ADELCHI BARATONO. IL MONDO SENSIBILE: INTRODUZIONE ALL'ESTETICA. 1934 Principato Editore, Messina - Milano. . ... Trascrizione elettronica rivista e resa disponibile dalla Fondazione Ezio Galiano onlus http:\\www.galiano.it ad esclusivo uso dei privi della vista. ... Testo curato da: Paolo Alberti e Paolo Oliva per il "Progetto Manuzio", iniziativa dell'Associazione Culturale "Liber Liber". Ulteriori informazioni sul sito: http://www.liberliber.it/ ... . ... Indice. . CAPO 1. L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI. CAPO 2. IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA. CAPO 3. L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE. CAPO 4. IL SENSO COME PROBLEMA PSICOLOGICO. CAPO 5. LA REALTÀ E IL VALORE SENSIBILE. CAPO 6. IL BELLO. CAPO 7. L'ARTE. . Fine Indice. ... . ... Al Dottor LELIO LUXARDO, che da intelligentissimo alunno, mi divenne impareggiabile amico, dedico questo saggio scritto per gli alunni e per gli amici. ... . ... CAPO 1. L'ANTINOMIA SUI SENSIBILI. ... . ... 1. Il mondo sensibile è tutto ed è nulla. . Per la filosofia, il mondo sensibile non è nulla. Come conoscenza e verità teoretica, la sensazione, prima e dopo Platone, non è nulla di reale; tutt'al più, essa è creduta una realtà soggettiva, psicologica, la più soggettiva delle realtà. Un colore, un suono, una sensazione organica, che valore reale posson avere? Non soltanto questi sono elementi empirici sparpagliati, semplicemente contigui nello spazio e nel tempo, i quali attendono dalla memoria e, attraverso questa, dall'intelletto la loro unificazione, nei rapporti, appunto, di spazio e di tempo, e poi nelle categorie logiche che li fanno diventare la tale cosa o il tal fatto e in questa guisa ce li fanno comprendere: cosicchè anche il più opaco sensismo, nonchè quello d'un Gassendi, di un Locke, di un Condillac, deve finire col riconoscere in essi dei semplici contenuti di una forma logica, dei punti di partenza all'attività pensante, dei fenomeni organizzati dalle categorie superiori; ma perfino l'esser queste sensazioni suoni colori dolori ecc., e l'esser in genere sensazioni, questo loro "essere", dico, si realizza ed "è" insomma suono o colore o dolore sol in quanto è idea. . L'idealismo è inoppugnabile. Conosciamo teoreticamente qualcosa, fosse pure una minima sensazione, come quella tal cosa, in quanto la pensiamo, la realizziamo nell'idea di sensazione o di quella sensazione. Il sensibile in sè, fuori della mediazione del pensiero, non è dunque nulla, o meglio non può essere nulla: è un non essere. Meno ancora i sensibili hanno valore alcuno rispetto all'attività pratica e quindi alla filosofia della pratica. Il senso, lo spregevole senso, è negato dalla ragion morale; il mondo materiale viene respinto dalla volontà etica, che tale è appunto in quanto nega e supera il dato sensibile, il fatto, la materia. Se chiamiamo corpo la materia in quanto è senso, ebbene, il valore morale è morale in opposizione al corpo, e lo si chiama anima e spirito. Anzi, fenomeno interessante, questa energica negazione dei sensibili da parte del pensiero etico reagisce anche sul pensiero teoretico; al punto che l'idealismo, il quale logicamente si dovrebbe contentar d'affermare che l'empirico, il sensibile, la materia insomma, sono pur essi idee e hanno quindi per lo meno diritto di cittadinanza nel mondo delle idee accanto alle altre, se pure gerarchicamente più in basso, tuttavia di solito gonfia le gote contro l'empirico, lo respinge dal proprio sistema, rifiutando perfino di vedere nella filosofia empirista quello ch'essa è veramente: non un'opposizione all'idealismo filosofico, ma una correzione rispetto al problema dei contenuti conoscitivi del pensiero teoretico. . Anche per la scienza la sensazione non è nulla. La scienza, sì, osserva il dato empirico, il fatto, il sensibile; ma l'osserva al solo scopo di superarlo, sostituendolo con elementi e rapporti d'ordine razionale. La storia delle scienze fisiche è tutta aperta a testimoniarci che il dato sensibile non è che un punto di partenza, un soggettivo illusorio, una qualità seconda, a cui è còmpito della scienza sostituire una realtà più vera, oggettiva e universale, e alla fin dei conti razionale, possibilmente matematica. Questa luce che vedo, per il fisico è mera soggettività; egli se ne serve soltanto di punto di riferimento empirico per giungere a leggi matematiche, ossia all'enunciazione di rapporti costanti, rispetto ai quali, non solo questa luce visibile, ma anche altri elementi d'ordine immaginativo, come la rappresentazione alla Fresnel d'ondulazioni eteree, di cui si deve servire per analogia con l'esperienza comune, non sono che momenti e gradi di passaggio per giungere alla costruzione razionale del vero scientifico. L'epistemologia odierna ha messo ben in evidenza questo contrasto interno che si dibatte nel pensiero scientifico fra una necessità puramente empirica, che lo lega all'esperienza, e la sua incoercibile aspirazione ad una perfetta concettualità, e razionalità formale, in cui starebbe il coronamento del sapere obbiettivo; fra il doversi contentare di enunciare positivisticamente leggi come constatazione di rapporti osservati a posteriori, e il bisogno di raggiungere le cause determinanti logicamente i fatti. Certo, malgrado tutto l'induzionismo da Bacone a noi, la scienza accetta il fatto sensibile solamente perchè ed in quanto non ne può fare a meno: l'accetta cioè provvisoriamente, su l'esempio del grande Leibniz, per tentar di ridurlo a una legge a priori, e adopera l'induzione e l'esperimento solamente col proposito di farne un metodo, non di prova, ma di riprova e controllo della veridicità delle ipotesi. . Tutto ciò non può far meraviglia se si considera ciò che i sensi sono anche nella vita comune. La nostra vita è costituita dalla nostra volontà, e i valori di essa riguardano le finalità del nostro volere. Orbene, la volontà al senso non s'arresta mai: essa lo adopera come un semplice segno di qualcosa che ne sta al di là e che costituisce il proprio fine. Nessun volere s'appaga mai dell'essere sensibile; nessuno spirito umano si loderebbe di non aspirare a qualche cosa oltre il sensibile; nessun pensiero sarebbe pensiero se non contrapponesse, al sensibile, i valori superiori e se non reagisse al mondo dei sensi in nome d'un mondo della ragione. ... . ... 2. . Tuttavia, filosofia scienza e vita, appunto perchè trovan nei sensibili un ostacolo alle aspirazioni dello spirito (ostacolo che chiamano vile materia, empiricità, male e carne), debbon implicitamente riconoscervi un valore di necessità. Che dico? Non possono a meno di fare i conti con esso, di subire l'esistenza del senso. Allora, per un altro verso, il mondo sensibile può apparirne il solo mondo reale e cacciare l'anima, lo spirito, la ragione nel mondo delle illusioni: una sensazione, intendo dire una sensazione pura, razionale, non ancora conoscenza e idea - ciò che tocco vedo sento immediatamente -, è il sassolino che fa sempre inciampare la magnifica corrente dello spirito umano alla ricerca dei valori superiori. Allora, la filosofia cede il posto all'empirico, s'adatta ad accettarlo almeno come il necessario contenuto delle forme conoscitive, almeno come la necessaria resistenza alle ali dell'intelletto. . Allora, la scienza deve riconoscere, che per quanto alta e profonda sia la legge che ha scoperto, il più piccolo contrasto ad essa, osservato in un fenomeno particolare, basta a capovolgerla. Allora, la psicologia stessa è obbligata a convenire, che non soltanto nella percezione, ma in ogni grado e forma rappresentativa c'è un elemento sensibile in cui essa forma si attua; in ogni attività, per quanto nobile, dello spirito, c'è un sentimento, un "gusto", una sensibilità che la règola e dirige. . Il pensiero è pensiero in parole e in atti sensibili; i suoi valori valgono realmente come sentimenti che spingono le nostre attività: che vale la legge morale se non palpita in un cuore? che cos'è la stessa ragione, se non diviene un bisogno, direi un istinto, o in ogni modo un sentir le cose intuendole come valore? Non soltanto un buon ingegnere è quell'ingegnere che ha ridotto a senso tecnico le sue conoscenze teoriche, e così un buon medico ecc.; ma anche un sapiente è un saggio, e un filosofo è tale se vivono sensibilmente il loro sapere e la loro filosofia, nel che si distinguono dai semplici scolari o imitatori, i quali possono ripeterne con grande esattezza gli ammaestramenti e i concetti, ma non vi aderiscono con l'anima, non li sentono: comprendere significa sentire! Perfino l'erudito, il puro erudito, è un vero erudito quando il materiale ch'egli amorosamente raccoglie si riscalda della sua sensibilità fatta squisita e si dispone secondo una scelta diretta, per così dire, più dal fiuto che dalla ragione; o meglio, dalla ragione che sente e respira. . Non basta. La vita del pensiero, mai pago del sensibile, del fatto, del raggiunto, e così ardentemente teso a raggiungere una realtà sempre più profonda oltre il sensibile, a inseguire un'idealità posta sempre oltre le esistenze sensibili, ecco che, riguardata da quest'altro aspetto, apparisce pur tutta presa dal mondo dei sensi, tutta dedita ad attuare sensibilmente i suoi fini, a non riuscire a porre la felicità se non nel sensibile. E ciò non soltanto nel quadretto umoristico che si potrebbe abbozzare, del religioso che al mattino si preoccupa del suo caffè e latte e alle dieci del suo uovo a bere e poi via via delle più corporee, delle più materiali abitudini che pur comprendono tanta parte della sua vita; ma la volontà stessa, fosse pure generosa volontà d'attuare la legge della ragion pura, fosse pur volontà e desiderio di Dio, in che può collocare il suo fine ultimo se non nell'attuare concretamente, e cioè sensibilmente, in un individuale atto sensibile, questi valori universali? . Se desidero una cosa, è ben vero che non mi contento mai di ciò ch'essa è sensibilmente - mettiamo, quest'arancio che vedo, quel manifesto che raffigura i picchi delle Dolomiti ergentisi dalle selve di abeti, o semplicemente la parola (per es. "Monte Cristallo") -, ma è anche vero che il mio desiderio s'appagherà soltanto nel trasformare queste sensazioni rappresentative in nuove sensazioni reali (il sapore dell'arancio, la visione di quel paesaggio alpino ecc.): benchè già si scorge che i termini "rappresentativo" e "reale" non riguardano ciò che una sensazione è per sè stessa, ma il valore che noi le diamo. Parimenti, se amo una persona, bramo vederla udirla toccarla, unirmi con essa, possedere qualche oggetto di lei: non conosco l'amore insensibile... Anche la stretta di mano fra conoscenti, l'abbraccio fra amici non sono una mera convenzione, ma un bisogno e, direi, un simbolo di sensibile unione. Anche qui il "materiale" e il "morale" riguardano il valore etico; ma la madre copre di baci il corpo della sua creaturina, e perfino il più profondo misticismo spasima d'unirsi sensibilmente col Valore assoluto. Onde gli equivoci del materialismo; ma qui si tratta del fatto che un valore, per esistere, bisogna ch'esista sensibilmente pur se vale in quanto nega e respinge i sensibili: la forza di certe virtù rigide e perfin selvagge sta nell'impeto della lor nascosta sensualità. . Appunto: i fini intellettuali e morali, le idee e gli ideali, han valore teoretico e pratico in quanto s'oppongono al mondo dei sensi e lo trascendono all'infinito, per attingere la conoscenza delle cause universali e necessarie e delle leggi assolute; e il pensiero umano è pensiero in quanto fòrza i sensi e sale a Dio: pur nondimeno tutto ciò, se esiste, esiste sensibilmente, come mio individuale essere empirico, e all'individuale sensibile, alla "cosa" e all'"atto", deve ritornare, se non vuol piombar nell'astratto. L'astratto, nella conoscenza e nella pratica, è dopo tutto esso medesimo null'altro che l'illusione d'un concreto, che l'insufficenza del nostro ingegno o la debolezza del nostro volere non ci han permesso di raggiungere: ipocrisia e viltà. Allora, "cogito ergo sum" significa: posso dubitare di tutto, ma non posso dubitare del mio pensiero perchè lo sento: lo sento sensibilmente, proprio, come dubbio; questo è il suo esistere, che non dipende dal mio volere - perchè il volere è sempre diretto a ciò che ancora non è - fare che non sia. Quanto alla realtà di ciò di cui dubito, per esempio del mondo o di Dio, e alle idee che me ne vado formando con l'atto di pensare in cui s'attua quel dubbio, anch'esse esistono come giudizi e parole: come realtà in sè, debbono esistere, ma la sola prova che ne posseggo è la certezza che accompagna l'idea chiara ed evidente. Certezza, come ognun vede, è di nuovo un sentire; di nuovo, nell'interno del pensiero pensante, il suo essere reale si sdoppia contrapponendo il valore di realtà - il suo dover essere universale e necessario (a priori) - all'esistenza di essa realtà come sensibile, anzi come mero sentire, dubbio e certezza (almeno di tal dubbio). L'antica saggezza indica col dito il cielo delle idee assolute; ma non appena ringiovanisce, "Dafür! esclama: Gefühl ist alles"... ... . ... 3. . Assurdo è il sensismo, se ci fosse un sensismo del puro senso: una teoria che negasse l'idea, ossia se stessa: ma la sensazione esiste. Non è nulla ancora, non è nulla fuori del pensiero - intendo ormai dire che non è una realtà logica, poichè questa realtà di cosa o fatto determinato glie l'attribuisce il pensiero -, ma esiste. Anzi, a ben considerare, esistere significa proprio e soltanto esser o poter essere sensibile. Difatti, se l'esistenza è quel valore che corrisponde al sentimento di certezza che ci dà un oggetto, la certezza riguarda prima di tutto il sensibile e tanto più quanto più è tale, come il tatto e il senso organico. Non si confonda la certezza con la fede. Fede e certezza son due forme di credenza: la prima può esser mille volte più energica della seconda, perchè può rispondere a un bisogno mille volte più urgente di quello di riconoscer come esistente ciò ch'esiste (chi per es. ha fede nell'anima immortale o in Dio, colorisce il suo oggetto d'una sicurezza intrepida, tutt'affatto volontaria); ma questa credenza apodittica riguarda il dover essere, non riguarda il semplice essere esistenziale delle cose. La certezza dipende da una necessità e in fondo da una passività: sono certo di questo foglio bianco perchè mi s'impone; son certo che se uscissi da questa stanza, questo foglio resterebbe ancora qui sol perchè son certo che ritornandovi ne avrei ancora la sensazione. La fede è una credenza attiva e quindi libera, laddove la certezza è un'obbligazione, un riconoscere che qualche cosa non dipende da noi. Tal'è appunto la sensazione. E se esistenza vuol dire l'esserci qualche cosa d'assoluto, d'in sè, che non dipenda da noi, il sentimento della realtà poggia tutto e soltanto sui sensibili. . Si può obbiettare che noi siamo ancor più certi della verità d'un ragionamento. Lo stesso Locke riteneva, con tutto il razionalismo, che il ragionamento "more geometrico" rappresentasse il modello della verità certa. Infatti siamo certi, per prendere il classico esempio, che la somma dei tre angoli d'un triangolo è uguale a due retti. Sì, la somma dei tre angoli è uguale a due retti se è vero il postulato d'Euclide sopra le parallele dal quale questa conclusione si deduce; ma se il postulato delle parallele va a gambe in aria, come nella geometria riehmanniana, anche la conclusione viene a mancare. In altri termini, le verità matematiche sono tali condizionatamente ai principii da cui si deducono. E i principii? Il razionalismo ne faceva delle verità categoriche sol perchè attribuiva un assoluto valore alla ragione: oggi le matematiche son da considerarsi come scienze costruttive e ipotetiche, per cui, ad esempio (come dice il Poincaré), "non ha più senso chiedersi se la geometria è vera o falsa". . Ancor più chiaramente: pur considerando, secondo la tradizione, le scienze matematiche come scienze astratte e deduttive, la loro verità e quindi la loro realtà è puramente logica, e noi vi crediamo in rapporto alla verità dei principii da cui deducono e alla realtà degli oggetti da cui astraggono: è vera la geometria in quanto è vero lo spazio geometrico; se questo è un astratto, essa è tutta quanta astratta e formale, vale a dire che le sue conclusioni, giuste in sè, saranno vere sol in quanto sono reali i punti le linee le superfici i volumi dello spazio euclideo; e se passiamo ad una geometria ad n dimensioni, avremo conseguenze diverse, la verità delle quali sarà sempre condizionata dalla convenzione iniziale e dalla realtà dei concetti assunti come principii. In ogni modo, la certezza di tali verità non è reale, ma formale: siamo certi del giusto ragionamento, non della vera ragione. . Del pari siamo certi che due più due fanno quattro ottenendo questo risultato coll'aggiungere (1 più 1) più (1 più 1). Ma che cos'è l'unità matematica? L'uno quantitativo è un'individualità reale o non piuttosto una misura di questa? Invero, le matematiche sono scienze astraenti piuttosto che astratte, e il loro valore è normativo, ossia utile alla misurazione, piuttosto che reale e obbiettivo. La matematica non scopre leggi di natura, ma inventa formule logiche, per cui la sua verità è ineccepibile sol nei limiti e nelle condizioni entro cui si elabora. Difatti oggi la matematica, o si chiude in sè stessa come ricerca puramente formale, e in questo senso non ci dà altra certezza che quella conveniente al rapporto stesso di non contraddizione che ne regge lo svolgimento analitico; oppure s'applica come scienza positiva alle ricerche fisiche, e in questo senso diventa un semplice strumento di misurazione che abbrevia l'esperienza e ci permette per via di riduzione di giungere a risultati che l'esperienza sensibile non ci darebbe. ... . ... 4. . Ma a parte tutto ciò, il ragionamento in generale in che senso è certo? Vorrei rispondere con un giuoco di parole: è certo se ha un "senso". Il ragionamento non è la ragione. È strumento di conoscenza, non è la conoscenza; anche un idiota (anche una macchina) può ragionare benissimo e non capir niente: basta che ragioni a fil di logica, secondo i principii d'identità e contraddizione. È in questi che abbiam fede: deve esistere qualcosa d'identico perchè ci sia una realtà, sebbene non se n'abbia alcuna esperienza perchè tutto muta nel mondo sensibile. Dev'esserci un'unità a posteriori corrispondente all'unità a priori del nostro intelletto. Allora, la conoscenza consiste nel cercare, ossia nello scoprire l'identico a traverso le differenze: la sostanza d'una "cosa" è la presunta unità delle sue proprietà permanenti identiche a sè stesse, la causalità d'un "fatto" è la presunta identità del rapporto fra cose diverse o proprietà varianti delle cose, ecc.; ma che prova abbiamo noi che all'unificazione del pensiero corrisponda l'unità reale, se non quella della spontaneità dello spirito? che certezza, se non quella che s'appoggia sulla conferma dei sensibili? Perciò la scienza - che come teoria a ciò è destinata: adeguare il sensibile all'intelligibile nella cosiddetta legge di natura - da questo punto di vista apparisce il tentativo più serio di riprova empirica delle idee metafisiche, che ne rimangono, per dirla col Meyerson, il "postulato segreto". . Il contrasto fra scienza e filosofia è un trascurabile episodio de' nostri giorni, contrasto fra l'acriticismo d'alcuni scienziati tutti dediti alla tecnica e l'arazionalismo d'alcuni filosofi innamorati del soggetto puro; ma del resto venne già risolto col prammatismo e poi a sua volta superato. L'eccezione dimostra l'esattezza del criterio, che la scienza segue fedelmente le sorti della filosofia (e cioè del pensiero umano) a cui deve servire di raccordo empirico, collocandosi fra la metafisica, che riguarda l'universale (assoluto come dover essere), e la storia, che riguarda il particolare (assoluto come essere), per dare alla lor sintesi filosofica la certezza teoretica su l'analisi dei reali sensibili. Infatti nei secoli del razionalismo la scienza seguì prevalentemente l'indirizzo cartesiano e ci aprì il velario sopra un mondo assoluto, in cui forze in sè movevano le masse, intese come sostanze materiali in balìa di forze assolute, l'inerzia e la gravità, misteriosamente agenti a distanza, in uno spazio e in un tempo assoluti: è lo spettacolo della natura newtoniana, chiamata divina perchè vera razionalmente (matematicamente), in realtà certa materialisticamente come sistema di sostanze (corpi) e cause (forze) in sè. Quando il criticismo filosofico dimostrò che il pensiero non può trascender se stesso (teoreticamente); che la "materia" non è che l'ipostasi d'elementi sensibili più costanti presi astrattamente, come il movimento e il peso, a far da sostrato agli altri e a spiegarli (Berkeley); che la realtà delle sostanze e la necessità delle cause sono valori di natura sensibile, credenze ottenute per analogia con la certezza delle impressioni abituali (Hume); o meglio, che le categorie della conoscenza teoretica - a priori, sì, perchè la loro necessità e universalità è indeducibile dall'esperienza, ma di valore oggettivo - sono relative ai contenuti sensibili, e non valgono se applicate al di là di questi in un mondo che trascenda l'esperienza (Kant): allora anche la scienza entrò a vele spiegate nel fiume del relativismo immanentista. Comte prosegue Kant e non contraddice Hegel: il suo fenomenismo non è che il riconoscimento dell'impossibilità