dire nulla. Mi sentii toccare sulla spalla e mi girai, era il cameriere che mi chiedeva di liberare il tavolo, in quei pochi secondi Eleonora era sparita. . La cercai nella confusione e mi avviai verso il binario. Dietro un pilastro una ragazza vestita di bianco mi faceva segno di avvicinarmi, era lei. Quando fui vicino mi disse: «fate finta di niente e seguitemi». . Uscimmo dalla stazione in via Marsala, Eleonora avanti e io dietro. Al riparo di un chiosco chiuso si fermò e dalla sacca tirò un enorme scialle nero, si coprì dalla testa ai piedi, si vedeva soltanto la faccia di meticcia dagli occhi scuri e tristi. Con forza mi disse: «vi hanno mandato i miei a piazza Farnese, vi ho visto, mi siete passato vicino diverse volte, ma non mi avete riconosciuta». Come potevo riconoscerla con quell’abbigliamento? . Prontamente le risposi con sicurezza: «vado spesso a piazza Farnese, per incontrare delle amiche che studiano architettura in via dei Volsci; non cercavo te, né pensavo che potevi essere là. Ho telefonato a casa tua e ho capito che i tuoi genitori erano impegnati; anzi al telefono mi ha risposto tua zia, che io non conosco». . Lei mi girò le spalle, capii che singhiozzava, non sapevo cosa dire. Poi di scatto si girò e, alla luce dei fari di una auto, vidi un viso stravolto: «non mi prendete in giro, io non ho madre, sono un oggetto, sono stata comprata, per soddisfare l’ipocrisia e voi lo sapete». . Rimasi di stucco, non sapevo cosa rispondere: «so tutto, me l’ha detto la sorella di mio padre, poi chissà se è mio padre!». Io ero impaurito. . Ho cercato di farla ragionare e le ho detto: «di quello che mi dici non so niente, so che ti vogliono bene, che sono delle brave persone». Lei si avvicinò e cambiando tono disse: «perché mentite? Non ce l’ho con voi, ma con la sorte: già alle elementari mi emarginavano e c’era chi mi prendeva in giro. Ho capito che ero diversa, il colore della mia pelle non era uguale a quello dei miei genitori. I cugini mi rendevano la vita difficile, dentro di me le coccole dei miei genitori non avevano nessun effetto, anzi non sapevo il motivo, erano spesso fastidiosi. . Una sera ho sentito parlare voi e mio padre, di Rio, non vi eravate accorti della mia presenza, parlavate di pranzi e di cene, avevo tredici anni e da quel momento mi sono messa alla ricerca della verità. Quando rimanevo sola in casa rovistavo dappertutto senza trovare niente. Incominciai a chiedere notizie sui viaggi a Rio ai miei genitori e ai miei due zii, fratello e sorella di mio padre. Mentre con l’unica sorella di mia madre, con la quale i rapporti erano piuttosto tesi, le risposte erano sempre evasive. . Sei mesi fa è morto il padre di mia madre, lasciando in eredità fra l’altro, una villa a Spinaceto. Al termine del funerale, ritornai a casa. Ero stanca e dispiaciuta, il nonno era una persona per bene. Andai a dormire e lasciai i miei genitori e mia zia nel salotto a parlare. Mi stavo addormentando, sentii gridare, mi alzai e avvicinandomi alla porta del salotto, che era aperta, la sorella di mia madre diceva: la villa deve toccare a me, un giorno sarà di mia figlia, che è nipote di sangue, Eleonora non appartiene alla nostra razza!». ... . ... Dalle stelle ... alle stalle. ... . ... Il decennio ’60 ’70 del Novecento è trascorso, senza grandi traumi. Finita l’era industriale, che comprendeva sei realtà importanti, per un paese allora di settemila abitanti, a Bovalino, continuarono a svilupparsi le attività commerciali, avviate già da inizio secolo, ad opera delle famiglie: Apicella, Ferrigno, Guadagno, Zitara, Savo, La Camera, Di Pino, tutte di origine salernitana. . Assieme al commercio cominciò a crescere il turismo. L’intuizione dell’ingegnere Domenico Panuzzo, figlio Francesco, di un artigiano e poi commerciante, creò dal nulla una grande realtà turistica, conosciuta in tutta Italia, con la costruzione di due grandi alberghi all’avanguardia. . C’era anche una stazione balneare dove si sono esibiti molti dei migliori cantanti dell’epoca, di spessore nazionali. Famoso il messaggio pubblicitario sul “Corriere della Sera”: «venite in vacanza a Bovalino all’hotel Orsa, se piove non pagate». In quegli anni, d’estate, a Bovalino si affittavano anche i garages e la sera il corso principale era gremito di turisti provenienti da ogni parte d’Italia. Era il tempo delle ferie di massa, tornavano anche gli emigrati, per rivedere i propri familiari e tanti comprarono vecchie case e le ristrutturavano. La nuova costruzione della superstrada creò l’espansione urbanistica, innescando anche la speculazione. . L’alluvione del 1972 ha prodotto seri danni all’economia del paese: devastazione del territorio con intere famiglie sfollate dei paese interni che vennero alloggiate negli alberghi della costa e le loro miserie furono sfruttate dagli addetti ai lavori. Le attività economiche furono penalizzate e poi definitivamente distrutte dalla stagione dei sequestri di persona. Intanto dalle macerie dell’alluvione sortirono orde fameliche assetate di potere, in tutte le espressioni della società. . La sete era insaziabile: ripercussioni si videro anche nei partiti, gli idealisti furono messi da parte. La dignità politica, sequestrata e chiusa in cassaforte, a livello comunale crollò. Con la seconda Repubblica la situazione peggiorò: i partiti politici andarono in crisi, al loro posto si formarono le aggregazioni preelezioni. Le sezioni dei partiti, punto di riferimento ideologico e di formazione della classe dirigente politica, furono chiuse. . Un mese prima delle elezioni nascevano, come funghi nella nostra realtà, i salvatori della patria. Ad ogni tornata elettorale si formavano le liste cosiddette civiche, composte in genere da variegati personaggi di varia estrazione sociale, economica e pseudo politica. Il collante che li teneva legati, non era il bene comune, ma il privilegio e il potere, eccetto qualche eccezione in positivo, non apprezzata. . Nella compilazione delle liste si preferiva il portafoglio di voti, mai la competenza o la capacità culturale e politica, necessarie ad individuare e correggere il trend negativo che affliggeva il