teoretica di raggiunger la realtà in sè: ci dobbiamo contentare di fermare i rapporti costanti fra i fenomeni in leggi che valgono solo per essi. . Che cos'è dunque il reale oggi per la scienza? Quello che è per la filosofia! La filosofia, a riguardarla tutta quanta nel suo corso storico, è un immane sforzo mille volte iterato per trasferire il valore d'esistenza, e quindi la certezza reale, dal mondo sensibile a quello intelligibile: cento volte l'onda dell'uman pensiero ascende fino all'assoluto, fin a Dio, per elevare un sistema metafisico che non sia soltanto sentimentale ed etico, ma anche razionale e teoretico; altrettante volte deve, criticamente, ridiscendere nei confini dell'esperienza soggettiva e convenire che, se l'essere totale e perfetto implica perchè tale l'esistenza, nulla ci assicura ancora che un essere perfetto esista, fuor che il suo attuarsi in noi e nella nostra esperienza: la prova logica, reale e causale, di Dio val più della prova ontologica. . Pertanto la scienza, senza cessar di postulare l'unità e identità in sè dei reali (per obbedire al principio e alla legge dell'intelletto), trasforma l'unità della materia nell'equivalenza delle energie; considera queste come una pluralità di aspetti dell'esperienza irriducibili ad altro (energetismo), oppure, poichè le energie si trasformano una in altra, modifica il vecchio atomismo in una concezione dinamica del mondo fisico chimico, in cui gli atomi diventan masse apparenti prodotte da centri d'energia elettro magnetica che si materializzano e dematerializzano condensandosi o radiando nell'etere. Però, se chiedete a un fisico d'oggi che cos'è un campo elettro magnetico, risponderà ch'è un rapporto algebrico; e se gli chiedete che cos'è l'etere, vi dirà ch'è una convenzione formale. Il vero scientifico è l'idea del reale (un reale più vero); ma il reale è l'esperienza e niente più: il più positivo degli scienziati oggi la pensa come il più idealista dei filosofi: la conoscenza teoretica è idea che si obiettiva nell'atto sensibile, e cioè si realizza realmente e non metaforicamente. . La scienza, resa esperta dal contingentismo e dall'attualismo contemporaneo a non annettere alcun valore reale alle "etichette sulle bottiglie vuote", si dà per còmpito di costruire un sistema di leggi, non solo relative ma anche relativizzate all'esperienza, misuratrici dei fenomeni e non realtà oltre i fenomeni. L'ultima espressione della fisica odierna, lo Einstein, rappresenta il punto di vista più aderente al criticismo contemporaneo, che, pur opponendosi allo scetticismo dei prammatisti, secondo i quali è vera quell'ipotesi che ottiene maggior successo nelle applicazioni ai sensibili, fùga le ultime vestigia del razionalismo newtoniano. La realtà scientifica non è un trascendente: l'assoluto è il rapporto unitario fra i relativi, il "continuum" fisico definito pensando tutte le possibilità dei rapporti fra la misura e gli oggetti misurati. La scienza è semplicemente misurazione, quantitatizzazione di relazioni; giacchè spazio tempo movimenti non sono enti assoluti ma relazioni logiche fra elementi analiticamente astratti che si definiscono l'uno con gli altri. La scienza è obbligata ad astrarre per ridurre il molteplice all'uno (per es. tutto il mondo fisico a energia elettro magnetica e questa a movimenti, ossia a rapporti spazio temporali misurabili quantitativamente); onde possiamo obbiettivamente concepire il cosmo come un campo di forze, non più esistenti in sè come l'inerzia e la gravità, ma definibili sol geometricamente nel rapporto delle quattro coordinate spazio temporali a cui ogni movimento si può ricondurre tuttavia questo schema astratto di configurazione geometrica in cui sono possibili tutti i rapporti di movimento senz'altra ipotesi che la riducibilità delle qualità sensibili a rapporti geometrici, è vero sol in quanto giova a stabilire il corrispondente sistema delle dieci equazioni che definiscono l'invariante misura valida per qualunque osservatore in qualsiasi sistema di riferimento. È Cartesio, ma divenuto relativista. ... . ... 5. . D'altra parte, il relativismo - quello filosofico, da Protagora in poi - sembra non ci voglia lasciar posto ad alcuna certezza reale, fuor che del soggetto stesso conoscente: allora scoppia, tragica ("questione di vita o di morte", diceva il Feuerbach), l'opposizione fra il senso comune, realista, il quale crede assoluti e fuori di noi, anzi indipendenti dal nostro pensiero gli oggetti della sua certezza, e il pensiero riflesso, idealista, che ci avverte che gli oggetti, tutti gli oggetti, sono oggetti perchè conosciuti, e cioè nostre idee. Sono sicuro che sul mio capo esiste il cielo stellato, che esiste in sè, che esistette prima di me, che esisterà dopo di me: nel contempo io son anche convinto che il cielo stellato è una mia esperienza; che comunque io lo conosca si tratta sempre d'un atto del mio pensiero; che cielo stelle ecc. son miei concetti, e anche le qualità su cui me li sono formati, come luci colori distanze ecc., sono sempre idee o almeno rappresentazioni, per cui non posso parlare d'un cielo indipendentemente da me o, per analogia, da uomini che lo veggano o che lo possano aver visto in un tempo passato o futuro, che anch'esso è una mia rappresentazione analogica. Insomma, ritorna l'antinomia del certo come essere reale in noi e come dover essere fuori di noi affinchè sia reale in sè: c'è un'esigenza logica che m'obbliga a credere che ci sia qualcosa d'assoluto fuori di me, e c'è un'esigenza critica che in pari tempo mi astringe a riconoscere che tutto ciò che dico esistente, esiste in una mia attuale o possibile esperienza e perciò in relazione con me. Quel cielo stellato, che dovrebb'essere anche s'io non fossi mai nato, anche se nessun uomo avesse mai aperto gli occhi a contemplarlo, che cosa mai potrebb'essere in sè, dal momento che tutto quello che è, è il nostro modo di vederlo e di pensarlo? . La soluzione non ce la può fornire la scienza che, come abbiam visto, partecipò per la tesi quando la filosofia fu in prevalenza dogmatica, e partecipa per l'antitesi ora che la filosofia è critica. Una volta stabilita l'impossibilità d'estendere di là dall'esperienza, in un mondo assoluto, le categorie che ci servono a organizzare l'esperienza nei concetti di realtà oggettiva - se preferite, la chiameremo "natura" o realtà empirica degli oggetti conoscibili, dei quali fa parte anche il soggetto empirico -, e una volta convenuti su l'incoerenza di voler conoscere teoreticamente la sostanza in sè (materia o spirito) e la cosa in sè - sol riuscendo a reduplicare in astratto elementi tolti all'esperienza -, la realtà scientifica non è, per così dire, più reale della realtà data sensibilmente: la seconda legge della termodinamica è più reale della prima! La scienza è una precisazione dei reali, un approfondimento del conoscere obbiettivo, spesso (come appunto la prima legge della termodinamica) una traduzione in termini e in formule semplificate in modo da essere utili alla previsione dei fatti e alle applicazioni pratiche: il vero del reale, appunto. Del resto, il vero, anche in generale, non è altro che il progresso, il divenire della conoscenza: definisce l'essere reale degli oggetti che già le appariscono esistenti, ma su questa esistenza (sensibile) fonda la certezza del loro (più) vero essere. Che quella nube sia rossa e che il sole laggiù scenda nel mare, mi risulterà erroneo quando esaminerò meglio questi fatti, ma l'illusione è esistente e in tal senso reale al pari delle nuove osservazioni sperimentali, in confronto con le quali determinerò (in generale) la verità del rapporto più costante. . Riuscirà la filosofia a strappare il valore di certezza reale alle esistenze sensibili per trasferirlo in qualcosa d'assoluto corrispondente alle forme pure della ragione?L'idealismo trascendente alla Parmenide e quello gnoseologico platonizzante sono stati mille volte convinti di evidente paralogismo; ma l'idealismo soggettivista, e cioè relativista, in che crede, se non crede nel soggetto sensibile? Infatti, non appena abbiamo dichiarato con l'antico Protagora che l'uomo, solamente l'uomo è misura "delle cose che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono", l'acutissimo Socrate ci porta a concludere, essere inoppugnabile allora la sentenza sfuggita dalla bocca di Teeteto: "La conoscenza è sensazione!" . Dopo quel memorabile dialogo molt'acqua è corsa sotto i ponti, e la sensazione oggi si chiama idea per indicare, nonchè la sua natura soggettiva, il suo valore intellettivo, e la si pone qual primo momento del processo del divenire delle idee, ossia dei reali: ma perchè primo? che ragione ci forza a incominciare la conoscenza dai sensibili, anzi a "porre" il sensibile, detto poi il più soggettivo degli oggetti, come il modo più oggettivo del soggetto? Tanto oggettiva, questa soggettivissima realtà, che ci obbliga a uscir di noi stessi e a pensarla, incoerentemente, come fenomeno d'una cosa in sè; e sia pure questa inconoscibile!... "Le cose direttamente percepite sono idee o sensazioni, chiamatele come volete..." diceva lo stesso Filonous, da cui parte l'idealismo contemporaneo, nel dialogo di Berkeley: "Ma poichè io so che non son io il loro autore, non essendo in mio potere determinare a piacere quali particolari idee dovrebbero impressionarmi aprendo i miei occhi od orecchi, esse devono esistere in qualche altra mente che vuole che m'appariscano". . So bene che c'è un modo semplicissimo di risolvere le antinomie del pensiero: accettarle come constatazione di fatto - constatare che il pensiero procede sempre per opposizione di soggetto a oggetto, ponendosi come oggetto (non io) e opponendosi come soggetto (io) -, e promuovere il fatto a legge e principio, riconoscendo in un terzo momento, quel della riflessione, che dunque il pensiero è la sintesi dell'antitesi, nella quale ciascun degli opposti si realizza come oggetto e soggetto per l'altro. Però, questa è una legge psicologica, che spiega, direi, la "natura" del pensiero, ma non giustifica il valore reale del conoscere; esprime in modo unitario la dialettica delle forme, non ci dice perchè l'idea si specifica, esiste in una particolar sensazione, e come dalla sintesi (che significa realmente questo termine?) dell'intelligibile, definito come soggetto puro, col sensibile, definito soggetto empirico, salti fuori l'oggetto reale. . D'altra parte, allorchè la filosofia (e si dica pure l'idealismo filosofico, ch'è tutt'uno), decisa ormai a non evadere l'esperienza, è forzata a concludere che l'universale sempre si attua in concreto nell'individuale (e la filosofia stessa nella storia), è difficile evitare la conversione del sistema in un radicale empirismo, come già avvenne dopo Hegel, dove tutto dev'essere com'è, salvo a chiamare idea l'essere attuale sensibile; e tanto varrebbe accogliere le conseguenze estreme coraggiosamente e brillantemente tratte dall'intuizionismo francese: l'essere è l'esistere immediato, intuitivo, e il conoscerlo è il... sentirsi vivere. Sennonchè, una ragione che afferma l'irrazionale, la contingenza, che ragione è? ... . ... 6. . Il problema della intelligibilità dei reali è ancor aperto perchè appunto il mondo sensibile contiene un elemento in sè, il suo esistere, irriducibile, e cioè indeducibile dal pensiero puro, e al quale anzi apparisce condizionata la realtà della ragione medesima. Ora, perchè siamo certi della realtà sensibile (anche se la sistemiamo in un vero e in un bene ideale)? Se il sensibile ha un valore teoretico e pratico e diviene una cosa e un fine soltanto nella sintesi conoscitiva del nostro pensarlo, come può esister in sè? Come la più soggettiva e la più empirica delle nostre conoscenze può essere condizione d'ogni realtà conosciuta obbiettivamente? E come evitar di precipitare o nel nominalismo scettico o nel realismo trascendente il soggetto nella "cosa in sè"? . Una soluzione di ripiego fu quella dell'empirio criticismo tedesco: la sensazione è un dato, un contenuto per sè arazionale e senz'alcun valore nè logico nè pratico, nè oggettivo nè soggettivo. Il valore glie lo darebbero dunque le "forme" del pensiero, l'attività teoretica e pratica. Anch'io credo che i contenuti sensibili non si debbano, in quanto tali, intendere come soggetti o come oggetti, perchè oggetti e soggetti lo divengono proprio per opera dell'attività conoscitiva: infatti li pensiamo come oggetti e come soggetti mettendoli in rapporti logici d'identità o contraddizione con sè stessi o con altri contenuti ugualmente ideativi, nonchè mediando (relativizzando) l'idea di oggetto con quella di soggetto e viceversa. In altre parole, quando conosciamo il sensibile, l'abbiamo già trasceso in quell'oggetto, ossia in quell'idea, di cui esso non è più che la "rappresentazione": questo rettangolo bianco è un oggetto perchè mi rappresenta una cosa, per es. un foglio di carta, o me stesso, la mia sensazione, appunto, di bianco. Il conoscere va sempre, l'abbiam detto, oltre i sensibili; mentre che ora in essi dobbiam noi rimanere evitando di trascenderli. . Ma anche il dire che il sensibile è un dato neutro e senz'alcun valore, è una contraddizione in termini, perchè in tal caso non sarebbe nulla, non se ne potrebbe parlare affatto. Il Kant pose i sensibili come contenuti, per sè (o meglio, per noi) ciechi, delle forme, per sè vuote, dell'intelletto; ma ciò in astratto, allo scopo di definire i limiti e le condizioni della conoscenza teoretica: quei contenuti, a lor volta considerati, cioè conosciuti, sono per il Kant fenomeni, sono cioè l'apparire a posteriori (indipendente da noi) del mondo in sè, del mondo che dobbiam pensare debba esistere assolutamente quantunque non si possa conoscere teoreticamente. Insomma, il fenomeno kantiano è nientemeno che il conoscibile del noumeno, verso cui risaliamo organizzando quei contenuti nelle forme conoscitive, che pur esse valgono in quanto rinviano ad un assoluto affermato almeno praticamente come un dover essere. Se invece, con l'immanentismo empirio criticista, togliamo al sensibile non soltanto ogni valore teoretico, ma anche il valore assoluto che lo condizionava presso Kant, che "dato" è più esso? dato da chi? . O non c'è più niente, e la conoscenza è forma vuota; o c'è soltanto il contenuto arazionale, che non cerca alcuna forma, non avendo alcun valore. Per me, il problema dei sensibili in quanto tali è metafisico, non è gnoseologico: di essi non abbiamo una conoscenza mediata, ma un'intuizione immediata e diretta; meglio ancora, essi sono il nostro esistere, il nostro partecipare dell'essere. Anche la coscienza di questo "nostro" che ora dico, vien dopo, si fa conoscitivamente, parlandone appunto; e del pari la coscienza di essere, contrapposto a noi; ché sopra il sensibile si formano indifferentemente così le idee d'oggetto come quelle soggettive, la natura e lo spirito. La conoscenza è sempre attività oggettivante e perciò dualizzante: la conoscenza teoretica oggettiva i contenuti prescindendo da se stessa, dal soggetto attivo, dal pensiero pensante, e organizza l'esperienza in un sistema di concetti e di leggi che chiama natura; la conoscenza pratica organizza il pensiero stesso, le forme o i fini che dir si voglia, prescindendo dai contenuti, in un sistema d'idee deontologiche e norme che chiama spirito; e questi due mondi a lor volta s'oppongono assolutamente (eticamente) oppure cercano accordi condizionandosi a vicenda (utilitaristicamente). Ma un contenuto, un sensibile, per la conoscenza è già un'idea: conosco questo bianco (ripeto) almeno come idea astratta di bianco (le "idee semplici" del Locke) e me ne servo per definire l'oggetto bianco o me stesso come senziente questo bianco. Sono già dentro l'oggetto, e lo stesso contenuto apparisce secondo i casi come un oggetto, dirò così, oggettivato o come un soggetto oggettivato, la natura in sè o la natura mia, la fisica o la psicologia. . Dico che l'attività conoscitiva adopera il sensibile come segno (questo bianco, la parola "bianco"), vale a dire come rappresentazione di qualcos'altro intelligibile (una "cosa" o me stesso) che vuol definire teoreticamente o di cui si vuol servire praticamente; ma non vàluta affatto il sensibile in sè medesimo, o lo vàluta come un dato, un limite a posteriori privo di valor positivo: l'empirico, il molteplice, il nulla logico ed etico; anche la gnoseologia pertanto ci può sputar sopra. Tuttavia noi viviamo di sensazioni: esse sono ciò che noi sentiamo, anzi, evidentemente, non sentiamo che il sensibile; questo solo appare come evidente e certo, certo d'una necessità immediata, metafisica, come quella di Dio. Ora, come provare, come giustificare razionalmente (filosoficamente) tal valore positivo del mondo sensibile, che tutti sentono come necessitato in sè, ma che per la detta ragione sfugge a ogni prova conoscitiva e mediata? ... . ... 7. . È questo problema ch'io m'accingo a risolvere nelle pagine seguenti. Per me, la sensazione è il solo ponte che ci riunisca al cosmo; il solo che congiunga le opposte rive di quegli abissi scavati dalla conoscenza umana, che si chiamano dualismi. Tagliar questo ponte per meglio avanzare nel mondo delle idee, negare il sensibile per affermare assoluto il sovrasensibile, rifiutare la realtà dell'essere come contingente esistenza per attinger quella dell'essere come dover essere in se, è nobile atteggiamento del pensiero puro pratico, dominante in fondo anche tutta la filosofia: ma ciò costituisce l'"illusione metafisica", l'illusione del volo al di sopra dell'aria che lo condiziona. Senza dubbio, se il nostro pensiero potesse creare liberamente i suoi oggetti, formarli cioè indipendentemente dai sensibili in giudizi e in atti puri, noi costruiremmo il mondo assoluto e necessario, il mondo metafisico, l'intelligibile della ragion pura, l'incondizionato. Ciò in effetto avviene in quanto il pensiero è libero, ed è libero in quanto è volontà, chè volontà e libertà sono sinonimi, l'una e l'altra indicando non una "cosa" (reale) e un "fatto" (causale) - contenuti, questi, della conoscenza o volontà teoretica -, ma un rapporto di valore, una finalità. In altre parole, il pensiero è libero in quanto vuol esserlo: il che costituisce l'atteggiamento pratico del pensiero puro, il pensiero come volere, la "ragion puro-pratica" kantiana. . Ora, in quanto il pensiero è libero, e cioè si vuol liberare da tutte le condizioni empiriche - tanto più se le riconosce come suoi contenuti conoscitivi empirici -, esso corre a formarsi le idee assolute e universali in opposizione ai sensibili, e conformi alla trascendentalità del pensiero stesso. In tal caso però, i contenuti del pensiero, le idee assolute, sono formali; coincidono cioè con le stesse forme del volere e si riducono a un'obbiettivazione dei fini, che così divengono i valori prodotti dall'attività pura. Sono idee trascendentali esprimenti il dover essere, la categoria; meglio, sono norme categoriche, imperativi morali (anche se a fine teoretico), postulati della ragione; e metton capo al principio stesso dell'incondizionato e dell'assoluto, al postulato della libertà, che non è altro se non l'autonomia del volere il quale si dètta la propria legge formale in opposizione a tutti i contenuti esistenziali. . Il mondo intelligibile è dunque un mondo deontologico, un mondo di pure forme trascendentali: di forme che debbono trascendere all'infinito l'esperienza per valere come fini ultimi, puro-pratici, del volere: è il mondo dello spirito. Or come le forme a priori, i valori spirituali (il dover essere pratico) divengono conoscenza e oggettività anche teoretica, valori reali, la "natura" e la "storia"? Come il trascendentale, il dover essere (per noi), diviene trascendente (essere in sè), e il valore si realizza? Come la finalità o libertà diventa causalità, e l'universale si particolarizza, il dovere si attua in potere, il diritto in fatto; come la categoria formale acquista i contenuti reali e l'idea si fa concetto? Realtà implica esistenza, per quanto arricchita di tutti i valori ideali che in questa si realizzano convertendo l'esistere in essere. E l'esistenza? Se qualcosa può e deve esistere per ipotesi o per certezza teoretica, se qualcosa esistette o esisterà per conoscenza storica o scientifica, si tratta sempre d'illazioni mediate e d'analogie unicamente fondate sulla prova di qualcosa che esiste, che è presente, immediatamente; e questo qualcosa diciamo sensazione. Essa soltanto, la sensazione immediata (si può anche dire "intuitiva", metafisica), ci può rappresentare conoscitivamente il soggetto e l'oggetto. . Conoscere significa rappresentarsi, per mezzo di un sensibile - e sia pure l'immagine o la parola, che sono sempre sensibili - una cosa o un fatto (percezione) e i loro valori concettuali e ideali (appercezione). Ora, queste conoscenze sono teoretiche (e non soltanto pratiche), queste rappresentazioni sono reali (e non fantastiche), questi valori sono veri valori (e non soltanto fini soggettivi), universali e necessari, se l'attività conoscitiva, il pensiero, per quanto diretta oltre l'esperienza sensibile, si relativizza ad essa, relativizza i fini ideali ai mezzi esistenziali, si concettualizza. . Con ciò non diciamo, col sensismo, che la conoscenza reale consiste nella sensazione: al contrario! la sensazione non è conoscenza. Il sensibile diviene intelligibile nelle unificazioni che lo trascendono nei concetti di natura e di storia; ma queste sintesi sono teoretiche, questi concetti sono reali, se la percezione e l'appercezione in cui si attuano o i giudizi esistenziali in cui si esprimono sono il risultato dell'analisi sulle esistenze sensibili. Mentre che il pensiero pratico, la volontà cosciente di sè, corre a' suoi sbocchi determinando i propri fini ideali nell'opposizione pratica (antinomismo etico) coi sensibili, trascendendo assolutamente il soggetto e l'oggetto empirici; esso si fa pensiero teoretico, ossia volontà cosciente dell'oggetto (e di sè come oggetto), sol in quanto si ripiega sui sensibili e sui propri sentimenti per adeguarvi i fini, per riunificare il soggetto e l'oggetto, il volere e l'essere. Tali unificazioni reali, dal più empirico dei percetti al più razionale dei concetti, non cessano dunque di essere sintesi a priori, razionali appunto perchè trascendentali (e, in fondo, pratico teoretiche); ma non sono, non debbono esser più trascendenti l'esperienza e quindi la sensazione. . La critica della conoscenza non può far a meno di considerare le forme conoscitive in un necessario rapporto con i contenuti sensibili e di ancorare i valori reali alla presenza di qualcosa che esiste per sè stessa: diciamo che la sensazione "esiste" appunto perchè apparisce "in sè", necessariamente. Inseità è il termine filosofico dell'esistenza reale. Definendo la sensazione come l'immediato esistere in sè, non voglio affatto includervi il carattere dell'alterità (del "fuori di noi"), che la filosofia attribuisce all'in sè, perchè "io" e "non io" sono concetti che si costruiscono parimenti su l'analisi della sensazione, la quale è un sensibile com'è un sentito. Il suo valore teoretico (quello che diviene il contenuto dell'idea di sensazione) è unicamente la necessità della sua presenza, il non dipender questa dall'atto del pensiero che la pensa, e quindi che la deve pensare come in sè, relativizzandosi ad essa se ed in quanto la vuol conoscere. Con ciò non indichiamo un dualismo di sensazione e pensiero, di esistere ed essere: lo stesso pensiero esiste sensibilmente, e perciò deve incominciare con l'affermare la propria esistenza di fatto, indipendentemente da tutti gli altri valori che riconoscerà come suoi prodotti - "Cogito, ergo sum... sensibiliter", bisognerebbe incominciare a dire! -; e la volontà tutto può volere fuor che sè stessa in quanto spontaneamente vuole. ... . ... 8. . Ora, mentre tutti c'intendiamo quando parliamo della necessità o realtà della natura, perchè, comunque la si spieghi, essa è il mondo dell'esperienza sensibile; quando invece parliamo della realtà dello spirito, della sua necessità e universalità, ci confondiamo e ci azzuffiamo. Gli è che può avvenire un colossale equivoco. Spirito ha due significati ben distinti, uno naturalistico e l'altro filosofico in senso stretto. Quando facciamo della filosofia, ossia della critica (anzichè dell'indagine teoretica diretta), spirito significa valore, pratico teoretico religioso o qualunque altro esso sia, che gli oggetti dell'esperienza (e noi stessi fra gli oggetti) prendono in rapporto coi fini del nostro volere il che si chiama anche pensiero. Un oggetto è utile buono giusto santo vero, in quanto lo giudichiamo; e lo giudichiamo in quanto vogliamo goderlo e usarlo, modificarlo, adorarlo, conoscerlo: e difatti lo godiamo, miglioriamo, onoriamo, studiamo, realizzandovi i nostri fini. Allora, questi valori (utile, bene, verità, giustizia, santità...) si dicono spirito, ma sono inconfondibili con l'oggetto e il soggetto empirico, ossia col sensibile, presi separatamente, fuori del loro rapporto pensato. Nè una sensazione varrebbe se non vi s'attuasse il fine pratico o teoretico del pensiero, nè il fine stesso, come desiderio o volontà, varrebbe praticamente o conoscitivamente, se non s'attuasse in una realtà in qualche modo esistente, ossia sensibile. Ma lo spirito, come valore, non è la vita, è il pensiero. Perciò credo che gli animali, pur avendo vita psichica, non abbiano spirito, non creino valori. . All'inverso, quando indaghiamo l'esperienza direttamente, ossia formandocene i concetti reali e obbiettivi, lo spirito è quella parte dell'esperienza, che sentiamo come soggetto, ma del pari obbiettiviamo nei concetti di psiche, anima e simili. Vedremo che qui è aperta una grossa questione, che cercherò di risolvere a suo tempo; ma resta sempre la necessità di distinguere lo spiritualismo naturalistico e teoretico, che ricerca un essere spirituale concreto, l'io empirico, come sostanza (per es. "anima") e causa (per. es. "attività volente e conoscente"), in relazione con le altre (sia pure di contrasto fra l'"in me" e il "fuori di me"), dalla filosofia, intesa come critica dei valori, fra i quali è il valore di verità. Insomma, riappare il duplice punto di vista: altro è chiedersi di che natura sia una cosa - ch'è volerla spiegare teoreticamente -, altro è giudicare del suo valore rispetto a noi (e agli stessi fini teoretici del sapere), ch'è un volerla criticare filosoficamente. L'indagine diretta, il senso comune e la scienza ch'è il lor prolungamento, sono naturalistici; la conoscenza riflessa e la filosofia (in senso stretto) sono idealistiche. Però, quando l'idealismo dice che lo spirito è reale, il solo reale, si confonde col naturalismo spiritualista, dimenticando spesso di giustificarsi del passaggio. I due atteggiamenti del conoscere non s'oppongono fra loro che in questo punto, nel punto in cui si incontrano: laddove il cerchio delle conoscenze naturali s'interseca con quello dei giudizi di valore, l'uno cercando di abbracciare la natura dei giudizi stessi di valore, l'altro il valore del concetto di natura; ed è chiaro che il punto più delicato del problema sta proprio in questo territorio prodotto dall'intersecarsi delle due inchieste. Rispondere negando il valore della natura, col pretesto che noi stiamo ora pensandola come valore (reale), e che quindi siamo noi la natura di tal valore, inverte il problema, ma non l'evita: che cosa siamo, "noi"? . Siccome prima di tutto e necessariamente noi sentiamo, preferisco ricondurre la critica su la idea medesima di sensazione, in accordo con la quale ci dobbiamo costruire i concetti di natura, e in opposizione alla quale sogliamo pensare noi stessi come spirito. Allora vedremo che qui non v'ha una distinzione reale - nè pertanto è possibile una contraddizione teoretica fra l'essere sensibile (esistenza) e il fine o dover essere del pensiero -, ma un antinomismo pratico, rappresentato (o meglio, simboleggiato) dal sentimento, il quale diviene in tal modo il valore pratico o soggettività del sensibile allorchè lo pensiamo in sè stesso, la sua natura trascendentale, il volere. E vedremo che nei concetti reali - ne' quali il volere, come attività teoretica, tende a unificare l'esperienza e a universalizzarsi - il sensibile è del pari la rappresentazione dell'intelligibile, che l'ha trasceso nelle forme logiche, e tuttavia lo deve mantenere come contenuto esistenziale, prova oggettiva e perciò appunto rappresentativa del reale come natura. . A questo punto il mondo sensibile, spogliato dei valori che, pur da esso condizionati, lo trascendono nelle idee pratiche e nei concetti teoretici, dovrebbe apparirci un mondo spento, il non essere: praticamente ridotto a un sentire senza eticità e quindi senza vera praticità; teoreticamente, a un semplice dato esistente, a una mera "sintesi a posteriori" per sè alogica ed extraessenziale... Ma no! Se riusciremo a metterci da un punto di vista strettamente riflettente(1), se cioè riusciremo a guardare esteticamente (sensitivamente) il sensibile - idest, a considerare il sensibile secondo il sensibile, per sè medesimo, senza trascenderlo -, ebbene, allora comprenderemo che l'unità sensibile, la sintesi a posteriori, la forma o "figura" sensibile (e poi lo "stile" dell'arte), che divien contenuto rappresentativo dei valori logici ed etici, possiede un proprio valore immanente, che chiamiamo bellezza: bellezza "di natura" (ma non natura, concetto!), se data nella unità della sensazione, vale a dire nel sentimento della forma sensibile in quanto tale "materia", invece, delle forme logiche e "stimolo" dei sentimenti pratici); "arte", se volutamente cercata e prodotta, quando il bello divenga a sua volta un fine del pensiero, che gli presterà i propri valori (formali), i quali a lor volta vi divengono dei semplici contenuti da tradurre in forme sensibili. . Ma, avanti che il bello esprima in forma artistica i valori trascendenti il sensibile, in un idealismo o in un realismo estetico, di forma classica o romantica, e intèrpreti sensibilmente il vero e il bene, il mondo e Dio in opere sensibili, che divengon così le esistenze reali in cui si traduce lo spirito dei tempi con suoni colori marmi parole; prima dell'arte, dico, la folata sensibile così com'è in ciascuna esperienza implica già nella sua unità di oggetto e soggetto, cioè di sensazione sentita, tutti quei valori che il pensiero esplica nelle proprie forme trascendenti: la sensazione - preso questo termine in concreto e non analiticamente (p, es. "bianco" o "suono do") rispetto alla conoscenza -, l'esperienza pura insomma, riflette nella sua bellezza individuale i valori universali, nella sua unità concreta l'unità razionale e n'è la sola prova reale, e perciò il senso, come "gusto" estetico, introduce il pensiero logico ed è educativo dell'etico... . Tuttavia, essendo, per me, l'estetico il valore dei sensibili in quanto tali - in quanto, proprio, sensibili -, il problema estetico non è nè logico nè pratico: è metafisico, riguardando un essere in sè, sia pure in quanto individuale esistere sensibile, come il problema religioso riguarda in sè il dover essere universale sovrasensibile. Ora, per raggiungere un tal punto di vista, bisogna dimostrare che sia possibile pensare i sensibili senza trascenderli; che cioè sia possibile l'immanenza del pensiero al mondo sensibile; e risolvere l'antinomia sui sensibili. ... . ... 9. . Ebbene: oso dire che tutto il pensiero filosofico dopo Hegel è prevalentemente diretto a questo fine. Se non ci soffermiamo a divergenze che solo la vicinanza ci fa sembrar grandi, e se non c'impuntiamo su secondarie soluzioni di problemi e non ci perdiamo a seguire le sopravvivenze della filosofia prekantiana, questi cento anni che corrono dalla morte di Hegel ci appariranno quasi unicamente dedicati a restituire al fenomeno, al "divenire", ai fatti o accadimenti, al contingente e attuale, all'immediato e irrazionale, al soggettivo ed empirico - vale a dire, infine, alle esistenze sensibili - quei valori, che il razionalismo aveva relegato in un mondo oggettivo e assoluto, necessario e reale in sè. Il programma della filosofia contemporanea c'è già nello Schelling, come uno de' suoi lampi fra nubi: lo spirito filosofico non deve arrossire di alcuno dei gradi per i quali è passato, ma i vari sistemi non ebber mai altro scopo che di spiegare il puro e semplice "fatto", dal quale incomincia e al quale deve alla fine metter capo ogni ricerca, che in fondo è un "empirismo filosofico", avente per suo vero obbietto quel dato di fatto immediato, non ancora nè soggetto nè oggetto, che si tratta di giustificare. . Del resto, in che consiste la scoperta di Giorgio Federico Hegel?(2) Il mondo non ha più potuto ignorare o dimenticare il filosofo di Stoccarda; in questi ultimi cento anni niuno ha più potuto formulare un'idea senza fare i conti con lui. Perchè? per il suo spiritualismo metafisico? per il suo conservatorismo politico? per il suo tradizionalismo etico? Al contrario: perchè l'idealismo hegeliano è un essenziale realismo; è un idealismo realistico e perciò assoluto, contrapposto al realismo idealistico del precedente illuminismo. . In fondo (per dirla alla buona) Hegel viene incontro all'uomo comune e gli raddrizza gli occhiali. L'uomo comune deride l'idealismo perchè crede d'esser lui il "realista". Per realtà egli intende ciò che si può vedere toccare provare: l'esperienza, insomma; e da questa divide le idee e glie le contrappone. Per es. dirà che reale è la scatola di fiammiferi che sa d'aver in tasca, perchè la può prendere e adoperare; irreale (ideale) chiamerà un cerchio perfetto o il paradiso, che non ha mai incontrato in terra e solamente spera di trovare in cielo. Ebbene, Hegel non solo gli dà ragione, ma rincara la dose: le idee pure platoniche, le idee assolute - che son poi le idee dei valori presi in sè, verità e bellezza, bene e giustizia, riassumibili nell'idea di Dio - non hanno altra esistenza che d'esser nostre idee attuali, puramente soggettive. Sono forme, modelli di ciò che lo spirito aspira a raggiungere, ma non li possiamo prendere come realtà esistenti fuori di noi, in un mondo trascendente e divino. L'idea si realizza nell'esperienza, Dio si attua nel mondo, i valori spirituali son immanenti nei lor contenuti reali. . In altre parole, la realtà per lo Hegel non è qualcosa di già dato come perfetto immobile e identico a sè stesso: è il "divenire", il farsi delle conoscenze stesse, tutte relative l'una all'altra, non essendovi di assoluto che il processo medesimo in cui quei valori si attuano. Perciò ha torto, non soltanto Platone, che pensa esistenti in sè i modelli ideali, l'Essere delle cose (che invece "divengono"); ma ha torto anche il nostro brav'uomo, quando crede che la sua scatola di fiammiferi esista "fuori di lui", esista e permanga come una cosa in sè, indipendente dal suo divenir quella cosa nel pensiero attuale che la costruisce, la conosce come un oggetto... . Ma come! esclamerà il nostro sedicente realista: questa scatola, il mondo, la stessa natura, non esistono fuori di me? non son dunque reali?... Buon uomo! risponderebbe Hegel: prima di tutto sei stato tu ad ammettere che reale è la sola esperienza. Di che esperienza parlavi se non di quella che conosci, ch'è idea della tua coscienza? Le realtà di cui tu parli sono le verità che tu formi nel pensiero, unificando prima le sensazioni soggettive nella rappresentazione, per es., di una "cosa"; e poi unificando ancora queste esperienze nell'idea di corpo, di mondo, di natura in concetti sempre più vasti. Reale però è sempre e soltanto questo atto del pensiero, questa sintesi oggettiva, questa esperienza, e non l'oggetto preso in sè, come se fosse dato dal di fuori. . In secondo luogo, che cosa intendi quando dici "fuori di me"? Io e Non io, "soggetto" e "oggetto" sono idee che si formano, come tutti i valori, in relazione l'una con l'altra; c'è l'una perchè c'è l'altra, e quindi si mediano a vicenda. Per es. questo bianco è prima un sensibile soggettivo; poi io lo oggettìvo, ne faccio una cosa (un foglio di carta), negando il soggetto per affermare l'oggetto; infine riconosco appunto che esso è l'oggetto del mio conoscere e porta le impronte del pensiero. Insomma, il pensiero procede sempre per antitesi e per sintesi di queste antitesi; ma la realtà, l'esser oggetto, non è che l'attuarsi del pensiero nel perenne divenire delle idee. . Questa legge si chiama la "dialettica" del pensiero, che produce gli oggetti per negazione del soggetto e produce i particolari soggetti per negazione dell'oggetto. Ma la filosofia, l'autocoscienza, riconosce negli oggetti e nei soggetti empirici null'altro che le costruzioni di uno Spirito che diviene, si evolve, realizzandosi come mondo. Non soltanto il mondo è il mondo delle idee che si fanno, e non dei morti "fatti" (nel senso del realismo ingenuo che li prende come "dati" già così esistenti), ma le idee sono la realtà nel suo sviluppo, di cui la natura è una parte astratta. Guardando da questa altezza, tanto la natura di cui parla la scienza, quando la scatola di fiammiferi del nostro buon uomo, sono sempre una parte dello spirito, che sempre la supera in qualcosa di più universale e necessario. Pensare la natura in sè è un'astrazione, perchè si astrae dallo spirito in cui si attua l'idea di natura - idea e realtà sono la stessa cosa, astratto è chi le divide -, ma del pari, il soggetto empirico, il mio "io" come natura, è l'attuarsi temporaneo del divenire dello Spirito, quando si limita di fronte al "non io" da lui stesso posto nello spazio. Non si cade nel solipsismo, perchè "io" è qualcosa in quanto conoscenza, ed è conoscenza in quanto contenuto (particolare) d'un pensiero che ora lo pensa e quindi lo supera. . Anche nel campo dei valori morali e religiosi, come ognun sa, per lo Hegel vige la stessa legge dialettica che vale per il vero teoretico. Anche qui non c'è che lo Spirito come principio dell'Essere, ragione universale, il quale si realizza nei particolari momenti del divenire. Non ci sono il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, Dio e l'uomo: il male è la negazione di ciò che prima sembrava bene ed ora riconosciamo male avendolo superato in un bene più universale. La giustizia si attua a traverso l'ingiustizia; la libertà si conquista negando il nostro particolare egoistico arbitrio per riconoscerci nello spirito più vasto della famiglia, della società, della nazione. La storia umana culmina nell'avvento dello Stato etico, ch'è la sintesi delle antitesi individuali e sociali, quando lo spirito limitato dei singoli e delle classi riesce a trovar la sua piena libertà nell'ossequio alla legge che glie la garantisce e potenzia. . Dalla "Fenomenologia dello Spirito" alla maggior "Logica", da questa all'"Enciclopedia" e alla "Filosofia del Diritto", l'opera dello Hegel apparisce lo sforzo meraviglioso di spiegare realmente e in concreto l'attuarsi di quei valori spirituali, che il realista comune proietta in un mondo trascendente e irraggiungibile. Dall'alto del suo panteismo Hegel mira lo svolgersi di questi valori nella storia della natura, che in fondo è la storia del pensiero obbiettivo, e nella storia degli uomini, ch'è il realizzarsi dell'idea etica, l'universalizzarsi (qui come là) del pensiero diretto. A questo punto può sorgere la riflessione su noi stessi come Spirito assoluto; e sorgono infatti le attività pure e disinteressate: l'arte che simboleggia il soggetto puro (il sentimento) nelle immagini estetiche; la religione che l'obbiettìva nelle rappresentazioni mitiche ponendo un Essere trascendente in cui il soggetto empirico si annulli; la filosofia che compie la sintesi riunendo la soggettività e l'oggettività dei Valori nel concetto di Spirito che si svolge come pensiero. ... . ... 