Paese. Finite le elezioni, gli eletti rappresentanti di una sparuta minoranza di popolo, con la legge maggioritaria comunale, di solito poco più del 30% del 70% che votava, assumevano il comando, mentre i non vincitori attendevano la rivincita alle successive competizioni. . I danni prodotti sono oggi evidenti nell’ambito economico, sociale e culturale anche a livello regionale e nazionale. Complici coloro che con il loro voto hanno permesso a personaggi incompetenti e senza scrupoli di usare la “cosa pubblica” per l’arricchimento personale. . In Italia sono diminuite le industrie e di conseguenza gli operai. Non si produce la necessaria ricchezza economica per garantire il decoro della persona e la libertà democratica. In questa situazione l’ottimismo si infrange nell’oscurantismo della demagogia populista dominante. Tangentopoli è stata una rivoluzione, forse manovrata dai poteri palesi e occulti. Il caos che seguì, non per colpa dei magistrati, è dovuto alla malafede dei politici di turno ligi all’informazione interessata. . D’altro canto molti personaggi, a tutti i livelli locali e nazionali, hanno preferito lasciare il campo ai nuovi arrivati. ... . ... Riflessione. ... . ... Come tanti italiani ho vissuto la tragica stagione terroristica degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Alla fine degli anni ’60 non mancavano i difetti del sistema, ma i pregi erano talmente superiori, che rendevano la vita sociale, economica e politica accettabile. Gli ultimi anni, caratterizzati da falsi profeti concepiti in provetta, che sono al servizio della criminalità finanziaria, stanno portando il Paese allo sfascio. . Il sequestro Moro ha segnato la fine di un periodo di progresso sociale ed economico, nazionale ed europeo, non voluto né amato dai poteri forti e occulti, comprese le religioni. L’Italia con le Partecipazioni Statali vantava prestigio internazionale nell’economia e nella diplomazia. Anche il meridione d’Italia dava segni di vitalità attraverso la costruzione di infrastrutture, di industrie e progetti realizzabili attinenti al turismo. . Nel mio paese si affittavano d’estate e d’inverno anche le case fatiscenti di campagna. Gli emigrati del dopoguerra, che avevano prodotto ricchezza e cultura nella grigia Val Padana, trascorrevano le ferie nei paesi di provenienza, e non nelle acque dell’Alto Adriatico e dell’Alto Tirreno, inquinate. . Le coste del Sud ancora incontaminate, ricche di paesaggi, di storia, cultura e ospitalità, rendevano piacevole il soggiorno. La classe politica era radicata nei territori e rappresentava le istanze e le ideologie dei cittadini, portate avanti dai partiti. Non vi è dubbio che c’erano molte cose da fare, nel sociale e nell’economia: era una società in evoluzione, ma salda nei valori costituzionali, nelle frange della popolazione e della classe dirigente. . Non mancavano i disonesti e si affacciavano gli arrivisti senza scrupoli, però il sistema reggeva anche con le industrie a partecipazione statale, come Iri e Eni. L’Italia primeggiava e già negli anni Cinquanta si apprestava a diventare la quarta potenza economica mondiale. . La posizione di influenza economica e diplomatica in America Latina e nel Mediterraneo, i buoni rapporti in Asia e con la Federazione Sovietica, erano mal digeriti dal potere economico occidentale, dai “religiosi” e dai massoni. L’Europa unita era una minaccia per l’economia delle grandi potenze e l’Italia era una parte importante di essa, con il suo peso economico e diplomatico internazionale. Emersero momenti tragici: il primo a pagare con la vita fu Enrico Mattei presidente dell’ENI; il secondo a distanza di tempo, Aldo Moro, che aveva fatto una apertura verso i partiti di sinistra! . La corruzione era in tutta Europa, non contrastata, dagli USA. La Comunità Europea, che era “figlia” della NATO, non riuscì a frenare frange terroristiche, che culminarono nella destabilizzazione sociale ed economica del nostro paese. In Italia incominciarono le privatizzazioni di grandi imprese statali, in nome della libera concorrenza, ma di fatto divennero monopoli della globalizzazione finanziaria, nazionale e internazionale. La società subì un affossamento culturale e un freno economico e sociale. . La seconda Repubblica ha permesso la destabilizzazione della cultura e dell’economia. Si è stratificata la classe dirigente e politica. Di conseguenza sono crollate l’economia e la convivenza civile, con la nascita di due classi sociali: i ricchi e i poveri, tra i quali insiste un abisso.E il 1922 si avvicina! ... . ... Quanto è profondo il pozzo. ... . ... La seconda Repubblica ha premiato gli artisti della menzogna. L’alluvione politica e non giudiziaria, come si vorrebbe far credere, ha travolto la società italiana. Chi ha vissuto gli anni ’60 e ’80 dello scorso secolo, lavorando e producendo ricchezza, diretta e indiretta, può darsi una risposta. . Oggi alla luce della situazione economicosociale la politica è latitante. L’Italia negli anni ’80 si è ubriacata di cose non buone. Il popolino che fa la differenza, essendo maggioranza si è lasciato abbindolare o meglio imbrogliare, si è accontentato degli escrementi! . Nelle istituzioni sono arrivati alla ribalta i giovani svezzati con la Nutella; gente senza scrupoli ha saccheggiato i partiti politici in nome della modernità e della cultura. È stata messa in cantina la dignità politica rappresentata da quelle persone che avevano, con sacrifici, creato i partiti ideologici e fatto nascere la Costituzione Repubblicana! . Premesso che la perfezione non esiste: la prima Repubblica, dalla nascita (1948) si era difesa dagli attacchi palesi e occulti delle classi conservatrici rappresentati dai movimenti clerico fascisti, che si annidavano nei partiti di centro destra. Qualche esempio: Legge Truffa (Scelba), scandalo aerei Lockheed, scandalo banane, terrorismo, ecc. . I partiti erano la struttura portante e la forza della democrazia. In ogni angolo del Paese c’erano le sezioni di tutti i partiti che consentivano l’aggregazione politica ed ideologica di larghi strati di popolazione, e forgiavano i futuri rappresentanti politici che avrebbero rappresentato i cittadini nelle Istituzioni. . I detrattori della legalità hanno eliminato gli enti di controllo degli enti locali, Giunta Provinciale Amministrativa prima e Co.Re.Co. (Comitato Regionale Controllo) poi; si sono inventati i manager e i commissari. Invenzione tanto cara all’alta finanza milanese, che ha portato sconvolgimento economico finanziario nella finanza pubblica. . L’apparato amministrativo nel 1960 così funzionava: in ogni comune il Consiglio Comunale eleggeva il Sindaco, che in qualsiasi momento poteva essere sostituito; il Segretario Comunale rappresentava la Prefettura ed era pubblico ufficiale; i posti venivano messi a concorso per titoli e esami; il medico sanitario e il veterinario erano pubblici ufficiali. . Qualsiasi atto della Giunta o del Consiglio Comunale poteva essere impugnato dal cittadino presso la Giunta Provinciale Amministrativa. Tutti gli atti del Consiglio Comunale venivano vagliati dalla Giunta Provinciale Amministrativa e se a verbale veniva motivato il voto contrario; il Sindaco doveva dare chiarimenti e nel caso di violazioni di legge, la stessa trasmetteva gli atti alla magistratura. Questi controlli non impedivano gli intrallazzi ma questi ultimi erano circoscritti e facilmente repressi. . Ricordo un episodio: un consigliere di opposizione contestò una delibera del Consiglio Comunale, inserendo nel verbale il motivo della contestazione. Nel tempo l’ente di controllo della Giunta Provinciale Amministrativa, dopo avere chiesto delucidazioni, inviò al magistrato la documentazione e il Sindaco fu condannato per abuso! . Anni 1970 75 commissione comunale, autorizzazione commercio ambulante; un commerciante ambulante, vendita ortofrutta, chiese l’integrazione aggiuntiva di vendita di prodotti per l’igiene. La commissione dietro input del presidente, a maggioranza, si esprime per il sì, un componente chiede sia messo a verbale, a termini di Leggi Sanitarie, l’illegalità della concessione. L’autorizzazione non viene concessa. . Commissione Edilizia Comunale, composta da molte persone, spesso rappresentava un deterrente, nei confronti del despota politico e del burocrate corrotto. Il disastro idrogeologico dei territori urbani è figlio della eliminazione del controllo preventivo; il disastro finanziario è figlio dei managers e commissari straordinari negli Enti pubblici. . Vecchi tempi, un esempio: Cassa per il Mezzogiorno, si costituisce nelle lande lombardo venete una società a responsabilità limitata capitale versato lire 100, si sale nelle Calabrie, si costruisce e si percepiscono 10.000 lire per una industria fantasma; si spendono 300 lire di manufatto e 600 lire di mazzette: alibi la criminalità, che non rilascia ricevute, così 9000 lire vengono sottratte alla collettività, soldi “spesi” con leggerezza! . Ieri erano lire, oggi sono euro, non sono cambiati né i musicanti né i direttori, certamente è aumentato il sottoproletariato. I partiti di sinistra sono stati messi in cantina dal potere finanziario, silenziati dal padrone dell’informazione; i sindacati si sono seduti sui divani buoni; la classe operaia si è estinta. Non ci sono industrie, non si produce niente, neanche gli stuzzicadenti. . La religione dominante è l’ipocrisia, il riciclaggio di persone e la bramosia dei denari ha messo al bando l’onorabilità politica e quella personale. Il pozzo è ancora profondo!? ... . ... Li ricordo così. ... . ... Giacomo Quattrone. ... . ... Giacomo Quattrone è nato a Bovalino nel 1890. Figlio di famiglia povera, era fratello di mia nonna. All’età di quindici anni partì per gli Stati Uniti d’America clandestino, come allora era d’uso. Dopo mesi di navigazione e tribolazioni, scoperto a bordo, lavorò e si pagò il viaggio. All’epoca della grande emigrazione i proprietari delle navi usavano favorire la clandestinità dei giovani, per poi farli lavorare a basso costo! . Sbarcato negli Stati Uniti, dopo essere stato sfruttato nei lavori umili nel porto di New York, si trasferì a Boston dove, dopo tanti sacrifici lavorando nelle lavanderie e stirerie, si mise in proprio. Si sposò ed era padre di otto figli all’epoca della depressione economica del 1930 .. Giacomo Quattrone assieme ad altri italiani ed europei erano gli “indignati” di quel periodo. Furono perseguitati e arrestati come i peggiori delinquenti. Da questi episodi e simili si formò il Partito Comunista negli Stati Uniti. Le persecuzioni e le varie detenzioni (per essere comunista) gli fecero perdere la famiglia. La moglie chiese e ottenne il divorzio, che aveva subordinato al ripudio, da parte del marito, dell’ideale comunista! . A ottobre del 1949 assieme ad altri dirigenti del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, compreso Michele Salerno, che in Italia fu direttore di diverse testate e scrisse vari saggi: Gerusalemme demistificata, America nera ed altri, furono deportati e successivamente espulsi dagli Stati Uniti per reati politici. All’arrivo a Napoli c’erano a riceverli tanti dirigenti del Partito Comunista Italiano, con in testa l’onorevole Giorgio Amendola, che intendeva presentarli a Roma. . Zio Giacomo, come lo chiamavamo non solo noi parenti, stanco e ammalato, trascinava una gamba per gli esiti delle detenzioni subite, declinò l’invito per venire nel suo paese e dalle sorelle. Io l’ho conosciuto e spesso lo accompagnavo. Era un uomo vecchio e ammalato, si appoggiava al bastone, dritto e fiero, di poche parole. Si esprimeva in un misto di dialetto, italiano e americano. Era un uomo di Bovalino che merita di essere ricordato! ... . ... Mario Camera. ... . ... Mario Camera, mio zio, è stato certamente un personaggio dei suoi tempi. Faceva il barbiere ed era un uomo libero, ha sacrificato la sua vita per il sostentamento della famiglia. Era un artigiano della forbice e del rasoio, trattava i clienti alla pari senza servilismo e, all’occorrenza, non si tirava indietro per far valere le sue ragioni. . Aveva di sicuro, come altri, i suoi difetti, ma riusciva a “ironizzare” su tutto e su tutti. Il suo salone di barbiere era il salotto di Bovalino. Amico di tutti, soffriva di intolleranza nei confronti degli uomini