10. . Questo immane sforzo è riuscito? Sì, è riuscito nel senso che doveva. Ha diretto gli occhi degli uomini verso il gran fiume del divenire, e ne discesero l'evoluzionismo e lo storicismo moderni. Ha indotto la scienza a intendere le leggi della natura quali modi d'interpretazione dell'esperienza unificata in rapporti astratti, come la storia l'unifica e rivive in concreto. Le nuove correnti si affermarono (incominciando dal Feuerbach e dalla "Sinistra" hegeliana) negando Hegel, criticandolo, espurgandolo, riformandolo e a volte convertendolo in un radicale empirismo: ciò che del resto era previsto nel sistema hegeliano. Però, se l'idealismo hegeliano ci ha insegnato a compenetrare la natura col pensiero, ci ha pure indotto a rifiutarci di cercare il reale in un'idea che non si attui in un fatto contingente. La filosofia contemporanea è per tre quarti filosofia della contingenza. Ce ne vogliamo persuadere? . Basterebbe istituire un parallelo tra la filosofia dopo Hegel e quella prima di Kant per osservare come le due direzioni del pensiero siano rivolte in senso diametralmente opposto. Il razionalismo è un'induzione (ciò che fu detto il suo dogmatismo trascendente, la sua metafisica) dal contingente al necessario, dal relativo all'assoluto, dal divenire molteplice e mutevole all'essere identico ed uno: costruzione analogica, e quindi "impossibile" secondo Kant; ridotta poi a sistema deduttivo "more geometrico" per sussunzione dei contingenti particolari negli universali necessari. Al razionalismo non interessa il contingente, che per esso non è altro che il casuale e va ridotto all'incontro di cause necessarie; queste sole interessano il realismo prekantiano (il realismo "idealista", il platonismo in genere). Al contrario, il nostro idealismo ("realista", dunque!) muove dall'assoluto - dato come semplice condizione a priori e per sè vuota categoria (necessaria al pensiero) - verso i relativi contingenti nei quali si realizza l'essere come divenire attuale e storico. Ciò che ora importa sono le qualità, le concrete specificazioni del dato universale, che si chiama pensiero e spirito proprio in omaggio all'esperienza... . S'intende che, come c'è sempre stato un nominalismo critico per frenare i voli del realismo dogmatico, così c'è anche oggi un ontologismo metafisico tendente a liberare il nostro idealismo dai vincoli dell'esperienza per obbedire al segreto bisogno religioso d'ogni filosofia; ma è nella "nostra" esperienza, nella concreta coscienza, che noi moderni cerchiamo l'Essere, e non fuori di essa. Reale, per noi, è l'esperienza; filosofia è per noi la critica dell'esperienza, che già si propone di non uscirne mai totalmente. Dopo che la critica dello Hume ebbe dimostrato l'impossibilità razionale di uscire dal soggetto, e quella di Kant ebbe ridotto l'Essere trascendente alle esigenze trascendentali del pensiero in esso presenti (ossia immanenti) mutando in un problema critico interno il problema ontologico dei razionalisti, si apriva un'èra unicamente destinata a considerare i valori nella contingenza dei fatti di esperienza, e il fenomenismo o positivismo del secolo XIX° non fu che un aspetto particolare di ciò che più universalmente fu l'hegelismo. . Ho sempre udito con stupore, dalla bocca dei nostri hegeliani, il vanto d'aver ucciso essi il materialismo, sol perchè han combattuto il positivismo. Ma il materialismo appartiene all'antica mentalità illuminista, essendo una di quelle forme di sostanzialismo che i precritici inglesi e il Kant avevan già superato; laddove l'empirismo o positivismo contemporaneo è un relativismo fenomenico di tipo kantiano che, dichiarata inconoscibile teoreticamente la sostanza e la causa assoluta o essere in sè dei fenomeni, e conoscibili soltanto questi, si propone di non trascendere il dato e fatto dell'esperienza, proprio come farebbe un hegeliano coerente. Allora, la conoscenza si obbiettìva solo in quanto traduce l'esperienza empirica in rapporti generali universalmente validi, ottenuti per astrazione di elementi e di costanti verificabili induttivamente. . Di qui al prammatismo, e da questo all'intuizionismo è breve il passo, che l'"ignorabimus" di Dubois-Reymond potè affrettare, ma che tutta la critica della scienza fatta da scienziati (dal Maxwell al Poincaré) già di per sè calcava come necessario sviluppo dello stesso positivismo. Bergson è l'ultimo accento sull'indirizzo comtiano: quell'indirizzo chiaro concreto positivo dello spirito francese, che segna il passo al soggettivismo posthegeliano, con minor ingegno ma con maggior intelligenza e coerenza delle correnti affini del praticismo anglo americano o del volontarismo e irrazionalismo che in Germania metton capo alla filosofia del "come se" (Veihinger). Reale è l'esperienza nel suo continuo farsi, nello svolgersi sempre nuovo della sua attuale "durata": l'esperienza dunque come soggetto, "spirito", "slancio vitale". Questa realtà la possiamo afferrare sol per intuizione diretta; l'intelletto invece non fa che tradurla in schemi astratti praticamente utili e in abbreviazioni comode per la memoria obbiettiva e la previsione dei fatti. Le leggi scientifiche sono ipotesi di comodo, strumenti di lavoro teoretico buone in quanto applicabili per organizzare l'esperienza e per intervenire in natura. . In mezzo a questo nominalismo si colloca la filosofia della contingenza nel suo più stretto senso, quale fu rivelata a sè stessa nei brevi semplici scritti del Boutroux; e diviene il centro teoretico della speculazione diretta al sensibile, verso il quale s'avviavano, per chi ben guardi, anche le scuole tedesche del secondo Ottocento che ne sembrano più distanti, come da una parte l'empiriocriticismo e la "filosofia dell'immanenza", e dall'altra tutto quel soggettivismo che si equilibrò nella "filosofia dei valori" e intese il conoscere come un mezzo del volere e l'oggetto come uno dei modi dell'attività spirituale. . Quello che realmente oggi importa è il contingente, l'attuale, l'individuale, che gli schemi logici impoveriscono, uccidendolo nella oggettività di natura: il contingente, ricco delle sue qualità sempre nuove e originali, che l'intelletto riduce a rapporti quantitativi per adeguarlo in misure convenzionali; il contingente, che non è l'incontro casuale di cause necessarie, ma si attua ogni volta con caratteri irreducibili di originalità e libertà, testimone della creatività dello spirito nella sua continuità sempre diversa. Ciò che dicesi natura, "oggetto" della scienza, è tuttavia spirito, soggetto che si depotenzia obbiettivandosi, o meglio automatizzandosi e facendosi materia col rinunciare a ciò che v'ha di sempre nuovo e libero nell'individuale esperienza per fissarsi nelle ripetizioni e somiglianze uguagliatrici di fatti e caratteri costanti... . Ma non diversamente parlano, in fondo, i nuovi hegeliani, che intendono l'oggetto come una posizione astratta del pensiero, e concludono che il reale è il farsi attuale, il costituirsi individuale e originale dello spirito. Perciò anche il nuovo hegelismo sfocia nello storicismo e nell'attualismo, che sono perfettamente conformi all'indirizzo del nostro tempo. Tuttavia, se reale è l'esperienza, il contingente storico e di fatto, anzi l'attualità dell'atto, è altrettanto illogico inferirne oggi la realtà di un soggetto, l'essere dello spirito, quanto lo era ieri indurre alla realtà dell'oggetto e della natura. Il contingente è l'esistere sensibile: l'essere, soggettivo od oggettivo che sia, lo trascende sempre. Che diritto abbiamo di parlare di soggetto e di oggetto, ossia che diritto abbiamo di pensare? Che prova troviamo nel sensibile dei valori trascendentali, se non la prova del valore sensibile stesso, del valore estetico? . Son questi i problemi che si agiteranno, sotto vari aspetti, nelle pagine seguenti. Esse possono presentare qualche difficoltà per il lettore non filosofo - lettore ignaro dei tormenti e delle gioie che forman la nostra passione, della disperazione di certi istanti in cui per noi la realtà si dissolve affondandoci nel terrore del nulla, e della sovrana gioia di risalire a un'unità d'intelligente coerenza e di penetrante certezza -; mentre poco m'illudo di richiamar l'attenzione dei filosofi, come spesso avviene quando non sanno in che scuola classificare un autore che prende a maestri specialmente i suoi antagonisti e più ama ed ammira coloro, di cui meno si fa servo e seguace. Nondimeno, esprimere la propria opinione ed offrire i risultati delle proprie ricerche sui problemi ancor aperti della filosofia, non è sol questione di soddisfazione personale e di vanissima gloria. Per chi professa filosofia da una cattedra a inesperti alunni, è anche e principalmente un elementare dovere, il dovere di mettersi in condizione di venir giudicato dagli studiosi; tanto più anzi, quanto più modesto e men noto è l'autore. ... . ... CAPO 2. IL SOGGETTO E L'ESPERIENZA. ... . ... 1. . Se conveniamo di chiamare col nome di "esperienza" i contenuti del nostro conoscere, e quindi lo stesso conoscere in quanto divien contenuto di nuovi atti conoscitivi, l'esperienza in fondo è l'esser presente, l'esistere sensibilmente, sia tal sensibile quell'albero che frondeggia al vento o questa pagina scritta; e quali che siano i valori pratici o teoretici di questi, che nel pensarli divengono gli "oggetti" del pensiero, o meglio i suoi "dati" rappresentativi di quei valori. . Facciamo la stessa distinzione gnoseologica col dire, che isolando un momento della nostra esistenza, troviamo sempre qualcosa di dato a posteriori, che ora noi valutiamo e pensiamo. E come i nuovi valori che si generano col pensiero s'aggiungono all'esperienza, così l'esperienza data implica naturalmente il pensiero pensato. Tali valori di fatto, oggettivi e soggettivi, sono però impliciti in un sensibile (come avviene nella percezione) che li rappresenta agli effetti pratici e teoretici del pensiero o giudizio esplicito che vi s'aggiunge: quel verde rappresenta un albero, questa parola rappresenta un'idea. Voglio dire, che qualunque valore, per quanto generato nel pensiero e per quanto trascendente il sensibile - noi, l'esperienza, la trascendiamo in ogni istante, ogni volta che vogliamo qualcosa -, esiste come dato, e fatto soltanto in un'esistenza sensibile, in un'esperienza, contenuto delle nuove forme conoscitive. . La filosofia ha dunque avuto torto quando ha concluso, che l'immediata sensazione è senza valore, è un non essere, perchè non è ancora o non è più idea. Prima di tutto, essa diviene non essere proprio quando diviene idea mediata e opposta all'idea di essere (come dover essere): quando cioè non è più sensazione. In secondo luogo, l'esistere sensibile possiede, relativisticamente, tutti i valori rappresentativi, e li conserva implicitamente ossia li attua. Infine, se si obbietta che tali valori, essendo tutti ideali, e soltanto rappresentati dai sensibili ma prodotti dal pensiero conoscente, si servono del sensibile come semplice mezzo e strumento privo per sè di alcun valore, bisogna ricordare che tutti i valori sono veramente tali se sono reali, e son reali se esistono; e per noi non possono esistere che sensibilmente: l'esistenza sensibile diviene allora l'unica prova che qualcosa esiste realmente e non metaforicamente, perchè anche il pensiero non esiste che in questo modo. La sensazione implica tutti i valori possibili - e quindi ne condiziona, naturalisticamente, il pensiero - perchè, metafisicamente parlando, tutto l'essere converge ad attuarsi in quella particolar sensazione contingente, dalla quale si può tentar di risalire conoscitivamente verso il tutto. Se i valori emergenti nella lor universalità e necessità con la coscienza, non fossero in tal senso innati, sarebber essi le "ombre" e la sensazione l'unico reale! . Per noi, la sensazione è il solo concreto reale, da cui la conoscenza astrae - e si astrae - per analisi, come meglio vedremo. Ma quando la sintesi (a priori) ottenuta per mezzo di quest'analisi vuol ritrovare il concreto, vuol essere una nozione concreta teoretica o vuol attuarsi praticamente, deve ritrovare la sua unità col sensibile: infatti diciamo ch'è concreto quel pensiero che unifica l'universalità del valore con l'individualità del fatto (la filosofia alla storia), e che realmente è pratico quel soggetto che si attua oggettivamente, vale a dire sensibilmente, chè soltanto nella sensazione soggetto e oggetto coincidono: quel verde è un verde sentito. . In luogo di "sentito", è più proprio, a questo punto, dire "intuìto". Intuizione e sentimento indican lo stesso soggetto astratto dal suo oggetto; ma il primo è un termine gnoseologico, è il soggetto sensibile riguardato dal punto di vista noetico - la natura soggettiva del conoscere che diviene oggettivo nell'idea -; il secondo è termine psicologico, designando la natura soggettiva di quel rapporto fra l'esistere e il dover esistere (essere), che si dice volere. In altri termini, il sentimento è provocato dallo stimolo attuale, ma diretto ad altro che si attuerà a traverso un atto pratico (per es., il piacere di questa rosa veduta è diretto al suo profumo); l'intuizione è invece il sentimento dello stimolo sensibile, il piacere del colore in quanto tale, il sentimento del sensibile. Perciò la chiameremo intuizione estetica: ma intanto essa è anche la natura conoscitiva del pensiero prima de' suoi valori pensati; e quindi, come ha profondamente veduto il Kant, la possibilità o condizione dei giudizi riflettenti, dei giudizi cioè oggettivi, che valutano i sensibili in quanto tali, riunendoli nelle leggi di natura. . L'intuizione non va dunque intesa come un primo grado della conoscenza teoretica, e nemmeno come "conoscenza dell'individuale", se conoscere significa oggettivare i contenuti intuitivi unificandoli nelle forme universali (anche se individuale è il contenuto!), e prima di tutto in quelle spazio temporali. Altro è dire "conoscenza intuitiva", ossia, kantianamente, conoscenza formale e a priori di contenuti puramente intuitivi (per es. matematica), altro è dire intuizione conoscitiva, che sarebbe una contraddizione in termini. No: intuire è partecipare immediatamente dell'essere, sentirlo come esistenza, anzi esisterlo a quel modo, sentendo. È ben vero, ripeto, che il termine "intuizione" è gnoseologico, ma sol in quanto intuire è condizione (astratta, ossia "naturale") del conoscere. Mentre che per conoscere ci vuole un soggetto che oppone a sè il suo oggetto, per es. percependo quell'albero come una cosa fuori di noi, nella pura intuizione soggetto e oggetto costituiscono un solo valore esistenziale: chi intuisce è quella stessa sensazione che viene intuita, dove l'esistere non è che certezza. ... . ... 2. . Fu proprio l'urgenza di distinguere l'intuizione dalla conoscenza, e di distinguerla radicalmente, quella che spinse l'intuizionismo francese all'estremo opposto, dell'intender l'intuizione come la sola vera conoscenza: vera perchè reale possesso della cosa, immedesimazione del soggetto nell'esistere immediato, presenzialità dell'oggetto nel soggetto. Nulla di male se si convenisse di chiamare conoscenza l'intuizione, il presentarsi di ciò ch'esiste contingentemente in una sensazione come tale, e quindi l'unità esistenziale di conoscenza e realtà; ma bisognerebbe trovare un diverso termine per indicare il conoscere teoretico e pratico - per es. il termine "giudizio" o "valutazione" -, che secondo quel nuovo nominalismo non sarebbe altro che il sovrapporsi d'un'astratta e prammatistica simbologia verbale al concreto conoscere intuitivo: mentre io credo che il pensiero conoscitivo produca, nel rapporto di soggetto a oggetto, i valori ideali, trascendenti l'empirico esistere sensibile, che senza di esso pensiero non s'attuerebber mai. Se l'intuizione rimanesse sensazione, esistenza dell'essere com'è, non diverrebbe mai intuizione anche del sovrasensibile nel sensibile, intuizione dell'assoluto, esistenza (e prova) del dover essere come valore. Infatti l'intuizione - vale a dire la sensazione riguardata dal punto di vista della conoscenza - è prima e dopo il pensiero conoscitivo, come l'unità è prima e dopo le analisi e valutazioni teoretiche e pratiche, prima come condizione, dopo come risultato reale. . Quanto all'odierno idealismo, gli siamo più vicini di quel che possa sembrare, sebbene sopra un piano diverso che capovolge le posizioni, come spesso accade tra filosofie molto affini. L'idealismo non vuol uscire dal pensiero pensante: se noi ora parliamo della sensazione, esso dice, questa non è che un'idea, e un'idea astratta perchè posta come qualcosa in sè, posta come non io dal soggetto pensante che si nega per oggettivare il suo oggetto. Di concreto non c'è che il pensiero stesso, concreto perchè sintesi di soggetto e oggetto che si definiscono per reciproca mediazione, prius logico rispetto a tutte le sue idee, e perciò anche prius ontologico e metafisico rispetto a tutti gli oggetti e soggetti particolari in cui si attua. . Giustissimo. Ma ciò, se non erro, significa che il pensiero, "concreto" in sè stesso - non soltanto perchè dato necessario. punto di partenza di tutte le idee, ma anche perchè unità di soggetto pensante e di oggetto pensato, si consideri questa come una sintesi di fatto, una sua essenza o "natura", oppure come la necessaria sintesi di soggetto e oggetto nell'autocoscienza che riconosce suoi gli oggetti conosciuti -, è "astratto", o meglio astraente rispetto alle idee che produce nelle operazioni conoscitive, quando si consideri il valore d'una di queste idee per sè stessa, come l'idea stessa di sensazione. . Ripeto: la conoscenza, concreta come pensiero pensante (si può dire, natura del pensiero? non è questa natura un'idea anch'essa?), ne astrae per costruire i suoi oggetti (si può dire, i suoi valori, e non son questi, in quanto oggetti, la realtà o natura?). Di fatti, il pensiero teoretico vuol giungere all'Essere assoluto, alla "cosa in sè", e, in generale, ci dà un oggetto senza soggetto, quantunque soggettivo come pensiero; e il pensiero pratico vuol giungere al soggetto assoluto, allo Spirito, e ci dà un soggetto senz'oggetto, quantunque oggettivo nel valore perchè in sè. L'uno perviene così alla necessità della legge naturale, l'altro all'obbligatorietà della norma morale. . Allorquando però riflettiamo su questi valori conoscitivi e risaliamo con l'idealismo al pensiero che li genera, troviamo che esso pensiero, in concreto, è attività e spontaneità: parole, dal Kant in poi, pregnanti di quel significato arcanamente mistico e spiritualistico, che s'era dovuto trasportare dal mondo "esterno" del razionalismo a quello umano dell'immanentismo. Ma spontaneità e attività non sono i caratteri coi quali definiamo psicologicamente (ossia, naturalisticamente) il sentimento e il volere, vale a dire il soggetto empirico, il soggetto sensibile? Dove e quando, questo soggetto, se non nell'unità reale ch'è il nostro individuo in ciascuna sensazione, anima e corpo, io e mondo, natura d'ogni valore e valore primo, intuitivo, della natura? . O meraviglia! L'attività formale del pensiero, che, messa in rapporto (conoscitivo) co' suoi contenuti, determina tutti i valori trascendenti il sensibile, è dunque essa medesima concreta soltanto nella sensibilità, entro cui sorge come spontaneità e attività vivente - caratteri coi quali indichiamo l'esperienza intuitiva del nostro esistere, il sentire e il volere - e sulla quale reagisce finalisticamente. E come reagirebbe, del resto, come attuerebbe i suoi fini, se non di nuovo per mezzo d'un sensibile? determinando "albero" quel verde, "bene" codesto atto, "vera" questa parola? Il vero e il bene, i valori cioè del pensiero puro, sarebber essi, proprio, gli astratti, se non si realizzassero in esistenze. Il pensiero, dico, astraendo in quanto òpera per distinzione e analisi dell'esperienza, concretizza le sue idee ogni volta che le relativizza all'esperienza - le concettualizza, si potrebbe dire -, come attua i suoi fini ogni volta che li realizza sensibilmente. . Naturalmente bisogna intenderci bene sul significato col quale adoperiamo le parole. Per l'idealismo, "concreto" e "reale" sono termini che vengono a coincidere. Anche per noi: ma il primo riguarda la natura dei contenuti conoscitivi - nel nostro caso, la natura del pensiero su cui riflettiamo, che per me è sensibile -; il secondo riguarda il valore dell'atto conoscitivo - e pertanto il valore della nostra attuale riflessione - che per l'idealismo, giustamente, è pensiero. Incontriamo dunque il nodo che dovremo sciogliere, formato dall'interferire di due problemi, l'uno sulla natura del valore, l'altro sul valore del concetto di natura come esistenza. Sensazione e pensiero conoscitivo sono i due capi di tal nodo, che la spada affilata della fede nel Soggetto puro come Pensiero assoluto può recider d'un colpo, ma soltanto la pazienza obbiettiva e disinteressata può sciogliere teoreticamente. ... . ... 3. . Ma prima di tutto, che cos'è il "soggetto"? Questa domanda, teoretica e scientifica, induce all'errore di voler determinare il soggetto come un qualche cosa, come un... oggetto, su l'analogia della conoscenza oggettiva. Errore (disvalore teoretico), che può aver benissimo un valore pratico, almeno temporaneo fin ch'io non riponga il valore pratico in un bene che sia anche oggettivamente reale. Intendo dire che se io, mosso da un'esigenza pratica e religiosa, concepisco il soggetto in uno spirito puro e in sè, reale e immortale al tempo stesso, non commetto un errore pratico, valendo quell'idea metafisica a' suoi scopi, a rasserenare la mia vita e a sorreggere la mia volontà: l'errore incomincia nell'istante in cui pretendessi di razionalizzare quell'idea fra i concetti veri, intendendo per vero il reale costruito su l'esperienza, il reale oggettivo così nella natura come nel valore, l'oggettività dell'oggetto. . In somma, prima di rispondere a una qualsiasi domanda, bisogna convenire intorno ai fini, al metodo e ai limiti della ricerca: il non curar ciò è la sola causa d'incomprensione fra uomini, nazioni, razze; e la filosofia è diventata critica a tale scopo riconosciuto. Posso giudicare un oggetto, una parola, un atto secondo i più diversi criteri di valutazione - riducibili ai due "usi" del pensiero (come li chiamava Kant), pratico e teoretico, soggettivo e oggettivo, prescrivente il dover essere o determinante l'essere, dei quali usi vedremo meglio l'unità nel valore -: confrontare, per esempio, quanti criteri si mescolano in un giudizio penale. Un giudizio, mettiamo, morale è dunque giusto o ingiusto secondo la coscienza etica e non secondo la ragione logica: eticamente io faccio bene a condannare un malvagio anche se determinato da cause naturali fu il suo reato. E di solito noi non vogliamo affatto cercare un accordo fra i diversi criteri del nostro pensiero, e in particolare fra il criterio teoretico esistenziale e quelli pratici e deontologici: se, per es., fate osservare alla pia madre mentre accende un cero per lo scampato pericolo del figlio, ch'è assurdo riportare al volere divino invece che al caso umano la salvezza d'uno che valeva quanto gli altri suoi compagni periti, la offenderete inutilmente, Ma spesso, anche se quell'accordo fra i valori lo volessimo, non lo possiamo raggiunger di fatto nella coscienza viva e fattiva. Basta sorvegliarsi mezz'ora per constatarlo. . Ora, la filosofia, com'è, nella sua parte critica, riflessione sui valori dei nostri giudizi e quindi precisazione e impostazione dei problemi, così è, nella sua parte positiva e costruttiva, axiologia, unificazione dei valori come razionalità e realtà, in cui tutti si debbono coordinare. Per quanto apertamente o segretamente spinta da un intento pratico o religioso, per quanto deontologica e universalizzante, la filosofia si distingue dall'etica pratica e dalla religione per il suo fine essenzialmente teoretico, oggettivo, realistico, ossia, in ultima analisi, in accordo con l'esperienza, sia pur quest'accordo dialettico, mentre che nella vita l'opposizione è proprio pratica e non teoretica... Un'ora fa udii squillare il mio telefono: una voce femminile mi chiese se rispondevo in persona; quindi aggiunse alcune parole incoerenti che terminarono in un rider lento e stanco come quello di certi dementi. Riappesi il microfono rabbrividendo e mi passò per la mente l'idea fantastica, che quella fosse stata la voce d'una persona morta (mia madre) che mi telefonasse!! È un'interpretazione come un'altra, e per me anzi più importante d'un'altra; ma in sede di riflessione io debbo riconoscer l'incoerenza teoretica di prestare a uno spirito forze e attività che ho prima definito materiali: di concepire cioè l'anima come un ente per sè esistente e pur agente fisicamente sulla materia. . Ritornando al nostro assunto, di definire il concetto di soggetto - e, di conseguenza, il concetto del concetto in quanto questo è un "prodotto" del soggetto -, avvertir prima che il soggetto non può esser un oggetto, che l'io non può esser "in sè", è tanto ovvio, che sembra un ridicolo giuoco di parole. Tuttavia, se noi ne inferiamo, com'è logico, che dunque il puro soggetto non è un reale, non esiste, non è niente, perchè il concetto di essere è oggettivo, si riferisce alle cose e ai fatti (alle sostanze e alle cause), cosicchè non appena l'applichiamo all'io ne facciamo uno "spirito" che duplica il mondo oggettivo ma su l'analogia di questo, tutti insorgeranno. Come, "io" non esisto? non c'è lo spirito? ma come ci sarebbe l'oggetto di nessun soggetto? non è questi l'autore anche di quella realtà oggettiva che tale diviene in un giudizio esistenziale, in un concetto reale ma sempre concetto? Allora, per sfuggire alla stretta, non potendoci più fermare alle due sostanze cartesiane o ai due attributi spinoziani, ci si getta al partito dello Spirito puro: reale è soltanto lo spirito, il concetto puro: che dona poi il valore di realtà ai concetti empirici via via nel divenire del pensiero. . Questa soluzione è sempre stata, in varie vesti, la più profonda ed attraente, quantunque rovesci il senso comune del "reale": io sono la realtà in sè, assoluta e universale, lo Spirito che s'attua nel suo divenire come (mia) esperienza. Il Soggetto, infinitamente più vasto e più ricco de' suoi particolari molteplici oggetti, fra gli altri valori che attua, che oggettiva, produce anche il valore di realtà empirica, di natura, che si riduce ad una unificazione degli oggetti secondo categorie che il soggetto stesso, come pensiero, trae da sè medesimo (a priori) appunto per realizzare, per far essere, spiritualmente, quel molteplice che in sè non è nulla. . Tuttavia il nostro problemino si ripresenta, inesorabilmente, come prima: o il reale (esistente) è platonicamente l'idea pura, e in tal caso i concetti empirici e lo stesso "io" empirico sono irreali e illusori e non possono esistere in sè; o hegelianamente lo spirito si attua, si realizza (come esistenza ontologica) negli oggetti storici d'un attuale storico soggetto, e quello spirito è un dover essere - come valore - ma non un esistere, perchè l'esistere del soggetto, dell'io, non è fuori dell'esistere dell'oggetto, della relazione al non io. ... . ... 