di potere, non tralasciava occasione per mettere in evidenza i soprusi e le malefatte, con quel suo innato senso dell’umorismo intelligente, schietto e tutto alla luce del sole. . Era persona educata e gentile: i suoi apprendisti sono stati premiati nella vita professionale e lo veneravano. Non sopportava le persone ignoranti che facevano sfoggio di potere classista dovuto alla condizione economica, spesso poco chiara. Queste persone a lui erano invise e senza mezzi termini glielo faceva presente. Coniava spesso massime e aneddoti, molti sono sempre d’attualità. . Negli anni settanta del Novecento Bovalino era meta di turismo di massa, con tanti emigrati che ritornavano per le ferie, ma c’era anche turismo d’elite nazionale e straniero. . Nell’agosto di uno di quegli anni, era circa mezzogiorno, lui era sulla porta del salone e si fermò un’automobile con delle persone. Il signore al volante gli chiese: «scusi signore lei è del posto. Le posso chiedere un’informazione?». Lui, con quel suo sorriso che lo distingueva, rispose: «certo, mi dica, se posso lo farò volentieri». . Il signore dalla macchina continuò: «mi scusi se la importuniamo, siamo arrivati adesso da Torino, nel pomeriggio ci devono affittare un’abitazione, saprebbe indicarci un ristorante nelle vicinanze?». Lui si avvicinò all’auto e dice: «a Bovalino ci sono alberghi, ristoranti, trattorie e locande, ma se vuole mangiare bene vada al Municipio, là si mangia bene!». . L’auto si avviò con gli occupanti colpiti dalla battuta scherzosa e lui li accompagnò con l’immancabile sorriso. Alla luce delle cronache giudiziarie e politiche del nostro tempo Mario Camera aveva visto la realtà italiana quarant’anni prima, come il suo amico regista Elio Ruffo aveva tracciato negli anni precedenti l’involuzione con i suoi film (in uno dei quali Mario Camera interpretò se stesso), della società, della criminalità e della speculazione industriale-commerciale e finanza internazionale. ... . ... Mia madre. ... . ... Il 24 agosto del 1908 a Bovalino è nata mia madre, Camera Francesca. Quintogenita del barbiere e cavadenti Filippo Camera, classe 1868 (il cavadenti era il dentista di allora e si limitava solo all’estrazione), e di Quattrone Lucia, chiamata Rosina. . L’abitazione era a fianco della Torre Scinosa, lato Sud; aveva due stanze, una adibita ad abitazione, l’altra, che dava sulla strada statale 106 in terra battuta, era il salone da barbiere. . Premetto che a sedici anni è rimasta orfana di padre, però nel 1929 è stata una delle poche calabresi a vedere il cinema parlato a Napoli dove era ospite del fratello Carmelo, in occasione della nascita di un nipote. . Mia madre ha vissuto il post terremoto del 1908, la prima guerra mondiale, la crisi economica degli anni trenta, la guerra d’Africa, durante la quale il fratello Antonio emigrato in Etiopia fu fatto prigioniero nel 1941. I miei genitori si sono conosciuti e frequentati da sempre, in quanto vivevano nella stessa via. Sposatisi, noi figli siamo in tre, ancora oggi che non c’è più la ricordiamo con grande affetto e riconoscenza, grati a questa nostra madre che tanto ci ha dato. . Durante la seconda guerra mondiale mio padre fu richiamato alle armi e, di conseguenza, la mia famiglia ha passato un periodo di ristrettezze economiche. Tutte le mamme sono speciali e, come mia madre, ce ne sono state tante, vissute quasi un secolo. . Mia madre é morta all’età di novantasette anni, era lucida, ricordava ogni cosa anche se, negli ultimi cinque anni, ha combattuto le malattie fisiologiche dell’età. Io di lei potrei scrivere tante pagine di ricordi. Era una donna di fede, molto religiosa, sempre disponibile verso chi aveva bisogno. . Nel 1959 quando sono partito per l’Argentina, era di mercoledì, lei fece un fioretto: non avrebbe più mangiato carne “il mercoledì” se io fossi ritornato a Bovalino, sano e salvo. Lo mantenne finché visse. ... . ... Mario La Cava. ... . ... Ho avuto l’onore di conoscere lo scrittore Mario La Cava di Bovalino. Da ragazzo lo incontravo per strada e spesso lo vedevo seduto, per un certo periodo, nella bottega di mio padre. Oggetto delle conversazioni erano eventi politici degli anni dal 1943 al 1960 che ha visto protagonisti alcuni artigiani di Bovalino (di quegli eventi ho scritto due note anni fa). A distanza di tempo ho capito che l’Avvocato memorizzava quanto mio padre raccontava dietro l’input delle domande. . Passarono anni, l’Avvocato viaggiava e scriveva su importanti giornali nazionali; aveva pubblicato libri e vantava rispetto e stima nel mondo intellettuale, eloquente la corrispondenza con Leonardo Sciascia. Abitualmente abitava a Bovalino, scriveva e passeggiava, sempre gentile con tutti quelli che incontrava. In quegli anni, spesso in autunno lo incontravo sulla spiaggia, facevamo i bagni ottobrini e a volte anche a novembre, mentre lui continuava per tutto l’anno. . La spiaggia, all’epoca era senza la via marina, con le barche dei pescatori, reti, argani, cassette rotte e odore di pesce fradicio. I pescatori lavoravano alcuni tipi di pesce sul posto, aggiungiamo le enormi botti di legno per il vino, che venivano lavate e lasciate piene d’acqua di mare, per diversi giorni, ed era un coctail di profumi o “maleodoranti” puzze. . Al riparo delle barche sotto vento, la puzza non si sentiva e il mare, complice il leggero vento di maestrale, diventava un piscina d’acqua limpida. Non eravamo in molti, una diecina di persone, sparse a ridosso delle barche. Ci si salutava all’arrivo e quando andavamo via, salvo qualche commento su eventi paesani, passavamo circa due ore, godendo del mare e del sole. . Nell’autunno del 1987, fine settembre, in paese era stata rimossa l’isola pedonale, saranno state le undici di sera e stavo chiudendo la saracinesca del negozio. Per strada un gruppo di persone, mi avvicinai e assieme all’Avvocato e altre persone c’era Ettore Badolato, suo amico, in realtà amico anche di tutti noi, raccontava delle ultime mode di Milano dove lui viveva da tanti anni. . Ettore mi mise una mano sulla spalla e affettuosamente mi costrinse a camminare con loro. Facemmo il giro dal passaggio a livello