4. . Non sono soltanto le esigenze metafisiche e religiose (che, del resto, sarebber panteiste o almeno averroiste) quelle ch'hanno sempre costretto la filosofia a ritornare dagli oggetti al soggetto e dalla natura allo spirito: fu anche e sopratutto l'impossibilità di definire teoreticamente il soggetto spirituale senza ridurlo a natura oggettiva, perdendone quindi il valore trascendentale. Il ragionamento che regge e preme tutto l'idealismo è, in fondo, questo: non potendo lo spirito, il pensiero, esser una delle sue cose, è necessario, per non ripiegare sopra un illogico dualismo, che le cose in sè siano spirito, come sono infatti idee in noi. Ora, io dico, questa tesi contiene una grande verità; ma bisogna aver il coraggio di portarla fin in fondo. Il Kant ci aiuta molto più dello Hegel nella bisogna, appunto perchè è più conseguente alla critica della conoscenza(3). . La detta verità sta nella constatazione gnoseologica, essere il soggetto quello che definisce gli oggetti; che dà realtà, oggettività, all'esperienza; che conosce i sensibili come cose e fatti (sostanze e cause), li conosce cioè oggettivamente, assolutamente; che strasforma in essere l'esistere delle sensazioni, alienandole da sè stesso; che, insomma, muta la sensazione (chiamata per ciò soggettiva) in idea sempre più oggettiva e reale, quanto più prossima all'unità in sè, postulata dal pensiero. Ma appunto per tutto ciò, il soggetto è indefinibile teoreticamente, nessun oggetto potendolo a sua volta comprendere. . Il soggetto non è dunque una realtà, se "reali" sono le sostanze e le cause - anche se le riduciamo a pure relazioni fra le differenze sensibili -, sempre idee dei sensibili. "Io" non posso oggettivarmi senza perdermi, non posso rendermi assoluto da me stesso senza ridurmi al non io: onde l'impossibilità della psicologia, sulla quale ritorneremo. E se "essere" significa, come infatti significa, essere in sè di ciò che apparisce sensibilmente, lo spirito, ripeto, non è niente, se non per grossolana analogia naturalistica. Mettersi alla ricerca della realtà dello spirito nello spazio e nel tempo, è un problema mal posto. Allorchè vogliamo realizzare lo spirito, a rigore non possiamo che realizzarlo negli oggetti, per es. nelle relazioni corporee, come quando dico: io vedo, io cammino (ma anche: io ricordo, io faccio, io penso). Perfino il Valore assoluto, Dio, non realizza il suo spirito che attuandosi in una Persona... . In altre parole, il soggetto in sè è irreale (è ideale, e poi diremo che è pratico invece che teoretico): la realtà teoretica del soggetto è sempre un oggetto. La realtà di quel verde sentito è quel verde conosciuto, per es. come proprietà organolettica (e sol in tal senso organico chiamata "soggettiva" dai filosofi). La realtà dell'anima è il corpo come individuo organico e centro attivo di rapporti con l'ambiente. E la realtà dello spirito in universale è il divenire del mondo, si chiami poi idea o cosa è lo stesso. Non ci posson essere due realtà, una oggettiva e una assolutamente soggettiva, ma una sola, comunque si voglia chiamare, che però riguarda sempre l'essere in sè e non il mio attuale soggetto, che, appena lo conosco, è già il passato, la storia, il fatto. . Nessuno è mai riuscito a definire lo spirito puro se non per negazione degli attributi reali, come quando è detto inesteso, libero, formale, noumenico e simili; appena si tenta di definirlo positivamente, si cade in una contraddizione in termini, come quando lo si chiama una sostanza, un "continuo" (di che?), oppure si crede che vegga, che senta, che voglia senza occhi nè nervi nè muscoli. Nondimeno tutti seguitano a parlare di "distinzione" (in senso strettamente teoretico!) dell'io dal non io, con evidente preconcetto intellettualista. . Che cosa intendiamo col verbo "distinguere"? Se questo termine riguarda la conoscenza teoretica, distinguo due cose fra di loro, come quell'albero e quella casa, perchè diverse unità sensibili mi rappresentano oggetti diversi; oppure distinguo due qualità fra di loro, come verde e sonoro. Ma in che senso distinguo quell'albero o quel verde da me? O distinguo quell'albero dal mio corpo, quel verde dal mio occhio che lo vede - o magari dalla sensazione (senso interno) di riposo che n'è l'effetto organico -, e si tratta ancora di distinzione fra oggetti. O voglio proprio parlare del soggetto di quell'oggetto, del sentito di quel sensibile o del conoscente di quel conoscibile, e non si tratta più di oggetti e di proprietà oggettive diverse, perchè il verde sentito è lo stesso verde sensibile, l'albero conosciuto è la stessa idea di quell'albero. . Si tratta di distinzione pratica, o meglio, di opposizione di soggetto a oggetto: quest'ultimo termine è infatti volontario, soggettivo, e lo intendiamo per suggestione, non per dimostrazione; anche quando lo applichiamo alla natura in sè, come quando parliamo di due forze che "si oppongono" - come, del resto, quando parliamo d'idee opposte, ossia contraddittorie -, facciamo una metafora poetica, animando il mondo in sè (l'idea stessa di forza è soggettivante), oppure trasferiamo in un rapporto oggettivo la negazione soggettiva che il soggetto fa su l'accordo di due termini. In sè, due forze e la loro risultante, o due termini e la loro proposizione, si compongono e non s'oppongono. L'in sè non ha che un solo ribelle, l'io; questi lo nega come esistere in sè del sensibile (e quindi anche di sè stesso), e in tal modo lo fa essere, teoreticamente, spingendolo al dover essere, all'idea; ma per ciò appunto sarebbe un errore (sempre dal punto di vista teoretico) sperar di trovare in questa direzione il soggetto puro, negando l'oggetto in sè: negando l'oggetto, si ritorna al soggetto indistinto come sensazione, al suo esistere attuale nel sensibile. Nell'ordine ideale, il soggetto è sol la legge, la forma, la norma o praticità dell'oggetto. . Insomma, "io" non può mai significare "io sono" - se non nel senso della mia realtà individuale di uomo con le tali qualità obbiettivamente distinte -, ma significa "io voglio". Non è universale e oggettivo, ma vive singolarmente, attualmente: la sua esistenza è sensazione, anche se i suoi superbi fini si dirigono all'eterno del dover essere infinito e in sè. Per cui il solo modo di salvare il soggettivismo idealista sarebbe quello di affermare assoluta la sensazione, e tutto il resto relativo ad essa... Perchè no? Se non intendiamo parlare dell'assolutamente assoluto, di quell'assoluto cioè che dev'essere totalmente indipendente da noi, e che perciò è un impossibile teoretico ed è solo conoscibile come un nostro postulato pratico; e se invece intendiamo per assoluto quel termine a cui tutti i valori della conoscenza si debbono relativizzare, assoluta (gnoseologicamente) sarebbe proprio la sensazione, contenuto rappresentativo d'ogni conoscenza teoretica ed esistenza attuale di quel soggetto che in essa vive praticamente e se ne serve rappresentativamente. Convengo però che questa è una svolta pericolosa, di quelle così frequenti in filosofia, dove a un tratto si viene a invertire totalmente l'uso dei termini e per giuoco sofistico si passa da una tesi alla sua perfetta antitesi: infatti, l'idealismo attualista può passare in un radicale empirismo dichiarando assoluto e reale in sè l'attuale esistente, e inesistenti il passato e la storia e ogni altro oggetto in quanto tale. Non è questa precisamente la nostra via. ... . ... 5. . In un trafiletto della sua Rivista critica (maggio 1930) Benedetto Croce molto spiritosamente canzonava il filosofo che passa tutta la vita a chiedersi, se il calamaio che gli sta davanti è "io" o "non io". Eppure che cos'altro ha sempre fatto la filosofia tutta quanta (e lo stesso Croce filosofo), se non aggirarsi intorno al problema del rapporto di soggetto a oggetto, ch'è il problema essenziale e forse unico della riflessione critica? Rimane del tutto fuori della filosofia chi ignora la posizione così argutamente comicizzata nella scenetta del calamaio; è filosofo chi tenta una qualunque via per tradurre in termini e giudizi oggettivi, ossia per razionalizzare, quel che ognuno sente come opposizione, o se preferite, come distinzione pratica (coscienza) di sè e del mondo. . Ora, le vie non son molte. Noi, partendo da questo sentire pratico invece che da un supposto essere teoretico (anima o spirito) - partendo quindi dal rapporto volontario invece che da una causalità oggettiva -, direi che scegliamo la via del senso comune, se non fosse ancor più comune l'illusione per la quale, non potendo noi parlare d'alcunchè di oggettivo senza presupporre il soggetto che conosce e parla, siamo portati, quando vogliamo definir quest'ultimo, ad attribuirgli l'oggettività de' suoi oggetti e a trasferire in lui quei concetti di sostanza e causa che valgono per gli altri oggetti, per gli oggetti in sè, che per esser tali non debbon essere soggettivi. Ci troviamo così presi fra il concetto volgare, che il soggetto sia un oggetto, un'anima, e quello filosofico, che l'oggetto sia un soggetto, spirito. La concezione dialettica, della realtà del solo rapporto di soggetto e oggetto in cui l'uno è per l'altro e non assolutamente, non ha impedito ciò, perchè questo rapporto venne hegelianamente inteso come mediazione teoretica d'idee distinte, mentr'è prima opposizione pratica di volere ed essere, antinomismo kantiano d'uso pratico e teoretico della ragione. . Ma, dicevo, per esser più semplici e più chiari, ragioniamo partendo dal senso comune, col quale dai secoli dei secoli gli uomini soglion farsi le idee che loro servono nella vita di quaggiù. Non voglio nemmeno guardare soltanto "dentro di me" - non credo alla "introspezione", credo all'"esperienza", tout court -, e del resto la mia introspezione non sarebbe più tale per il lettore: guardo fuori della finestra. Ecco là un grosso signore che corre dietro un tram già in moto e riesce, alla bell'e meglio, ad issarsi sul predellino con la grazia d'un plantigrado inseguito. È una di quelle azioni della vita, comune in cui l'uomo presenta il minino di quell'interiorità e personalità che distingue gli individui: qui pare che si esteriorizzi completamente in un automatismo, per cui vive la vita d'uno qualunque, purchè sia grasso e impacciato come lui. Forse, in questo istante, egli ha dimenticato totalmente sè stesso, tutto preso nello sforzo d'arrampicarsi sul tram senza cadere. . Orbene, tutto ciò che fa questo signore, è eminentemente psicologico, e parlandovene io vi faccio della scienza morale e non della fisica. Vi farei della fisica se cercassi di calcolare, per esempio, la velocità de' suoi frettolosi passetti in rapporto a quella del tram, o il rapporto fra il suo peso e il suo sforzo muscolare per compiere il salto sufficente a raggiungere il predellino, ecc. Ma io vi parlo della sua "premura", del suo sguardo ansioso al tram fuggente, del suo decidersi impaurito e tuttavia energico a raggiungerlo, non senza un'occhiata di rancore, appena su, a quel generico tram che non attende la gente grassa... È la differenza che passa fra l'ingegnere che studia di che materiali è formato un ponte romano, che sforzo può sopportare, a che leggi statiche obbedisce e quali problemi tecnici presuppone risolti, e lo storico che risguarda il medesimo ponte rispetto ai fini a cui era destinato, agli istituti ed atti politici che ne determinaron la costruzione, e cosa via. . L'oggetto di cui parlo è lo stesso, come contenuto della mia conoscenza, quel signore che corre o questo ponte che resiste fermo da secoli. Non parlo di due cose, l'anima, e il corpo di quel signore, la materia e lo spirito di questo ponte; parlo del signore grasso e del ponte arcuato. Per me si tratta sempre di percezioni, per il lettore d'immagini, nell'un caso come nell'altro, di gruppi di rappresentazioni oggettive, ossia reali, che ormai spontaneamente si attuano nei sensibili (presenti in sensazioni e parole), e non son più quindi che semplici dati. Ma parlandone ora psicologicamente o storicamente, noi colleghiamo questi dati in rapporto ai fini soggettivi, teleologicamente: diciamo, per esempio, che quel signore corre perchè vuol salire su quella vettura in moto; ch'è esitante perchè teme, ossia non vuol rompersi una gamba ecc. . Questi fini e queste volontà sono reali? Sì, ma sempre nei loro mezzi ed atti, ne' quali attuano i loro valori pratici, di cui io partecipo per suggestione, rivivendoli, e non per rappresentazione obbiettiva. Se io voglio obbiettivare il valore stesso, non ho altro modo che di rappresentarmelo formalmente e non realmente: lo obbiettivo in una norma, in una legge, in un dover esser insomma, corrispondente alla trascendentalità del desiderio di fronte - cioè in opposizione pratica - all'essere dei contenuti percettivi e ideativi. La normatività è il carattere obbiettivato del volere in tutte le sue forme concrete, desiderio, proposito, comando; tra la norma banalissima "Andar cauti nel salire sul tram!", in cui ci possiamo rappresentare il soggetto che ora muove quel signore, e la legge morale, non c'è differenza che nel valore pratico sempre più universale, dall'utilitarismo all'eticità, per es., del "Neminem laedere". . Ripeto: non mi posso figurare e non vi posso rappresentare teoreticamente il soggetto volontario di quel signore, se non esprimendolo in una norma formale, che sarebbe il "principio" che règola la sua azione pratica e quindi me la "spiega" teleologicamente. Però, il valore pratico è un valore (utilitario, giuridico, etico, religioso ecc.) e io tale lo giudico in giudizi di valore (p. es. utilitari: "Ha saltato bene") non già nella pura forma vuota, ma nel suo applicarsi ai contenuti reali e nel suo farsi; ciò costituisce la "positività" della legge, il fatto del dritto, la volontà reale del principio ideale. Il valore, il dover essere, è valore reale nell'essere. . Se, ascendendo verso una legge etica sempre più universale e pura, come fece il Kant, io finisco per spogliarla di tutti i contenuti reali, per emanciparla (formalmente) da tutte le possibili condizioni, e mi rappresento la pura volontà come forma assoluta del dover essere morale - "Agisci in modo che la tua volontà sia autonoma!" -, ebbene, io non esprimo più che una tautologia, mettendo in forma razionale, come postulato, il carattere trascendentale del volere, anzi, direi, del sentire. Il volere è volere in quanto è libertà, in quanto vuol liberarsi dal dato di fatto per raggiunger qualcosa di più, che ancora non è, e perciò lo sentiamo come spontaneità del desiderio, negazione del dolore sentito e affermazione della gioia che verrà. . Ma la libertà, ipostatizzazione formale di un'esigenza reale, è un reale in quanto realizza il suo principio, ossia lo attua in rapporto alle condizioni di fatto, alle quali s'oppone come sentimento e si relativizza come atto e rapporto di mezzo (oggetto) a fine (soggetto). ... . ... 6. . Abbiamo preso un esempio qualunque per toglierci dalle astrattezze, ma ognuno potrà poi generalizzare. Ci troviamo a quel nodo ch'è nel centro della filosofia, il rapporto di soggetto a oggetto: qual'è il criterio, quale il fondamento della lor distinzione e della loro unità? . Non c'è bisogno d'ascender, come Dante, fino a l'empireo, per vedere "la forma universal di questo nodo" e il legame fra "sustanzia et accidente", tra forma e contenuto, tra pensiero pensante e sensazione pensata, che ne costituiscono i due capi. Rimaniàmo per ora nella sfera del mondo empirico e riflettiàmo sul modo in cui vi si possa intendere la distinzione e il rapporto di soggetto a oggetto. Quel signore frettoloso è un esempio d'attività pratica, soggettiva, e ci aiuta a comprendere che cosa sia il soggetto e come si relativizzi a sè gli oggetti; noi che lo risguardiamo siamo invece esempio d'attività teoretica, oggettiva, e ci relativizziamo a quell'oggetto. Nondimeno apparirà ben presto anche l'artificiosità di questa divisione puramente didattica e superabilissima. . Noi diciamo che quel signore che corre ha un'anima, è un soggetto, non perchè corre (anche il fiume corre), ma perchè i suoi atti si presentano collegati in rapporto di mezzo a fine fra di loro e con l'ambiente. Non appena ne sentiamo la finalità, inferiamo la soggettività d'un qualsiasi contenuto del nostro conoscere: anche il tram, che corre per trasportare i passeggeri, in ciò implica un soggetto volente; attua un fine; realizza un valore (il valor d'utile). Riducendo a schema, possiamo dire che esiste una serie di sensazioni le quali, oltre che rappresentarci degli oggetti (quell'uomo che raggiunge il tram in moto) ci rappresentan anche un soggetto, apparendo collegate teleologicamente. . La stessa sensazione, che percepisco come un "qualche cosa", come un oggetto, la percepisco, simpateticamente, come finalità e soggetto; come riconosco un passo agitato, così rivivo la fretta di quell'uomo. Si noti che, rispetto al modo di conoscere, ora io e lui non siamo diversi se non per differenze particolari: io, percependo il mio uomo in corsa, valuto (penso) - per es. giudicando utile quell'atto - e posso esprimere il mio giudizio col verbo "è", che esplica appunto la realtà del valore soggettivo in un suo contenuto oggettivo (su ciò ritorneremo); ma il medesimo farà anche quell'uomo se pensa a ciò che fa: egli percepisce il tram, la strada, le proprie innervazioni motorie ecc. e via via sceglie questo o quell'atto mediante un giudizio d'utile. Non è qui la differenza fra il teoretico e il pratico e noi possiamo riferirci al pensiero di costui come al nostro che lo rispecchia. . Ora, se questo signore, per un ghiribizzo alla Pirandello, sorprendendosi tutto affannoso e ridicolo dietro il suo tram, tutto esteriorizzato ne' suoi mezzi e fini pratici, si fermasse su due piedi e si chiedesse: "Ma chi son io?", cercando d'isolare il suo soggetto dagli oggetti che or ne divengono i mezzi e i fini, che cosa potrebbe rispondere? Il fine, scisso dal suo contenuto rappresentativo - si tratti di raggiungere una vettura o si tratti di qualunque altra più universale finalità - si riduce al volerla; il volere, scisso da' suoi mezzi oggettivi, si riduce al desiderare; e il desiderio, scisso dall'oggetto desiderato, si riduce a sentimento. Ma che cos'è il sentimento? . Che cosa sia obbiettivamente, non lo possiamo dire che facendone, di nuovo, un oggetto dell'attuale conoscere - il quale include un nuovo sentimento, il dubbio conoscitivo, che i nostri antenati filosofi chiamavano "inquietudine" - e rimettendolo naturalisticamente nell'ordine delle cause naturali, come dimostreremo esaurientemente più tardi. Qui c'è tutta una psicologia dei sentimenti che, o è classificatoria e tautologica, e in tal caso raggruppa i sentimenti in affetti, interessi, passioni e simili, unificati a lor volta nel temperamento, nella personalità e nel carattere, che ci dànno un quadro, puramente descrittivo, della continuità del soggetto empirico e del suo modo di comportarsi in occasione degli stimoli ambienti: ma il tutto rimane appoggiato alla nostra soggettiva esperienza; questi affetti non sono che in potenza, tendenze e impulsi soggettivamente appesi nel vuoto d'un vago spiritualismo. Oppure se ne cerca, scientificamente, la realtà obbiettiva, il come e il perchè naturale; e allora il sentimento diviene, ahimè! il coefficente organolettico e corporeo d'una sensazione - tanto se si tratti del dolore atroce d'un viscere dilaniato che, estrema passività, assorbe e annulla ogni altro valore e ci riduce a belve urlanti, quanto se si tratti del benessere gioioso, della cenestesia armonica esuberante ed esultante d'un mattino di maggio che ci dispone a ogni più nobile impresa -; l'affetto diviene istinto o bisogno, memoria e adattamento biologico, tropismo verso certi stimoli rappresentativi in un senso più che in un altro; il temperamento diviene la specie antropologia e la persona ne divien l'individuo in azione e reazione con l'ambiente... . Sol in tal direzione può, deve muoversi la scienza teorica: il soggetto deve ritornare ad essere un "essere" nel gran fiume dell'Essere. Sotto tal aspetto, il mistero che vela ancora tanta parte delle manifestazioni fisio psichiche (e in cui si rifugiano il medianismo e le pseudo scienze affini), e il non poter ancora spiegare nemmeno perchè un gattino appena nato già fa la gobba e rabbuffa il pelo al passaggio del primo cane che vede, o perchè una prepotenza ci muova a sdegno, è ignoranza (impotenza e disvalore teoretico) ma non è trascendentalità e valore pratico. . Ma, salvo a cercar poi la conciliazione fra causalità e finalità, fra essere e dover essere, fra valore teoretico e pratico, il nostro discorso qui è un altro. Nel soggetto vogliamo rimanere. Se questo puro soggetto è un sentimento, in che mai un sentimento - un mal di pancia come l'amore dell'umanità o la curiosità di sapere, il più empirico come il più spirituale - è soggettivo e non è l'oggetto e il corpo? Era ben tale la nostra questione, questione critica e filosofica, non ricerca scientifica; quest'ultima dipenderà dalla prima e non viceversa. . Orbene: per una critica coerente, per una critica dunque del tipo dell'Hume, il soggetto non è oggetto sol in quanto non vuol esserlo: desidera, e in questo caso esige, di non esserlo - anche se sa d'essere un oggetto fra gli altri, svilupperebbe il Kant -; sente che non lo dev'essere, concluderemo noi. Questo sentimento di libertà e d'autonomia da tutti i contenuti oggettivi e pertanto dalle stesse condizioni reali della propria esistenza costituisce l'unico fondamento dell'io a credersi "io", il solo diritto a volere e ad agire come soggetto: esso fonda e dirige tutti i valori e tutte le attività in quanto pratiche. È un'illusione? Sarebbe illusione se fosse una conoscenza teoretica o se per tale la volessimo far passare, come esigeva appunto il razionalismo entro cui si muoveva ancora la ricerca dello Hume; ma si tratta della conoscenza pratica, si tratta, in una parola, della "coscienza", che non è cosa ma valore della cosa. ... . ... 7. . Abbiamo lasciato il nostro uomo in mezzo alla via, che rifletteva su sè medesimo in quell'atteggiamento che diciamo "critico" o filosofico. Egli è lì, centro del suo piccolo mondo, che percepisce e appercepisce: percepisce in quanto prende le sensazioni attuali - le giudica conoscitivamente, le adopera praticamente - come segni e mezzi dei valori rappresentativi connèssivi nella passata esperienza e reali nella memoria (ch'è della stessa natura sensibile): per es. prende quell'oggetto lucido e mobile per un tram in corsa; appercepisce in quanto, reso attento da un interesse presente, con una nuova analisi e sintesi dei contenuti scopre nuovi rapporti e li unifica in nuove rappresentazioni di valori pratici e teoretici. . Ma adesso egli vuole, supponevamo, percepire le proprie percezioni, appercepire sè stesso, nel suo attuale, immediato, esistenziale e presente rapporto di soggetto a oggetto, punto di partenza di tutti i valori. Perciò, in luogo d'abbandonarsi al pensiero spontaneo, che conduce sempre oltre l'esperienza attuale, oltre il pensiero pensante e la sensazione pensata, verso un oggetto e un fine in sè - s'arresti poi al vicino salumaio o proceda fino all'Essere assoluto, qui non importa -, egli ha dovuto fare il cammino a ritroso e riflettere, con pensiero indiretto, sopra quel suo modo di conoscere. Ha così scoperto che tutti gli oggetti, ivi compresi i suoi atti e il suo corpo, sebbene siano o debban essere "fuori di noi" nello spazio e nel tempo infinito e in tutte le altre relazioni entro cui li abbracciamo, esistono attualmente per noi e si presentano in sensazioni, che ce li rappresentano; e scopre che questo "noi", a sua volta, quantunque sia e debba essere reale soltanto negli e per gli oggetti, come lor valore soggettivo e nostro fine obbiettivo, si realizza di fatto come attuale sentimento di quella sensazione o immagine. . Tutto ciò risulterebbe chiaro ed evidente per chiunque, se, con un'ipotesi ancora più semplice, mettessimo il nostro uomo nella condizione della statua di Condillac, tale cioè che acquistasse a un tratto la prima sensazione del primo senso che le si desta, e non si potesse pertanto riferire a null'altro: abbia, per es., la prima sensazione di dolce o d'amaro. Una è la sensazione in quanto esiste, è presente; soggetto e oggetto coincidono; dolce o amaro sono, indifferentemente, soggetto od oggetto, nel senso che, per la conoscenza, un dolce o un amaro può diventare il contenuto rappresentativo così dell'uno come dell'altro. Ma, prima di tutto, la conoscenza è già un uscir fuori dal dolce o amaro immediato, è già mediazione e pensiero; in secondo luogo, la conoscenza è obbiettivante, costruzione dell'oggetto: come dunque parleremo d'un soggetto? . Quando ci accingiamo a rispondere alla domanda: che cos'è il soggetto, che cosa l'oggetto d'una sensazione dolce o amara? siamo facilmente vittime, ripeto, d'un equivoco che ne conduce diritti al dualismo e al parallelismo filosofico, perchè, per conoscere, vogliamo introdurre una distinzione di cose o di proprietà obbiettive - una distinzione oggettiva perchè conoscitiva - fra quell'oggetto e quel soggetto che, in quanto esistono, esistono proprio come unità di soggetto oggetto e non come due oggetti! A una domanda teoretica non si può coerentemente rispondere che con una risposta teoretica (che esclude il soggetto), riguardante l'oggettività, il valore di realtà di quel contenuto: per es., risponderò, che una sensazione dolce è, considerata in sè stessa, una proprietà organolettica; riportata alle sue cause, è il prodotto di stimoli chimici esterni e di fattori organici interni, e che i primi ci dànno il sensibile e i secondi il sentimento spiacevole. . Ma il sentimento non è soggettivo perchè corporeo, perchè reale. Nella sensazione, sensibile e sentito sono, sì, realmente, la medesima unica cosa, l'incontro d'infinite cause naturali, che abbiam tutto il diritto di raggruppare in unità distinte ma sempre obbiettive e unificabili in un'unità o rapporto ulteriore ed in sè, che ci spieghi l'unità reale di soggetto e oggetto nella vita. Tuttavia, nella vita, esiste una dualità pratica, un'antinomia tra sensibile e sentito, presente non come conoscenza, ma come coscienza; ed è questa la posizione in cui ora ci dobbiamo mettere se vogliamo comprendere anche il fondamento del criterio per cui si può parlare conoscitivamente d'un soggetto distinto dall'oggetto. . Io dico intanto che una sensazione, anche presa per sè stessa (cioè vissuta), e rifiutandone le suggestioni rappresentative che ce la fanno diventare un oggetto (concettualmente), già si presenta dualizzata in contenuto e forma, in realtà (come esistenza) e valore (come coscienza). Prima d'esser, conoscitivamente, rapporto - e cioè accordo teoretico - di soggetto e oggetto distinti, è antinomia pratica di sensibile e sentito realmente uniti. . Una sensazione, per ipotesi, prima ed unica di amaro, mentre è presente, mentre esiste - e, potremmo dire, si afferma (è necessaria, è in sè) - perchè è quel tal amaro così dato, si nega e s'oppone a sè stessa perchè sentimento spiacevole, spontaneità del desiderio che vuol liberarsi, trascendentalità del volere su l'essere che pur n'è l'esistenza. In somma, la vita ha un fine - e lo deve quindi avere tutto l'Essere che si attua nella nostra vita -: si acciechi questa finalità d'ogni sua rappresentazione, cioè d'ogni suo contenuto oggettivo e si denomini obbiettivamente, naturalisticamente, "istinto" o "impulso", ebbene, l'impulso è soggettivamente il bisogno che sentiamo di trascendere la sensazione sentita, natura del volere. Vivendo una sensazione, sentiamo il sensibile con un dislivello morale, che non è ancora una differenza reale, una conoscenza teoretica, ma già è una conoscenza pratica, un valore dell'esistenza che supera l'esistente, sentito come coscienza. La coscienza - anche se, a questo livello, la si chiama "inconscio" perchè non ancora conoscenza teoretica - è l'io che s'afferma negando il non io, si afferma come trascendentalità del valore su l'essere, libertà del volere sulla necessità del dato di fatto. ... . ... 8. . Parole troppo grosse, adoperate a proposito d'una semplice e povera sensazione d'amaro? La filosofia impiegò il termine "trascendente" con significato ontologico trascendenti sono quei valori - e primo fra tutti il valore di realtà - che affermiamo assoluti, indipendenti dal nostro io empirico e universali: l'essere in sè del mondo (la "cosa in sè") e il dover essere assoluto dei valori morali (Dio). Tutta la nostra esperienza esterna e interna, tutto ciò che conosciamo e che vogliamo, perderebbe ogni significato e ogni valore, se non fosse misurato per mezzo di qualcosa d'assoluto da cui dipenda e per cui sia conoscibile razionalmente e giustificabile idealmente. Non soltanto, in generale, non potremmo affermare vera una cosa o buono un atto se non vi fossero verità e bene in sè, ma anche particolarmente, un fenomeno rinvia alla sua causa e questa ad altra fin a una causa prima e assoluta, e una norma rinvia a un dovere assoluto che le fornisca il diritto d'impero. . Davanti a questa evidente necessità di dover spiegare e giustificare il relativo dell'esperienza con l'assoluto trascendente, il molteplice e vario dei fenomeni con l'une noumenico, che anche il nominalismo e l'empirismo hanno sempre dovuto riconoscere, o ci si rannicchia nella comoda casetta dell'agnosticismo, definendo l'assoluto sol per negazione di tutti gli attributi positivi o dichiarandolo illusorio e soggettivo (ma non è questo un assoluto, sebbene scettico, relativismo?); ovvero si cerca per altra via il rapporto fra noi e il mondo trascendente, immanentizzandone i valori. . Tal via può essere quella della "reminiscenza" platonica, o della grazia, o della consunstanzialità dell'anima umana e di Dio, o della partecipazione occasionale ecc.; ma son sempre mezzi mitici d'esplicazione d'un fatto, presente anche nella più modesta conoscenza empirica, la quale implica vi sia qualcosa in sè da conoscere e un corrispondente "principio" innato della conoscenza. Allora il Kant, come tutti sanno, rapì il trascendente all'ontologismo dogmatico e lo trasformò nel "trascendentale" psicologico, che definisce la forma conoscitiva e non più certi suoi contenuti, "inconoscibili" appunto perchè trascendenti. Secondo Kant, la trascendentalità è del pensiero e sta nel valore formale della conoscenza. Ma che cosa significa "forma" per un kantiano? Io l'interpreto così: . Il pensiero, astratto da' suoi oggetti - o meglio, opposto (praticamente) a' suoi contenuti empirici -, ci apparisce (io direi "lo sentiamo") come coscienza d'una libera e spontanea attività, a priori e formale: a priori perchè pura e indipendente (in quanto opposta ai contenuti oggettivi); formale perchè capacità conoscitiva, ragione. Infatti, se ora volessimo esprimere questa purezza, se volessimo attuare, in un giudizio, questa potenza, enunceremmo un di quei "principii di ragione", che vedremo totalmente a priori poichè definiscono la categoria stessa nella sua universalità e necessità. . La cosa è ben evidente se noi, non avendo più da sbaragliare un precedente razionalismo (realista o nominalista che fosse, cartesiano od humiano), invertiamo l'ordine della critica kantiana, incominciando dal dedurre la forma pratica della ragione. Lasciàmo che la nostra volontà, l'"io", si liberi totalmente, com'è sua natura, dall'esperienza empirica; lasciàmo che il pensiero, che n'è la coscienza, corra liberamente e spontaneamente alle sue ultime mete, che ne diverranno la conoscenza puro pratica: avremo un pensiero soltanto formale, che non ha bisogno (come la conoscenza teoretica) di relativizzarsi ai contenuti empirici e prende, per così dire, a contenuto la sua stessa forma, oggettivandola nella legge morale. La forma del pensiero puro pratico è dunque la norma in universale, il "dover essere" assoluto, che il volere prescrive a sè stesso obbiettivandosi in una legge, per applicarla poi come criterio del giudizio morale a proposito di qualsiasi contenuto empirico, e come norma di qualsiasi azione umana. . L'autonomia del volere, soggettiva come spontaneità del sentimento, cosciente come antinomia pratica fra ciò che il volere vuole e ciò che è il sentito, si oggettiva determinandosi conoscitivamente come legge, dovere. Il "dovere" non è dunque più una spiritualità trascendente e in sè (il Dio ontologico), ma una forma della ragion pura, una "idea trascendentale" immanente nello spirito umano, anzi "nel cuore"! È a priori perchè da nessuna particolare esperienza la potremmo dedurre come nessuna la potrebbe esaurire; è formale perchè obbiettivata in un imperativo assoluto, unico modo col quale l'io, il volere, si può oggettivare, si può conoscere, rimanendo puro volere, soggetto senza oggetto: la conoscenza pratica è normativa e non costitutiva dell'esperienza. Quando poi andiamo a cercare per via teoretica quale possa esser l'origine della norma etica, non troviamo di fatto che l'"esigenza" della libertà del volere: la volontà dev'esser libera di dettarsi la sua propria norma perchè vuol esserlo. . Su questo punto, per ora, la critica può soltanto concludere, che il volere trascende sempre l'essere esistente nel dover essere, determinandosi in un rapporto teleologico, che subordina i contenuti (come mezzi) al fine formale, il quale ne costituisce il valore. Valore e fine, nell'uso pratico, coincidono. Essi non esprimono la realtà d'una rappresentazione o d'un concetto, ma la trascendentalità del volere, l'idealità dell'idea. Voglio dire che nel rapporto pratico di soggetto a oggetto - rapporto che, ricordiàmolo, non è di due cose o di due proprietà oggettive, come i rapporti teoretici di sostanze e di cause, ma è d'antinomia implicita nella stessa attività pratica, ed esplicita nel pensiero o conoscenza di questa coscienza l'oggetto (che poi diremo) reale, e il soggetto stesso in quanto realmente esistente, sono adoperati come mezzi e relativizzati come contenuti conoscitivi al fine soggettivo, il quale ne misura il valore. . Sia dato un sentimento, un affetto, un interesse qualunque: son date nel contempo altrettante finalità, implicite nella reazione pratica, concreta e diretta, esplicite nel pensiero pratico che valutando, scegliendo, deliberando, determinerà (nel proposito) i fini e i mezzi dell'azione. Il pensiero pratico giudicherà i valori e i disvalori degli oggetti secondo che questi (e quindi anche gli atti) sono in accordo o in antinomia col fine ideale. Naturalmente, si costituisce in tal modo una gerarchia di fini, più o men coerente e consapevole, sentita come individualità (persona, in opposizione all'ambiente) e carattere (in opposizione alle stesse volizioni proprie spontanee), dove il fine superiore subordina e giudica quello inferiore. Ma la scala dei valori è l'ascesa del volere, del soggetto, a una posizione puramente formale della ragion puro pratica definibile sol idealmente, ove il fine supremo diviene il valore noumenico e la perfetta autonomia coincide con l'obbligatorietà assoluta della legge universale. . La grande innovazione kantiana sta in questa posizione pratica e romantica, alla quale deve risalire ogni "filosofia dei valori". Il valore d'un fenomeno qualunque non è nel fenomeno, che li può rappresentare tutti: è nel noumeno, nel pensabile di tal fenomeno, riducibile alla forma o idea pura in cui si attua conoscitivamente il fine del volere in antinomia col fenomeno dato. I valori son dunque dei puri pensabili di ragion soggettiva, ossia pratica, anche se oggettivati in idee trascendentali e in norme e leggi universali; del resto, ideale e formale non è solamente il valore supremo (l'idea del bene e l'imperativo categorico), ma lo son ugualmente, quantunque subordinatamente, le idee di utile, di giusto, di santo ecc. Il soggetto, non come fenomeno tra i fenomeni, ma come forma del volere e valore d'ogni fenomeno - cioè come spirito - è ormai al centro dell'essere. L'essere stesso è tale, ha il valore d'un essere, non in quanto appare fenomenicamente, ma in quanto dev'essere qualcosa d'assoluto, di noumenico, in antinomia col suo apparir fenomenico: la "cosa in sè". ... . ... 9. . A questo punto l'attività e il pensiero pratico si converton in attività e pensiero teoretico. A meglio considerare, non si tratta d'una conversione ma d'una reciproca implicanza e corrispondenza de' due "usi" della medesima attività. Teoretica e pratica non costituiscono due attività ex aequo di un mitico spirito sottoposto: se ora ne parliamo teoreticamente - se a nostra volta siamo teoretici perchè vogliamo conoscere la realtà oggettiva di tali "fatti" della nostra esperienza "interna" -, esse ci appariscono intanto una sola attività, dipendente dal volere dell'individuo empirico, la quale, perchè attività volontaria (determinazione teleologica), è sempre pratica, essenzialmente pratica. Dico che, empiricamente parlando, l'attività (e quindi la conoscenza) teoretica non ci rappresenta altro che un caso dell'attività pratica: il caso in cui vogliamo appunto conoscere oggettivamente gli oggetti reali - oggettivare l'oggetto - interpretando il sensibile e ad esso relativizzando gli altri fini del nostro volere. Proprio perchè il volere, per la sua natura sentimentale è impulso a trascender l'esistenza attuale e quindi a modificare l'essere reale (compreso il suo proprio essere empirico), è nel medesimo tempo costretto a conoscere questo essere com'è, oggettivamente. Proprio perchè aspira al dover essere, deve, per attuarlo, fare i conti con l'esistenza e conoscerne la necessità e le leggi; deve, sia pur temporaneamente, adeguarsi al reale, per modificarlo e per servirsene ai fini pratici. . Naturalmente, come la valutazione pratica d'un oggetto, per es. utile, è pensiero pratico che valuta e sceglie tal oggetto come mezzo, conveniente o meno ai fini utilitari e soggettivi, per cui il mezzo temporaneamente diviene un fine pratico - legge della conversione dei mezzi in fini, costante in ogni attività pratica e tanto più, quanto più ricca e complessa è la vita -, così la conoscenza teoretica, nata dal bisogno di valutare oggettivamente l'oggetto perchè sia mezzo all'attuazione dei fini pratici, diventa fine a sè stessa, diventa sapere oggettivo e scienza, da cui il soggetto volontario ("emendato" come amore e desiderio di sapere) vuol eliminare quanto vi sia di soggettivo e finalistico. Ma insomma, l'attività teoretica non cessa d'esser pratica, almeno in quanto non lo vuol essere! (Di qui l'errore del prammatismo filosofico: dalla constatazione di fatto, che la conoscenza teoretica ha origine, come esperienza e come scienza, nei fini pratici ai quali deve servire di strumento per la loro migliore attuazione utilitaria, inferisce che il vero, come valore reale costruito nella conoscenza, sia soggettivo e pratico in sè. Ma, proprio praticamente parlando, il vero non dev'esser soggettivo... Altrimenti, anche il prammatismo sarebbe un concetto solo conveniente; e a che scopo?) . La critica pertanto conclude, che un valore è soggettivo in quanto è un fine del volere, in quanto è pratico. Nel contempo deve però riconoscere, che il valore d'una cosa o d'un atto qualunque, per quanto soggettivo - per quanto cioè relativizzi i contenuti (la cosa e l'atto valutati e scelti) alla forma (alla norma e al fine soggettivo del volere) - non sarebbe nè un valore nè un fine, se non si riferisse e in qualche maniera non si relativizzasse a sua volta a tali contenuti; che l'attività e il pensiero pratici devon esser pratici di qualche cosa, "idee" di qualche "concetto"; che infine un valore, una forma, non son valore senza realtà, forma di niente. Per esempio, l'utilità di nessun (oggetto o atto) utile, il fine di nessun mezzo, non sono più nè utilità (valore) nè finalità: si riducono al piacere, ch'è un sentimento, un semplice fatto psichico. E il giudizio pratico, quello che i logici chiamano "giudizio di valore" perchè appunto valuta la convenienza, giustizia, eticità, santità di qualcosa o di qualche azione, deve potersi esprimere col verbo "è" proprio al pari d'un giudizio "esistenziale", o meglio, dev'essere anch'esso un giudizio esistenziale (del valore); se no, che giudizio sarebbe? la proposizione esprimerebbe unicamente il desiderio o la preghiera o il comando e, in una parola, il soggetto, ma non sarebbe una sintesi conoscitiva. . Ritornando al Kant, egli non ha punto separato il teoretico dal pratico, come si suol facilmente