di Sant’Elena, la via marina e rientrammo dalle “girandole”, i tornelli di attraversamento pedonale della ferrovia, che erano vicino alla casa dell’Avvocato e qui ci salutammo. La passeggiata mi piacque, e le sere successive andavo a raggiungerli. . Ettore era inesauribile a raccontare eventi con una vena ironica e tutti lo ascoltavamo con piacere. Ricordo l’Avvocato con le mani dietro la schiena a fianco di Ettore, sempre assorto ma vigile nel precisare quando non condivideva. Era novembre del 1986. Arrivai sulla spiaggia verso le mezzogiorno e al solito posto c’era l’Avvocato. Era solo e leggeva una rivista. Salutai e gli chiesi se l’acqua era fredda, tanto per dire qualcosa. Lui mi guardò e rispose: «credo di no, il bagno si può fare». . Avvicinandomi all’acqua notai attorno a monte Scapparrone un alone di nubi bianche, mentre il cielo e il mare leggermente mosso, erano decisamente di quell’azzurro caratteristico del nostro mare Jonio. Ritornai sui miei passi e avvicinandomi all’Avvocato gli dissi: «Avvocato fra poco si alza il libeccio, vento freddo e mare agitato». . Lui alzò lo sguardo, sembrava seccato, era la seconda volta che lo distoglievo dalla lettura ma, con la consueta gentilezza, mi rispose: «facciamo l’ultimo bagno» e, andando verso l’acqua ripresi: «per quest’anno». . Purtroppo nel mese di febbraio successivo gli fu diagnosticata la malattia del secolo, un tumore. In paese eravamo tutti dispiaciuti e io nelle lunghe sue degenze ospedaliere, chiedevo notizie alla sua famiglia. . Nel 1988 ebbi la gradita sorpresa di ricevere una cartolina postale vergata personalmente dall’avvocato scrittore Mario La Cava, anche se notavo nella calligrafia la triste sofferenza della malattia. In questa cartolina trovo l’umanità e generosità dell’uomo e scrittore Mario La Cava. ... . ... Legittimo dubbio. ... . ... Nel 1990, sotto il peso dell’erosione morale e politica, la Giustizia Penale procedeva al ridimensionamento dell’arroganza criminale finanziaria della “Milano bene”. I salotti cosiddetti bene, agevolati dall’alibi della criminalità del Sud, enfatizzata e periodicamente pubblicizzata dall’informazione prezzolata, avevano saccheggiato l’economia e la finanza pubblica. . La finanza privata, detentrice dei pacchetti azionari, poteri occulti e palesi di queste signorie senza scrupoli si sono inevitabilmente trovati in guerra tra di loro. I referenti nelle istituzioni politiche erano diventati esosi e pericolosi per gli interessi della casta. Nei salotti si respirava aria pesante di tradimenti. Qualcuno pensò di correre ai ripari. Misero da parte l’idea delle armi e degli attentati, i nuovi arrivati nei salotti non erano tutti affidabili. Così la guerra: si è “serviti” della giustizia per “regolare” i conti con la concorrenza. . I salotti del potere erano frequentati e rappresentati da tutti i cittadini che vantavano potere economico, politico e istituzionale. L’accesso era vietato ai cittadini che non avevano problemi giudiziari; i reati privilegiati erano: la concussione, la corruzione, la truffa e l’illecita esportazione di valuta e di rifiuti. . Dentro i doppiopetto gessati, sinistre figure che si aggiravano in quei salotti, incutevano terrore e dettavano le loro leggi. I mezzi coercitivi, nei confronti di chi non obbediva, variavano e arrivavano fino all’estrema unzione economica e se era necessario fisica. La storia ci racconta che Al Capone finanziava il proibizionismo, per mantenere il monopolio della vendita del Bourbon. Gli anni passano e gli Al Capone si moltiplicano. Il potere politico e burocratico vive e convive. . L’informazione commercia la notizia; la stragrande maggioranza di questi poteri, nei salotti, prende ordini e profitti economici: corruzione alla luce del sole. Tutti conoscono la realtà, per anni vengono dilapidati denari dei cittadini inermi, si parla di miliardi e miliardi di lire. In una delle centinaia di fondazioni, che infestano la convivenza civile, religiose, private e pseudo politiche, inizia la prima guerriglia. . Le armi sono: delazione anonima e palese, l’arbitrio degli arbitrii e la commercializzazione delle notizie. Gli sciacalli occulti e palesi buttano benzina sul fuoco, la destabilizzazione economica e sociale è il loro obiettivo per rafforzare il potere. Gli sciacalli nazionali, soci di quelli internazionali, si riuniscono in rada di un porto del mediterraneo. Ordine del giorno: presa d’atto soddisfacente della situazione politica, “Caporetto del 1990”. . Strategie da attuare: imposizione dell’armistizio, presa del potere istituzionale direttamente senza intermediari, partiti politici e relative rappresentanze sindacali, comprare la dignità della burocrazia, creare un messia. . Il “messia” fu individuato al loro interno all’unanimità, così nacquero i prestati alla politica, i quali approfittando della confusione, hanno consolidato il potere, dimostrando che anche la grande percentuale di popolo è un gregge facile da controllare e plagiare. In Italia i cicli di potere politico sono ventennali. . La storia vera, non quella dei detrattori interessati o prezzolati, testimonia la bella epoca del progresso sociale ed economico del periodo 1960 1980. L’Italia produceva beni e servizi anche fuori i confini territoriali. A fatica la società italiana si era affrancata politicamente ed economicamente, la classe media, operai, artigiani, piccoli imprenditori e la classe burocratica dello stato, godevano un mese di ferie l’anno: grande esempio di benessere sociale. . Le partecipazioni statali facevano dell’economia mista la forza del progresso produttivo. Naturalmente non tutto era perfetto, gli sciacalli erano in agguato sempre pronti a colpire e hanno trovato il punto debole nell’ubriacatura di una grande percentuale di popolazione, il vino era ciofeca, di cattiva qualità. . L’acidità ha fatto l’effetto e gli sciacalli hanno vinto la guerra. La privatizzazione dei beni sovrani dei cittadini e lo stravolgimento delle rappresentanze popolari nelle Istituzioni è il nuovo traguardo degli sciacalli. Riusciranno i vostri eroi? ... . ... Paura. ... . ... Ero assorto sulla porta del negozio, pensavo con