credere, ma soltanto i lor usi e il loro dominio; e questi non li ha divisi teoreticamente, oggettivamente, ma opposti per antinomia pratica. Mi spiego. Se chiediamo all'etica kantiana, "che cosa sia" il bene o il dovere, il Kant corregge subito l'errore della nostra domanda (teoretica) rispondendoci che cosa essi debbono essere per valere come idea e come legge morale. Ossia, egli, per fondare i valori pratici, si pone nella pratica, esigendo l'autonomia e l'incondizionalità assoluta dell'imperativo morale, anche se teoreticamente riconosce che nessun'azione umana si può di fatto determinare secondo la pura ragion pratica. "Fa' il tuo dovere, avvenga che può!" è una norma, una determinazione pratica, non è una conoscenza teoretica; se ci chiedevamo invece che cos'è il dovere teoreticamente, la risposta non avrebbe più determinato il dovere, ma spiegato il potere, l'accordo del dovere con l'essere, e non sarebbe stata questione morale, ma psicologica e storica. . Lo stesso si dica degli altri valori soggettivi, dei valori che coincidono coi fini. Se si vuol parlare del soggetto, bisogna rimanervi dentro: posso giudicare d'utilità e di politica, di diritto e di religione, sol restando uomo economico, politico, civile, religioso; se invece voglio conoscere la realtà d'uno di questi fatti, ne istituisco la diagnosi e la storia ponendo fuori causa il mio soggetto, i miei interessi e le mie esigenze pratiche. Allora relativizzerò quel che prima avevo antinomizzato, unificherò ciò che avevo diviso. La storia vuol e dev'essere sapere per eccellenza oggettivo e teoretico: pur constatando che noi non "comprenderemmo" la storia se non rivivessimo soggettivamente i fini e i valori umani che vi si realizzano - poi che il soggetto non si trasmette per rappresentazioni come l'oggetto reale, ma rivive simpateticamente -, la storia ricostruisce e valuta la loro realtà di fatto; anzi, è il fatto, il contenuto quello a cui domandiamo le suggestioni che ci consenton di rivivere lo spirito dei tempi. . Ma, in sede filosofica e critica - riflessione sui valori stessi e non sui lor contenuti sensibili - non possiamo certo divider più la pratica dalla teoretica, il mondo noumenico dalla conoscenza fenomenica, il dover essere (pensabile) dall'essere (esistente), chè sarebbe un divider la forma dal contenuto: essi infatti s'oppongono per antinomia pratica, ma ritrovan nei contenuti e debbon ritrovare nella forma l'unità reale dei valori. La ritrovano (o meglio, noi la formiamo) nei contenuti, perchè, come s'è ora detto, il fine si attua in un sensibile, il valore vale di qualche cosa, e il dovere stesso assoluto ha bisogno di essere e per essere di subordinarsi al poter essere, alla conoscenza teoretica causale: è un primo modo, empirico, con cui l'attività teoretica, sorgente come mezzo del volere pratico e quindi subordinante i propri valori agli interessi e ai fini pratici (relatività dell'oggetto al soggetto), a sua volta relativizza e (almeno temporaneamente) subordina le finalità soggettive alla realtà oggettiva. . Ma ancor prima, per il Kant, l'unità dei valori si trova - e questa volta a priori - nella trascendentalità della forma, nell'idea pura. Schematizzando, è la medesima "ragion pura" quella che determina i valori etici come idee noumeniche, mentre determina le categorie, i concetti formali per la conoscenza reale. La ragion pura non è che il principio della conoscenza in genere, l'a priori per mezzo del quale affermiamo le "idee" e costruiamo i "concetti", in antitesi pratica o in accordo teoretico con l'esperienza. Tal principio, definibile come "dover essere" necessario e universale - che, applicato, diviene assolutezza e unità oggettiva -, come spinge il soggetto empirico al dover essere ideale, così dirige le esistenze sensibili alle unificazioni reali; è tuttavia evidente, che il reale è sempre un dover essere (uno e assoluto) dell'esistenze empiriche - che il reale è ideale -, e che, d'altra parte, il dover essere dev'essere in sè, oggettivamente (necessario e universale), dev'esser cioè reale... Anche il Bene, soggettivo, per essere, come vogliamo che sia, "vero bene", deve conciliarsi alla fine con la legge dell'universo (stoicismo), e il fine soggettivo deve coincidere coi valori universali. ... . ... 10. . È forse con ciò risolto il nostro problema, il problema del rapporto di soggetto a oggetto, di forma a contenuto, di pensiero a sensazione, di valore della realtà a realtà del valore? Sì, il Kant lo risolve, ma praticamente, unificandoli nel dover essere; teoreticamente, egli ne dichiara impossibile la soluzione, appunto perchè la conoscenza teoretica non può nè vuole superare l'esperienza; appunto perchè il noumeno, il trascendente, lo si deve affermare praticamente ma non lo si può conoscere teoreticamente, per concetti. Questa soluzione romantica appaga la fede, non la "dottrina" religiosa; e tanto meno la filosofia, la quale se, come accennammo, sente fortemente la spinta delle esigenze pratiche e dei valori umani, vuole però, appunto perchè umanesimo, razionalizzare gli stessi suoi sentimenti. Debbo però immediatamente soggiungere, che il Kant alla fine, nella sua estetica(4), avviò il romanticismo (e specialmente lo Schelling) alla soluzione anche teoretica del problema, e sarà questa la via che amplieremo nelle nostre conclusioni. Per intanto conviene sostare a ricapitolare le nostre idee. . Allorchè riflettiamo sulla nostra esperienza e sulla nostra scienza, dobbiam convenire (la necessità di questo "dobbiamo" è un sentimento di certezza obbiettiva da mettersi in discussione con tutto il resto: prendiamola dunque provvisoriamente) che tutta quanta si può ricondurre a un rapporto di soggetto a oggetto, implicito nella sensazione, esplicito nel pensiero in cui divien valore. Questo rapporto io lo chiamo "pratico" per definire così la natura o realtà esistenziale di tutti i valori che per esso si costituiscono; salvo l'obbligo che n'incombe poi di determinare lo stesso valore teoretico del concetto di natura rispetto alla soggettività o praticità essenziale del pensiero. . Ma in una pura sensazione, come quella dell'ipotesi a paragrafo 7, soggettività e oggettività coincidono e, per così dire (lo disse il nostro Galluppi), sono prova l'una dell'altra. Invero, una prima e unica sensazione d'amaro - e quindi ogni sensazione per sè stessa - non rappresenta ancora nulla, nè una cosa amara fuori di noi, nè una persona amareggiata da essa; non è una conoscenza (mediata). Se una statua acquistasse per prima quest'unica sensazione e fin che permanga, "amaro" non sarebbe altro che quello che è, ad "essere" qui non potrebbe significare altro che l'esser presente intuitivamente, l'esistere. "Sensazione", per esclusione di tutti gli altri valori, significa per tutti i pensanti appunto ciò: esistenza presente, esperienza intuitiva, esser noi l'oggetto stesso e viceversa (partecipazione al mondo). . L'esistenza sensibile, per es. questo amaro, bisogna infatti viverla (bisogna "esserla", direi!) perchè l'amaro sia amaro. Se con questo esempio facciamo un'ipotesi semplice, essa non è però astratta; anzi, vogliamo definire il concreto di tutti i valori, che per sè presi sono fini astratti e idee formali, Noi diciamo, è vero, che quella statua esiste prima d'aver la sua prima sensazione amara; essa esiste in sè e anch'essa è quello che è, molecola per molecola, atomo per atomo: tuttavia questa esistenza in sè (oggetto) è presunta, ed è presunta da noi che vediamo e tocchiamo la pietra e, prescindendo dal nostro soggetto (non dal vedere e dal toccare, prego!), la stimiamo esistente fisicamente, la conosciamo come realtà fisica. In mancanza di qualunque soggetto, l'esistenza di quella pietra sarebbe come se non fosse, ossia non sarebbe un "valore", nemmeno reale. Perciò appunto siamo ricondotti a cercare la realtà di quell'esistenza nel caso che la statua "si senta" esistere, e, prima che il bianco il duro il liscio ecc. divengano contenuti della conoscenza d'un altro soggetto che li oggettiva nel concetto di pietra esistente in sè, sia essa questi contenuti, esista sensibilmente. . La sensazione non è (soltanto) oggetto - lo dovrebb'essere per un altro soggetto -, nè (soltanto) soggetto - che non esisterebbe di nessun oggetto -; è il loro concreto rapporto, la coscienza originale. Non si tratta (lo debbo ripetere?) d'un rapporto oggettivo, come somiglianza e differenza, spazio e tempo, sostanza e causa ecc.: si tratta dell'antinomia pratica di sensibile (e) sentito, da cui dipenderanno poi anche quei rapporti teoretici, affermati o negati, necessariamente o condizionalmente, secondo la "modalità" con cui appariscono al soggetto, e resi così veri o falsi per mediazione conoscitiva. (Per prendere un esempio, la somiglianza è affermata come identità e negata come contraddizione nel giudizio oggettivante). . Nemmeno si deve intendere il rapporto sensibile di soggetto oggetto, e lo stesso "Antinomismus" in cui lo facciamo consistere (o meglio, "valere"), come una mediazione hegeliana de' due termini, che è già mediazione conoscitiva fra le relative idee di soggetto e oggetto affermate da un'autocoscienza che n'è ormai fuori. La mediazione dialettica è lo esplicarsi teoretico dell'antinomia pratica, ma non è più l'opposizione attuale (assoluta) implicita nel dato stesso, alla quale vogliamo qui risalire. . Analizzando la pura sensazione - senza superarla in rappresentazioni di qualcos'altro (nel qual caso analizzeremmo invece la percezione, la conoscenza) -, il sensibile resta quello che è, l'esistenza o presenza per es. d'un sapore amaro, ed è un non senso duplicarlo in un secondo amaro soggettivo, trasformazione altrettanto misteriosa quanto assurda del primo, che nel caso non esisterebbe. La "coscienza" di quest'amaro sensibile è il disgusto di tal sapore; meglio ancora - poichè un sentimento è la sensazione stessa (salvo a riferirla, in ciò, alla sua parte organica) -, la coscienza è l'antinomia del sentito nel sensibile, la praticità della sensazione di fronte alla sua stessa esistenza intuibile, il "principio" sentimentale (naturale) del volere. . "Ci accorgiamo" d'una sensazione perchè in qualunque modo la sentiamo, la soffriamo; sol per questo l'avvertiamo arche come esistente, la intuiamo realmente. La reciprocità di pratico e teoretico c'è già implicita nella coscienza sensibile e diviene il principio della conoscenza o pensiero esplicito. Che cos'è e che cosa vale una sensazione d'amaro quando non v'è altro che quest'amaro? Evidentemente, essa vale in quanto è spiacevole; il dolore è il valore pratico (soggettivo) dell'esistenza: valore, non perchè dolore, ma perchè questo spinge l'esistente a uscire di sè - come volere - e a "fare", ossia a mutare e divenire, realmente (oggettivamente) in quanto trovi le condizioni adatte, idealmente (soggettivamente) in quanto rappresenti un fine che trascende la sensazione, sua stessa esistenza. Ma nel contempo, quel dolore è coscienza intuitiva del suo esistere, come dell'ostacolo, della necessità reale, per es. dell'esserci un amaro, che vuol superare: è affermazione reale di ciò che nega sentimentalmente. . Pertanto, considerando, naturalisticamente, il "fatto" d'una sensazione, dobbiamo tuttavia ammettere ch'essa non è, come un atomo o una monade astratta, chiusa e finita in sè stessa; mentre si afferma (si scopre, si accetta) come necessità presente, vale dunque realmente per negarsi e trascendersi praticamente, come volontà e aspirazione all'essere totale e perfetto. Trascendenza e immanenza son termini psicologici e correlativi (non son termini ontologici): il primo indica il valore soggettivo e pratico dell'esperienza, il secondo la natura di tal valore, la sua esistenza sensibile. . Difatti, una sensazione è spontanea, è attiva: "diviene". Per restare alla semplicità del nostro esempio, il sapore amaro, in cui per ipotesi consisteva tutto l'essere della statua destata a vita, e con esso quindi l'essere universale (non esistendo ancor niente altro), produce, perchè spiacevole, un atto di difesa, ossia una seconda sensazione appagante. Come e perchè ciò avvenga di fatto - come la sensazione sia motoria - è problema biologico che a noi non interessa. Perchè il dolore della prima sensazione la "spinga" a mutarsi in altra, e come, in generale, il volere introduca un finalismo nell'ordine delle cause naturali producendo degli atti e, in genere, adoperando le forze naturali come mezzi a' suoi fini, è un problema che sembra insolubile sol perchè qui è insussistente. Qui, quel dolore e quel volere psicologico non sono una realtà esistente fuori della lor natura sentimentale e organica; scientificamente si tratta sol di chiarire le leggi biologiche dell'adattamento (memoria ed eredità) per cui un impulso si attua in una certa direzione. Il problema della finalità non è il problema del suo realizzarsi, del suo essere, ma quello del suo valore, del dover essere in antinomia alle condizioni reali del suo attuarsi; è un problema metafisico. ... . ... 11. . I valori impliciti nella sensazione - la presenza o esistenza sentita come necessità (intuizione reale) e la trascendentalità sentita come libertà (spontaneità del volere) - si esplicano nel pensiero, che li costruisce conoscitivamente in precetti e concetti oggettivi e in idee e norme soggettive. Il passo non è tanto difficile quanto la psicologia delle facoltà occulte può far credere: basta che una sensazione non possa uscir di sè stessa e divenire una nuova sensazione appagante, basta che il volere incontri un limite - e la nostra esperienza, per quanto ricca, è sempre limitata perchè sensibile -, ed ecco che s'accende la luce dell'intelligenza che ci aiuta a varcar quei confini, prima praticamente poi teoreticamente; ecco che il volere si attua in volontà e cosciente e o meglio conoscente (mentre che l'atto pratico si muta in attenzione o atto teoretico) e si rappresenta il fine oggettivo come si rappresenta l'oggetto stesso. . La costruzione percettiva degli oggetti è così remota e abituale che, come osservò il Kant, noi non ce ne accorgiamo più, ossia non ne sentiamo lo sforzo attentivo e la soddisfazione del risultato raggiunto; perciò, di solito, il pensiero si fa cosciente di sè nel caso opposto, allorquando è la ricchezza stessa dell'esperienza umana e civile quella che c'induce a una valutazione e a una scelta fra i plurivoci oggetti o fra i plurivoci fini del nostro desiderio; ovvero quando, come nel caso della scienza e del sapere disinteressato, mettiamo in dubbio le nozioni già possedute, in quel "thaumàzein" aristotelico, in quel contemplare e dubitare, a cui segue quale attività appagante l'"exetàzein" dell'investigazione oggettiva. . Ma, per il nostro discorso, che vuol essere schematico per riuscir chiaro, basta che una sensazione esista e permanga perchè si dualizzi e divenga pensiero, facendosi, per così dire, contenuto a sè stessa. Ora, che cosa dobbiamo intendere per forma e contenuto del pensiero? Questi termini, forma e contenuto, sono particolari della logica, ossia del pensiero teoretico, dove, come vedremo, vanno intesi come condizioni astratte del pensare piuttosto che come realtà del pensiero esistente nella lor unità di fatto. Parlandone in concreto, è meglio parlare di fini e valori, perchè questi termini riguardano appunto la sua natura pratica e soggettiva. . Se una sensazione amara permane invece di trasformarsi automaticamente in altra di sollievo, il volere - e cioè il sentimento di questa sensazione in quanto è impulso ad uscirne -, non trovando un atto, ch'è poi una nuova sensazione (motoriale) appagante, la cercherà, rappresentandosela, almeno, come non amaro: negando l'amaro. E, in generale, il volere si rappresenterà il fine (la felicità soggettiva, il bene oggettivo) almeno negativamente, rifiutando l'esistenza presente; nel che già si contiene un giudizio di valore, sia questo espresso nell'urlo del ferito come nella protesta ascetica del misticismo filosofico attingente Dio per negazione di tutti gli attributi finiti. . Negando (rifiutando, svalutando) la sensazione, s'afferma la volontà, il soggetto, ma lo si afferma come fine e valore, i quali, praticamente, coincidono. La rappresentazione, almen negativa, d'una finalità trascendente il sentito è fondamento del criterio per valutare e scegliere i mezzi, cioè a dire per valutare (conoscenza pratica) l'esperienza sensibile: nel caso più semplice, negandola; nel caso abituale, che presuppone la precedente esperienza, subordinandola a una norma in cui ci rappresentiamo il volere, il soggetto. Intendo dire, che la conoscenza pratica relativizza l'oggetto - a sua volta relativo al sensibile - al soggetto; e in quanto anche la conoscenza teoretica è volontaria e pratica, ponendo il suo fine in un dover essere in sè del dato sensibile, si spiega perchè chiami poi soggettivo il sensibile: soggettivo in relazione all'oggetto assoluto, al dover essere trascendente che "noi" postuliamo. Le due relatività s'invertono dai due punti di vista della conoscenza, pratica e teoretica. . Ma, per venire a quest'ultima, pur rimanendo alla nostra semplificazione schematica, mentre che il volere rifiuta e nega praticamente la sensazione, affermando per antinomia il soggetto come fine e valore, afferma anche teoreticamente l'oggetto come necessità esistente, alla quale la sua spontaneità non si vuole ma si deve adattare. Un sapore amaro apparisce necessità presente, "esterna" al volere (perchè non lo vorrebbe), "objectum" a quel suo stesso sentimento ch'è "subjectum" per il volere. Così sorge la conoscenza teoretica. Stringendo le somme, questa non è che la conoscenza dei limiti della conoscenza in universale, ossia del voler conoscere (pratico), come ha visto la filosofia della "docta ignorantia". . Infatti noi distinguiamo la conoscenza teoretica (l'"intelligenza", come si diceva una volta) dal pensiero pratico (la "volontà") proprio perchè nella prima il valore sembra non coincider più col fine, l'uno essendo oggettivo e reale (universale e necessario) in confronto dell'altro, che quindi appar soggettivo e ideale. Se percepisco l'amaro coma una cosa amara, o se lo concepisco come p. es. la proprietà chimica d'una materia e simili, se cioè mi rappresento il sensibile in una unificazione oggettiva nella quale esso acquista il valore di reale, questo valore non coincide più affatto col fine soggettivo, rappresentato negativamente dal non amaro e positivamente dal dolce o da altra simile idea del desiderabile; anzi c'è antitesi fra i valori pratici che amaro e dolce prendono nel giudizio di valor pratico - dove sono contenuti di una forma soggettiva (finale), che li accetta o li rifiuta secondo la loro convenienza e relatività al fine del volere e ciò che pur si deve chiamar valore (e lo diviene per eccellenza), il valore di realtà, che come esistenza necessaria s'oppone alla libertà del fine desiderato. . È questo un punto delicatissimo, che richiede tutta la nostra attenzione. Anche la realtà, l'oggettività d'un oggetto dato - per es., almeno, la necessità di questo amaro -, quantunque non si concilii con l'attuale fine soggettivo, esplicitamente pratico, è tuttavia un valore in rapporto al soggetto volontario. Lo è implicitamente, di fatto, perchè dolore di quel piacere ch'è fine del volere empirico; lo è esplicitamente, come "costruzione" conoscitiva, che trascende il dato sensibile, come i fini pratici trascendono il dato sentito. . La prima realtà (teoretica) di quest'amaro è la sua necessità o presenza, che immediatamente vale - per il volere che la vuol trascendere "a parte subjecti" (dalla parte del sentimento) - come una alterità, un dover essere indipendente dal sentimento stesso volente, e quindi una trascendenza "a parte objecti". Il sensibile è esistente se esiste in sè; è esistente perchè deve esistere per esser presente; la conoscenza del suo essere dipende dunque da un postulato a priori, la "cosa in sè" kantiana, e tal valore a priori non è che la coscienza dell'assoluto, col quale il volere empirico si sente però connaturato e parte limitata nella sensazione. . Inoltre, proprio per questa coscienza del dislivello fra l'esistere e l'essere - fra l'essere esistente e la sua conoscenza come dover essere in sè -, la conoscenza teoretica si rappresenta le cose e i fatti nelle unificazioni percettive e concettuali, che postulano l'unità del dover essere, ciò che il Kant chiamava "appercezione trascendentale", valore a priori che sta a fondamento di tutte le categorie. Ma postulato significa finalità: quella finalità che trascende anche i fini pratici empirici e li comprende, tanto che li limita nella conoscenza teoretica e li dirige come attività unitaria teoretico pratica. La questione dunque verte soltanto sul fatto, che i fini stessi (e le corrispondenti attività) si antinomizzano anche nel pensiero: l'uno, relativizzandosi all'esistenza, forma i percetti e i concetti dell'essere; l'altro, riguardo allo stesso esistente, ma in antitesi pratica, forma le idee del dover essere, alle quali il primo si relativizza. Anche i concetti reali sono deontologici; ma il pensiero ritornando dalla pratica alla teoretica per conoscere, per comprendere anche sè stesso come parte dell'essere, per razionalizzare i suoi stessi fini pratici - come già praticamente vi deve ritornare per "fare", per trasformare il reale per mezzo delle stesse sue leggi obbiettivamente conosciute -, trova che il suo relativizzarsi al sensibile, l'esperienza, per quanto limitata e parziale, è tuttavia l'unico modo per realizzare il soggetto, per provare il valore di un fine, per "scoprire" in natura quell'unità che garantisca l'unità del dover essere, che ognuno potrebbe "inventare" con una formuletta qualunque, totalmente a priori, come in logica o in matematica. È questione di dar valore a una parola o ad un segno (p. es. al segno =); ma anche questo è un sensibile: perchè, a che condizioni può acquistare un valore reale? . Le unificazioni reali nei concetti di natura, e in generale la conoscenza teoretica, riducendo il soggetto a oggetto, e riportando le finalità soggettive alle leggi oggettive, non uccidono lo spirito, la trascendentalità del valore? E in tal caso, come potranno esse medesime essere valide? Non sono prodotti di quel soggetto, di quel pensiero, che unifica i sensibili appunto perchè li ha trascesi, appunto perchè è pensiero e non sensazione? La filosofia, a queste eterne domande, non può rispondere che ripiegandosi sopra il pensiero stesso teoretico e diventando gnoseologia. ... . ... CAPO 3. L'INTELLIGIBILITÀ DEL SENSIBILE. ... . ... 