preoccupazione alle scadenze imminenti: assegni, cambiali e tasse. La strada era deserta, quasi mezzogiorno, e non avevo incassato una lira. A meno di sessanta metri c’era il presidio sanitario dell’Inam sempre affollato di persone. In quel periodo dai paesi interni non scendeva nessuno, stavano tutti “bene” in salute. . La verità era che la gente aveva paura di uscire di casa, specialmente in macchina. Bovalino era nella morsa criminosa di attentati e sequestri di persona, presidiata dalle forze di polizia, per le quali ogni cittadino poteva essere un potenziale sequestratore. In realtà i pacifici cittadini, al di là del fastidio dei posti di blocco delle forze dell’ordine, temevano di fare incontri pericolosi. . La paura nasceva dalla prevaricazione psicologica alimentata dalla carta stampata e dall’informazione televisiva che “ricamavano” notizie sulle disgrazie di intere popolazioni. Dopo oltre quindici sequestri di persona, quelli ufficiali, in un paese di ottomila abitanti ufficiali e quarantamila gravitanti, era arrivata l’offensiva militare dello Stato, con l’unico effetto: la distruzione dell’economia turistica e commerciale. Le industrie e l’artigianato avevano chiuso i battenti da tanto tempo. . Mi destò dai miei pensieri un tizio, lo chiamerò così, si parò davanti e mi disse cosa pensavo della bomba che avevano messo al negozio di un collega del paese vicino. Non sapevo di cosa parlasse e lui mi informò. Intanto dall’altra parte della strada c’era una persona con la telecamera che filmava. Il tizio vicino a me si accorse che l’avevo notato, tolse le mani da dietro la schiena e vidi il microfono. . Il tizio era molto giovane, aveva l’aria scanzonata, sembrava che sfottesse. Mi disse di stare tranquillo, erano della televisione e stavano girando un servizio nella zona. Iniziammo una conversazione da salotto, senza sale e senza pepe, a telecamera spenta. . Dopo qualche giorno il tizio si presentò per salutarmi e andammo nel bar vicino a prendere un caffè. Seduti a un tavolo c’erano quattro persone, si salutò con uno di loro e venni a sapere che erano altri giornalisti, venuti nella nostra terra colonia come degli inviati di guerra. Bevuto il caffè uscimmo e i quattro ci raggiunsero sul marciapiede, parlavano fra di loro e si scambiavano informazioni. . Da quello che ho potuto ascoltare, ho capito che a queste persone non interessava la vera realtà. Non intendevano rappresentare il vero problema sociale che nasceva dall’emarginazione economica del territorio, ma dovevano raccontare quello che faceva comodo agli affaristi del mondo economico e finanziario dell’intera nazione. . L’obiettivo era distogliere l’opinione pubblica, creare l’alibi di un Sud criminale, dando ad intendere che la produttività di un Nord efficiente fosse bastevole all’economia nazionale. È anche certo che quella “efficienza” non ha allontanato quelle delittuose malefatte che si generano nella società del profitto, come ben si evince in questa “nostra” Italia. . Una situazione disparitaria di ricchezza mal distribuita che ha impoverito ulteriormente la gente del Sud, aumentando le ingiustizie sociali e le disuguaglianze. Conseguenza: il “piccolo” turismo della riviera jonica della Locride è declinato, la nostra terra di Calabria trascurata, non solo dallo Stato, screditata nell’opinione pubblica nazionale, anche se ricca di civiltà e umanità, viene lasciata al proprio destino. Cosicché le risorse naturali e culturali, il patrimonio storico archeologico, disconosciuti ai molti, non vengono valorizzati per questa infida perdurante condizione di disagio. . L’industria turistica del Centro Nord, espressione di società S.p.A., pacchetti azionari ed elargizioni di pubblico denaro a fondo perduto avevano interesse ad affossare la timida concorrenza del Sud. Ricordo che siamo manchevoli di infrastrutture pubbliche, che non è stata mai permessa la nascita del casinò a Taormina, che la strada statale 106 jonica ancora oggi è quella per il 70 % dal 1930: i ponti nel soveratese, sono la prova; la statale 112 aspromontana che congiunge i versanti Jonio Tirreno, da quaranta anni è interrotta; l’economia, artigianato e piccolo commercio distrutti. . Questi eventi causarono lo spopolamento del centro urbano e conseguente emarginazione sociale delle classi meno abbienti. La società civile è composta in maggioranza da cittadini che lavorano, producono e vogliono tranquillità. Poi ci sono i ladri di galline e i delinquenti in servizio permanente effettivo. I ladri di galline sono controllabili, mentre i delinquenti si mimetizzano e addirittura ostentano l’aureola, (trattasi della criminalità occulta, i colletti bianchi). Bovalino, a fatica ha cercato di risalire la china, ma ancora c’è tanto da fare. ... . ... È crisi politica. ... . ... La crisi sociale ed economica è il frutto della seconda Repubblica, instaurata sulla base delle teorie politiche dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. I protagonisti di questi ultimi trent’anni di potere, si sono prodigati a violentare il sistema democratico e istituzionale, tramite l’incapacità dei più e la furbizia dei pochi “indanarati”, produttori di degrado e povertà. . Di questo sfascio sono tutti responsabili, compresi coloro che si sentivano acculturati. Certo una parte del popolo soffriva ed era impotente al cospetto dei “neo podestà” di turno, che conquistavano il potere, non per meriti, ma per demerito culturale di chi glielo consentiva, salvo poi a pentirsi e dire con la stessa faccia di bronzo, di non averlo votato. . La fine della prima Repubblica ha registrato, negli anni antecedenti il 1990, l’avvento al potere istituzionale di persone avide e senza scrupoli. L’alluvione politico sociale ed economica ha falciato il sistema; le vittime sono state quelle persone coinvolte per dabbenaggine, mentre i responsabili, forti della loro solida disponibilità in danaro e della capacità di negare l’evidenza dei fatti, hanno dribblato la Giustizia. . Fra la prima e la seconda Repubblica non c’è stato un periodo di transizione politica, ma la continuazione attraverso quegli individui, sfuggiti alle maglie della rete della Giustizia. Alcuni si sono salvati con la delazione, altri perché insignificanti. Gli insignificanti sono assurti al potere, in rappresentanza e manovrati; animati da rancore verso tutto e verso tutti. Erano insignificanti nelle giunte e nei consigli comunali, a loro venivano elargite molliche e calci nel sedere. . Tutto questo è successo in Italia: nei Comuni, nelle Provincie, nelle Istituzioni Statali. Non c’è stata alcuna rivoluzione culturale, solo diatribe personali, di chi si è servito della giustizia per minare la democrazia. La democrazia la potevano garantire soltanto i partiti politici, portatori di istanze sociali, di idee e di aggregazione. . Nel dopoguerra, l’Italia ha vissuto la stagione della ricostruzione a tutti i livelli. Non era tutto roseo, la battaglia era aspra. Tra gli elettori c’era chi votava per un’idea classista, vera forza della Democrazia Cristiana. Le beghe personali rimanevano nell’ambito dei signorotti vecchi e nuovi, che certamente non discutevano per il bene comune. . Con l’inizio del 1994, la data si è fermata al sei di gennaio. Già a carnevale i protagonisti della politica si sono procurate parecchie maschere, che usavano a seconda delle loro necessità. Alla faccia del popolo civile e acculturato. Attualmente il popolo è “salvo sulla teleferica”; la politica, come una fiumara, è straripata: c’è alluvione politico-sociale, il popolo sarà portato in salvo? ... . ... I figli della Nutella. ... . ... L’Italia ha consacrato alla storia, nelle varie generazioni, tanti figli. Nel Novecento durante il ventennio fascista c’erano i figli della lupa, plagiati alcuni e obbligati altri, erano inquadrati dalla burocrazia scolastica. Post seconda guerra mondiale sono nati gli scugnizzi; erano giovani morti di fame, provati dalle malattie e dall’alimentazione che, spronati dai bisogni elementari, con determinazione e fantasia scrissero pagine di eroismo in tutta Italia. . Negli anni settanta sull’onda del benessere economico e sociale apparvero i figli dei fiori. La società incominciava a lacerarsi: incomprensione fra figli e genitori. Negli anni Novanta la svolta epocale. La crisi politica, la libertà demagogica, la disgregazione della famiglia, elemento primario di qualsiasi società, ha creato i figli della nutella! Certamente non sono tutti uguali ma sono i più e fanno la differenza in negativo! . I figli della nutella sono pesi morti per la società, sono arroganti ed egoisti. Loro sanno tutto e di tutto, vantano titoli privi di sostanza. Certamente la cultura è deficitaria ed ha le sue responsabilità con le politiche dei ministeri dell’istruzione! Il cittadino colto è umile e razionale, quello ignorante è presuntuoso e arrogante. . Il declino sociale non è fisiologico necessariamente, come vogliono farci credere gli addetti alle pubbliche relazioni, potrebbe essere un disegno che viene da lontano. Una società affamata economicamente, culturalmente e politicamente a chi giova? Il potere occulto e palese, per i suoi interessi, trasforma le macerie in oro colato; complici, spesso ignari, i figli della nutella. La società è viva e produttiva se c’è rispetto dei ruoli. Il ruolo più importante è il senso civico, il quale per essere attuato, necessita di cultura e di umiltà! . Il primo obiettivo è tutelare la famiglia, nucleo centrale e fondamentale assieme all’istruzione razionale. Le altre componenti della società miglioreranno automaticamente e la politica e l’economia. Tutti devono accettare il ruolo che la natura ha assegnato! ... . ... Il medico della mutua. ... . ... Nel cammino della vita si incontrano diverse persone, alcune vale la pena ricordarle come il medico della mutua. Era un afoso giorno d’agosto, circa le undici e mi trovavo in vespa vicino alla piazza del municipio. Attraversava la piazza un signore dai capelli bianchi, sul braccio portava la giacca, lo riconobbi. . Tornai indietro, mi fermai e salutandolo lo vidi, stanco e sudato, gli chiesi: «buongiorno dottore, oggi di domenica, che fate a Bovalino?». Lui si avvicinò, appoggiò la mano sulla mia spalla, quasi per avere un appoggio e con quell’espressione solare che lo distingueva, rispose: «sono a fare una visita domiciliare, ieri non mi è stato possibile, e sono venuto oggi in treno». . Io continuai a dire: «salite, vi accompagno». Mi rispose che era sudato, non aveva più l’età, e che mi avrebbe aspettato alla stazione per prendere un caffè. Lo raggiunsi dopo avere fatto una commissione e lui era seduto al bar, sorseggiando una bottiglietta d’acqua, mi sedetti e ordinai un caffè. . Il medico era ammalato e faceva la dialisi. Era un ottimo specialista, stimato da chi lo conosceva, ma inviso a molti colleghi. Lui non aveva lo studio privato in città. Non diceva ai pazienti: «venite nel mio studio, qua non ho i mezzi per fare una diagnosi precisa», come facevano alcuni colleghi, perché naturalmente la visita allo studio privato era a pagamento. Questa sua umanità dava fastidio a certi colleghi, che lo criticavano e in senso dispregiativo dicevano che era un campagnolo. . Il treno aveva un’ora di ritardo, gli feci compagnia e mi raccontò della paziente. Io la conoscevo, mi aveva confidato di essere affetta da tumore, il medico spesso la curava a domicilio e le forniva anche dei medicinali. Era molto umano. . La donna viveva assieme alla sorella più grande, difendeva i nipoti che erano sempre assenti avendo impegni di famiglia così diceva l’ammalata per giustificarli, ma negli occhi si vedeva l’amarezza. Il medico mi strinse il braccio e disse: «certo caro Mimmo, è povera,, vive di pensione, se fosse ricca o benestante le girerebbero tutti attorno; poi al funerale faranno i commossi, è la vita!». . Il medico viaggiava “a passaggi”. Da Reggio Calabria veniva a Bovalino tre volte la settimana e svolgeva due ore di ambulatorio. In attesa del collega di turno aspettava nel mio negozio. Era molto discreto e se entrava un cliente, cortesemente si teneva lontano dall’acquirente. Ha lavorato per diversi anni e ci facevamo le confidenze, io dei miei viaggi e del mio lavoro e lui dei problemi quotidiani. . Mi raccontava dell’università, subito dopo la seconda guerra mondiale, a volte studiava alla luce di una candela. Abitava nell’interland di Reggio Calabria, la mattina per recarsi al porto a prendere la nave doveva incamminarsi alle cinque e d’inverno era dura. Portava con sé la colazione, come faceva il padre che lavorava in campagna, avevano piccoli appezzamenti di terra, che permettevano loro di vivere dignitosamente. . I figli del dottore frequentavano l’università in Alta Italia e spendevano la retta, consumando come una Ferrari. Lui era molto conosciuto e apprezzato, ma non amava speculare sui pazienti, era onesto. Viveva con la moglie, una donna dolce e di buon cuore. Un giorno lei andò a fare la spesa in un supermercato, vicino alla porta notò una bambina vestita di stracci che chiedeva l’elemosina. Le fece tenerezza, la portò all’interno, le comprò un vestitino e una colazione e le chiese dove abitava e quanti anni aveva. La bimba rispose che aveva 6 anni e abitava assieme ai genitori, in una baracca non molto distante, sotto un ponte. . La signora la sera raccontò l’episodio al marito e decisero di andare a vedere dove era domiciliata la bambina. Sapevano che in città erano arrivati centinaia di profughi dai Balcani: videro la miseria e l’indigenza nella quale versavano quegli esseri umani. Della bambina nessuna traccia. . Venivano guardati con diffidenza e delusi stavano andando via, quando incontrarono una giovane donna con una bambina, che riconobbero dal vestitino che la signora le aveva comprato. La bambina parlava un po’ di italiano, la madre niente. Il medico le scrisse il suo indirizzo e il numero di telefono da dare al padre, lavorante in campagna. . Passarono diversi giorni e un pomeriggio, mentre imperversava un temporale, il medico sentì suonare il campanello di casa, era la bambina insieme al padre. Erano bagnati, la signora portò la bambina nel bagno per asciugarla alla meglio. Intanto il padre, educato e con un italiano stentato, raccontò al medico che erano arrivati dalla Macedonia sei mesi prima, insieme alla moglie e due figli, una femminuccia e un bambino di due anni. . Lui lavorava in nero e a volte non lo pagavano, approfittando perché era un clandestino. Con amarezza disse: «sono scappato dalla povertà e sono più povero di prima, almeno lì avevo una casa». Il medico si consultò con la moglie, mentre la bambina beveva una tazza di latte e il padre un caffè, così convennero di fare una proposta al macedone. Il medico in campagna aveva la casa paterna, chiusa da anni, con attorno qualche ettaro di terreno, tutto abbandonato. Era distante un paio di chilometri dalla periferia. . Intanto aveva smesso di piovere, era ancora giorno e il medico con il macedone, in auto, si recarono in campagna. La casa era in pessime condizioni, non c’era energia elettrica e neanche l’acqua, ma c’era il pozzo. Era meglio della baracca, e il medico gli disse: «domani ti trasferisci qua, cerca di arrangiarti, puoi fare l’orto e vedrò se i vicini ti faranno lavorare, ma dobbiamo andare in questura e farti avere il permesso di soggiorno». . Dopo sei mesi il macedone aveva il permesso e i documenti per tutta la famiglia. Aveva messo in condizioni di agibilità l’abitazione, curava l’orto, lavorava come trattorista. La moglie del macedone faceva le pulizie in alcune famiglie e la bambina andava a scuola di pomeriggio e la mattina accudiva il fratellino. . Dopo un paio d’anni la malattia del medico si aggravò, portandolo alla morte. Diversi anni dopo, sulla via Marina a Reggio incontrai il macedone. Mi raccontò, che dopo la morte del medico, la moglie andò a vivere al Nord dai figli, mentre lui si era trasferito in città, e con la moglie avevano trovato un nuovo lavoro. La figlia quell’anno si sarebbe iscritta all’università. Si mise a piangere pensando che senza l’aiuto del medico, non ce l’avrebbe mai fatta. Quante storie come questa ci sono al mondo, che non fanno notizia! ... . ... Il caro estinto. ... . ... Davanti alla chiesa insisteva una moltitudine di persone, c’era il carro e il furgone delle pompe funebri. Vicino alla porta principale un tavolino con il registro per la firma ed esposto su un cavalletto il manifesto funebre. Le persone erano raccolte in gruppi omogenei: politici, commercianti, “don” intesi come nobili decaduti, gli operai, i contadini e i disoccupati. La rappresentatività sociale c’era tutta. . In un angolo della piazza, all’ombra degli alberi, un gruppo di persone anziane erano sedute sul cordolo dell’aiuola. Il defunto, spesso negli anni precedenti, sedeva nelle stesse occasioni con loro. Mi avvicinai come sempre a salutarli, loro rappresentavano il passato, la saggezza e l’esperienza di vita, tanto distanti dalla realtà giovanile odierna. . Molte di queste persone, conoscono vita e miracoli della società locale e a me piace ascoltare. Un valente artigiano novantenne, si toglie la pipa dalla bocca e dice: «quanta gente indegna! Persone che ci incontrano e non salutavano, facendo finta di non vederci, ora sono presenti ad esaltare la loro ipocrisia». . Un altro anziano aggiunge: «vi ricordate quando è morto Gigi? Lui, per quaranta anni, partecipava a tutti i funerali, ma siccome non aveva figli o nipoti, tanto tempo prima aveva elargito i suoi averi ai parenti, al suo funerale si era in pochi, solo gli amici». Un terzo anziano dice la sua: «tempo fa, ritornando con mio figlio, da una visita medica, siamo passati dall’ospizio a salutare Gigi, ci declamava la struttura favolosa, di quel luogo era felice e contento. . Mi chiese il numero di telefono, si era fatto comprare un telefonino da una infermiera, all’insaputa dei suoi, dei quali non conosceva i numeri telefonici. Io di telefonini non capisco niente, figuratevi lui più grande di me. Ci aiutò l’infermiera e fu così che di tanto in tanto ci sentivamo, finché non glielo hanno portato via, dava fastidio con le sue telefonate! . Si vergognava, si sentiva isolato, era molto amareggiato per quella solitudine. Per lui che aveva dato tutto, nessuno aveva tempo». Finita la cerimonia religiosa, affranti e dolenti, fingendo commozione, baci, abbracci e strette di mano, tutto come da copione. ... . ... FINE.