1. . Per partire da qualcosa di universalmente noto, prenderò le mosse dalla soluzione kantiana del problema su l'intelligibilità del mondo sensibile, della quale la mia non è che un approfondimento. Secondo il Kant, i sensibili, in sè stessi, sono dati arazionali e ciechi, che divengono intelligibili solamente in quanto li facciamo contenuto delle forme del pensiero teoretico. Perciò, seguendo il Kant chiedersi che cosa sia una sensazione in sè stessa - se, per esempio, sia soggetto od oggetto; e cioè chiedersi di che natura essa sia -, è una domanda teoreticamente mal posta; giacchè i concetti di realtà soggettiva e oggettiva, di cosa e di atto, di natura e di spirito ecc., ce li formiamo noi sopra l'esperienza empirica nelle sintesi conoscitive, e non li possiamo predicare dei puri contenuti sensibili, da cui sono condizionati. Sarebbe come chiedere di che natura è la natura al che non si risponde che ricominciando da capo il processo stesso dell'unificazione dei sensibili nelle categorie logiche di sostanza e di causa, che immediatamente li trascendono. Posto ancor peggio sarebbe il problema, ove si ricercasse un rapporto di causa tra il soggetto conoscente e il sensibile conosciuto oggettivamente, quasi che il soggetto conoscesse il mondo sensibile attuandolo; laddove si deve contentar di scoprirlo, e di scoprirlo sol in minima parte, come fenomeno, di cui la necessità trascende all'infinito la nostra conoscenza. . Voglio dire che il Kant non intende la relatività conoscitiva - il rapporto fra i dati sensibili e l'intelletto - come un rapporto fra enti o sostanze già tali in sè, quali l'estensione e il pensiero del dualismo cartesiano (la materia e lo spirito, il corpo e l'anima del realismo metafisico): paralogismo evidente, che applica i concetti formati nella conoscenza, e cioè nell'unità di sensibile e intelligibile, a questi due elementi astratti e presi in sè, prima e fuori della sintesi conoscitiva, rendendoli così due enti assoluti e ormai irrelativizzabili, salvo l'intervento del buon orologiaio che li metta d'accordo. Ma neppur si tratta di relatività fra due gradi o momenti della conoscenza, prima sensibile e poi intelligibile, relatività interna al soggetto già fatto coincidere col processo conoscitivo, come presso il posteriore hegelismo: nel qual caso sorge l'altra aporia del perchè il soggetto universale si oggettivi come oggetto particolare sensibile; e del come la ragione, attività pura che per legge propria si vuol oggettivare liberamente e universalmente, sia costretta a soggettivarsi nella sensazione di questo ciottolo che urto col piede. . Per il Kant, la relazione in questione è quella di forma e contenuto, puramente gnoseologica - non, aristotelicamente, metafisica -, ottenuta astraendo, per analisi delle idee, i due elementi, o meglio le due condizioni necessarie a formarle come idee reali in concreto (concetti). Perchè due? Perchè, psicologicamente considerata, la conoscenza appar sempre dualistica, è conoscenza di qualche cosa, è soggetto di qualche oggetto: per cui, spogliando il primo degli oggetti conoscibili dall'attività conoscente (e togliendogli così il valore oggettivo che questa gl'imprime) si ha la pura sensazione, il cieco a posteriori; e privando degli oggetti conosciuti l'ultima delle categorie unificatrici, ossia conoscenti (annullando nel contempo anche la sua natura soggettiva, dovuta all'esser pur essa un concreto attuarsi) rimane la pura forma, l'assoluto a priori. Sotto un tal punto di vista, dire, col relativismo, che la sensazione è soggettiva, significa soltanto dire ch'essa, nel processo conoscitivo, si relativizza al soggetto conoscente, il quale a sua volta è oggettivo, ossia la oggettiva nell'idea per es. di sostanza (di una cosa) o di causa (di un fatto): "soggettivo" e "oggettivo" indican qui soltanto il rapporto gnoseologico, il valore conoscitivo, non la natura della sensazione in sè e del pensiero in sè. Questa, per il Kant, è impossibile conoscerla, i due termini astratti uscendo fuori del pensiero concreto, che si costruisce i concetti di natura nella lor coerenza reale; la possiamo sol postulare, dicendo che ci dev'esser una cosa in sè, la quale ci dà i contenuti sensibili che alla conoscenza s'impongono a posteriori fenomenicamente; come ci dev'essere una coscienza generale assoluta, una ragion pura a priori, che si attua come nostra empirica conoscenza; e aggiungendo infine (nella Critica del Giudizio) che i due mondi assoluti del sensibile in sè e del sovrasensibile debbono coincidere. Ma per la critica della conoscenza basta aver determinato i due termini, sensazione e intelletto, non come sostanze o nature, trattandosi appunto di comprendere in che modo questi ultimi concetti si formino; nè come momenti della medesima attività (la conoscenza sensitiva è già percezione, la conoscenza intellettiva è giudizio); ma come condizioni del formarsi dei concetti reali, ossia del valore conoscitivo d'una percezione e d'un giudizio. . Resta, si capisce, da metter in questione lo stesso rapporto di forma e contenuto e della lor essenziale unità o dualità; ma ciò riguarda ormai la metafisica, non la gnoseologia. Il Kant (s'è già detto) non ha reso "impossibile" ogni metafisica: sarebbe come dichiarare impossibile il pensiero e la filosofia stessa: egli ha dimostrata impossibile una metafisica intesa come conoscenza teoretica, ossia fenomenica (ossia contraddittoria), e perciò ha segnato i limiti e le condizioni di questa proprio in quelle idee pure - l'idea di essere come pura esistenza necessaria, a cui corrisponde la sensazione in sè; e l'idea del dover essere come potenza assoluta, che corrisponde alla forma pura - le quali, non essendo più "concetti", non sopportano le mediazioni delle categorie logiche dell'esperienza, che anzi da esse dipendono; ma si realizzano immediatamente (intuitivamente) come valori puri. Questo firmamento scintillante sopra il mio capo, posso dire che deve esistere in sè - e quindi devo pensarlo assolutamente -, perchè la sua necessità è immediata e intuitiva (carattere, ossia valore dell'esistenza per sè stessa, cioè sensibile); invece teoreticamente parlando sussumo queste luci a rappresentazione di un particolare oggetto o soggetto, che vengo formando secondo le relazioni dei sensibili fra di loro e col mio stesso conoscerli. Si noti bene: le costruzioni teoretiche (e, infine, la scienza) servono appunto a razionalizzare l'esperienza formando concetti dell'essere che salgano ad accordarsi col dover essere metafisico e intuitivo, che n'è l'a priori, la ragione estrema; ma non si risolveranno i problemi filosofici se prima si confondono i valori relativi del conoscer teoretico con la loro ragione assoluta. . I problemi circa l'intelligibilità del mondo sensibile sono dunque due: il primo riguarda il sensibile come natura; in quanto cioè ce ne formiamo questo concetto nell'esperienza e nella scienza che prolunga e approfondisce (ma anche particolarizza) l'esperienza: è pertanto un problema poetico, che parte già dal doverci essere un in sè del sensibile come esistenza assoluta, alla quale dunque tutto il nostro conoscere di essa si relativizza e in certo modo s'adegua, pur mentre riconosce relative a sè e in tal senso soggettive tali adeguazioni concettuali. Il secondo problema riguarderà invece il valore stesso dell'esistenza sensibile in sè ed è un problema metafisico. Da questo punto di vista la natura apparisce come uno dei valori del pensiero, quello teoretico, come dal punto di vista teoretico il pensiero è un modo della natura. L'intelligibilità del sensibile va quindi criticata due volte, prima nel fatto, come concetto di natura che si costruisce sensibilmente (empiricamente) sui sensibili; poi nel dritto, come dover essere assoluto del mondo sensibile in accordo col pensiero che così l'afferma. ... . ... 2. . Tutte le idee che noi ci veniamo via via formando intorno al mondo sensibile si unificano nel concetto di natura: l'esistere sensibile si trasforma in essere reale, concettualmente, e cioè come valore (logico). Tal concetto, sia esso primitivo e ingenuo, qual è il concepire il mondo la semplice contiguità dei sensibili raggruppati nello spazio e nel tempo, secondo che l'abitudine ce li presenta; sia esso evoluto e approfondito, qual è il naturalismo scientifico e filosofico, possiede sempre il carattere gnoseologico (ossia il valore conoscitivo) d'un realismo oggettivo. La natura è pensata oggettivamente reale, ossia esistente in sè, assolutamente, per quanto relative e limitate sian le conoscenze che ne possiamo acquistare. In altri termini, la natura ci apparisce natura a condizione che sia concepita come indipendente da noi, che pur siamo quelli che la giudichiamo tale; e che il nostro signor Io si tolga di mezzo. . Tutta la metodologia scientifica ha per intento null'altro che questo: eliminare il soggetto per adeguare la conoscenza all'oggetto in sè. Adunque il naturalismo, e, in ultima analisi, tutta la conoscenza in quanto teoretica, accetta il relativismo conoscitivo nel senso d'un principio - o almeno d'un cànone per la ricerca - del tutto opposto al relativismo psicologico: è la conoscenza che si deve relativizzare al mondo sensibile, unificando le sensazioni nel concetto di natura; ogni sapere oggettivo deve formarsi su l'analisi dell'esperienza empirica, della quale la successiva sintesi non è il soggettivarsi dei contenuti nella forma conoscitiva, ma un oggettivarsi di questa nel concetto di quelli. Del resto, per il naturalismo, la stessa attività conoscente e, in generale, il soggetto psichico devon essi rientrare a far parte della natura e non viceversa. S'intende che non è il caso d'allucinarsi nello spavento del materialismo: la natura intesa come materia è uno dei momenti in cui s'è affermato il naturalismo nel suo sviluppo, specialmente sotto l'influenza del progresso delle scienze fisiche, tranquillizzato del resto dal dualismo filosofico, o almeno dal parallelismo psico fisico; ma oggi, come vedemmo, quasi del tutto oltrepassato anche nel pensiero occidentale. In ogni modo, l'opposizione di natura e spirito è pratica e metafisica (è immediata, nell'atto del pensare); teoreticamente, la natura e lo spirito devon essere una sola realtà, e diviene indifferente chiamarle con l'uno e con l'altro nome. . Ogni conoscenza teoretica, empirica o scientifica che sia, costruisce il sapere oggettivo (i concetti di natura) su l'analisi dell'esperienza sensibile. L'esperienza sempre si presenta come un'unità già data, una sintesi concreta sensibile. Il Kant giustamente chiama questa sintesi "a posteriori", per distinguerla dalla sintesi "a priori" e dall'unità del pensiero, ch'è tutt'altro discorso, perchè riguarda il valore conoscitivo nell'atto del conoscere e non i contenuti dati alla conoscenza. . In qualunque istante io incomincio o ricomincio ad esercitare la mia attività conoscitiva, io trovo un'unità già data e presente, sia essa la semplice contiguità di forme colori suoni..., ossia di quelli che poi diremo (analizzando questa unità) gli "elementi sensibili" o sensazioni astrattamente prese - giacchè la distinzione e individuazione del molteplice viene dopo e non prima della sintesi a posteriori, essendo effetto della stessa conoscenza che distingue e individualizza per (meglio) unificare -, o sia già, quell'esperienza, un'unità raggiunta da precedenti atti conoscitivi, un'unità percettiva o intellettiva. Anche in questo secondo caso, il mondo quale ci si presenta (e noi stessi nel mondo) è attualmente a posteriori, un dato di fatto rispetto al pensiero che lo vuol (meglio) conoscere, e ne resta fuori come pensiero attuale: un'unità concreta, ripeto, come esistenza o vita o comunque si voglia poi criticamente giudicare, pur di non confondere, anche qui, col concreto filosofico, e anche se implica precedenti (e dunque passati) valori intelligibili, ormai esistenti come vita mondo senso. . Quando apro gli occhi al mattino, la mia stanza è la mia stanza, perfettamente una e assolutamente a posteriori. Mi si conceda di poter chiamare sensazione, non un elemento astratto (idea di sensazione, come un verde, un suono ecc.), ma l'assieme di tutto ciò ch'è presente, contiguo nello spazio e nel tempo: tutto, queste forme e colori degli oggetti, questa voce che giunge dalla via, i moti de' miei occhi, gli "stati d'animo" che insieme provo... Ciò è presente, esiste, intuitivamente: è l'esperienza, non è la conoscenza; a meno di voler confondere di nuovo il discorso, e chiamar conoscere l'essere, perdendo la ragione di distinguerne un conoscere propriamente detto. Per me, il conoscere in senso proprio è un atto - che poi scientificamente (psicologicamente) scioglieremo in un rapporto - il quale fa parte dell'esperienza stessa, e perciò è intuito sensibilmente (non si può conoscere senz'accorgersi di conoscere); ma è conoscere in quanto òpera su l'esperienza (e perciò anche sopra sè stesso, come stiamo facendo), superandola (trascendendo il dato e sè stesso come esistenze empiriche). Per esempio, la lucentezza di quello specchio in sè medesima non è il conoscere, come non è conoscere il mio atto (sentito) di fissarla, tutte sensazioni presenti intuibilmente, direttamente: il conoscere consiste nell'adoperare queste sensazioni come rappresentazioni, conoscendo o riconoscendo (se già lo sapevo) quella lucentezza come la rappresentazione della luce riflessa e quell'atto come rappresentazione del mio conoscere. . Con un po' di pazienza riusciremo, spero, a chiarire perfettamente una materia resa così intricata da tanti secoli di discussioni. Il più difficile è convenire sul punto di vista della questione. Qui si tratta, ripeto, di analizzare l'attività conoscitiva, allo scopo di vedere in che maniera essa renda intelligibile il mondo sensibile nei concetti teoretici di natura. Ora io desidero che risulti ben evidente il fatto, che la conoscenza teoretica non conosce il sensibile in quanto sensibile, intuitivo o presentativo che dir si voglia, ma lo conosce in quanto le rappresenta un valore reale, l'idea concettuale, costruita sopra la sua analisi. La filosofia contemporanea, avendo di nuovo identificato la intuizione sensibile, il presentarsi, "l'esserci" del reale, coi valori rappresentativi della conoscenza, affermando che il primo è già un conoscere (soggettivo), ci costringe a questo lavoro di Sisifo; presso i più profondi filosofi precedenti la questione era decisa: per es. in Spinoza l'"intuitio" è tutt'altra cosa dalla conoscenza teoretica, dalla "ratio", essendo pensiero metafisico, ossia unità immediata e assoluta del soggetto empirico con l'Essere sostanziale; nel Kant, l'intuizione sensibile è condizione e divien contenuto del conoscere teoretico, per il quale è assolutamente a posteriori, mentre in sè, noumenicamente, dev'essere assolutamente a priori; presso Schopenhauer, il volere pone il mondo come rappresentazione (conoscenza), quel mondo che essenzialmente, è volontà, sensibilità inconscia ecc. . Il primo attuarsi d'una conoscenza teoretica non è la sensazione, è la percezione; non è, in quanto conoscere, un'esistenza sensibile, ma la valutazione più ovvia dei sensibili come cose e accadimenti, secondo la costanza abituale delle lor contiguità spaziali e temporali conservata dalla memoria: vedo questa stanza come profonda e perciò m'avvio all'uscita; ossia giudico la sensazione attuale visiva - semplice "soggetto" del giudizio, semplice "dato" dell'analisi - come rappresentativa della profondità che le inerisce come la proprietà ch'or m'interessa. . Questo, almeno questo, è il più semplice conoscere, comune agli animali se il giudizio resta implicito e pratico e non va oltre le rappresentazioni di mera contiguità; ma affermare che il sensibile come sensibile è già un conoscere, è un controsenso, riuscendo logico soltanto l'opposto, la natura del conoscere esser sensibile, discorso psicologico e non critica gnoseologica dei valori conoscitivi. La gnoseologia riguarda l'attività conoscitiva sempre nel rapporto di forma e contenuto, caso teoretico del rapporto generale di soggetto e oggetto (volere). La gnoseologia non può fare a meno della dualità dei termini in cui si attua il conoscere perchè sia un conoscere reale: in questa dualità la sensazione è l'ultimo dei contenuti, l'a posteriori assoluto, e non può dunque esser conoscenza (salva la riduzione metafisica di tutto l'essere a idea); come l'attività conoscente pura è la suprema delle forme, la semplice potenza unificatrice dell'esperienza, l'assoluto a priori (salva la riduzione psicologica a un particolare reale sensibile): la gnoseologia deve definire i valori conoscitivi in questa reciprocanza di forma e contenuto, e non ne può uscire senza risolversi in metafisica o in psicologia. . La noètica considera dunque il conoscere, per dirla col Locke, come un'"operazione" del soggetto conoscente su l'oggetto conosciuto, lasciandoli ambedue indeterminati in sè stessi, per determinare il valore che in tale operazione si realizza. La forma comune n'è il giudizio, posizione di valori - in che sta l'unità di pensiero pratico e teoretico -; la logica (formale, essendo la noètica una logica reale) s'impadronisce di questa forma e, considerandola in sè medesima, la distingue nei vari modi e categorie di giudizi e ragionamenti. Ma, gnoseologicamente parlando, istituendo cioè una critica del giudizio, una sola rimane la forma dell'operazione conoscitiva: essa è un'analisi del dato; come uno solo è il valore logico della conoscenza: la sintesi oggettiva (a priori). Esse si posson ritrovare nel più spontaneo percetto come nel più elaborato concetto, ma non prima, nell'intuizione sensibile, nè dopo, nell'intuizione metafisica. ... . ... 3. . Il Kant, come tutti ricordano, distingueva tre forme del giudizio: sintetico a posteriori, analitico e sintetico a priori. La distinzione è didattica; in realtà, si tratta sempre del medesimo giudizio veduto ora dalla parte del dato, ora da quella dell'operazione in sè, ora infine dalla parte del valore obbiettivo che il giudizio a posteriori acquista per opera della sintesi a priori, salva la maggior importanza che il primo assume nei giudizi empirici e la seconda nei giudizi astraenti. Dire che i reali empirici si uniscono in una sintesi a posteriori - e cioè senz'alcuna necessità logica, senza ragione e quindi senza obbiettività - che significa? O è una constatazione del fatto, del trovare p. es. l'oro giallo pesante lucido ecc., unità delle sensazioni contigue che costituisce l'esistenza del dato e come tale s'impone, punto di partenza e condizione a posteriori di quel conoscere, ch'è destinato proprio a oggettivare queste contiguità sensibili in concetti universali e necessari, ossia, infine, a spiegarle e a razionalizzarle: e in tal caso non si definisce una forma del giudizio ancor inesistente ma s'afferma semplicemente l'unità empirica del sensibile; oppure si vuol dire che la conoscenza, la prima empirica conoscenza, percepisce, riconosce la costanza obbiettiva di quelle contiguità spaziali e temporali, giudica cioè l'oro realmente giallo pesante ecc., o dal vederlo giallo inferisce che quel dato dev'essere pesante essendo oro, e allora siamo già nel conoscere induttivo o deduttivo, ossia siamo già nel valore a priori del giudizio esistenziale. Un giudizio a posteriori è una contraddizione in termini proprio per effetto della critica kantiana. . Ma forse è meglio sviscerare completamente questa, per quanto arida, questione delle forme dei giudizi teoretici, se ci vogliamo dar conto del solo modo con cui la ragione può render intelligibile il mondo sensibile. . In noètica, allorquando diciamo "ragione", non alludiamo a una misteriosa facoltà psichica, causa occulta del conoscere, e quindi... irrazionale; vogliamo soltanto affermare in universale il valore conoscitivo, definendolo come un principio formale, una categoria, che condiziona la conoscenza o attività concreta del pensiero. Tal principio è l'unità, l'"uno e tutto" degli antichi, che in logica si esprime come principio d'identità: l'esperienza empirica, l'esistenza, è il fiume eracliteo dei sensibili; la ragione tende ad unificarli sempre più fino all'Essere, alla sostanza una e identica di Parmenide e di Spinoza. Questa è la sua funzione: non crea alcun contenuto sensibile, unifica i contenuti nelle idee in sintesi vie più alte, ciò che può fare sol in quanto presuppone il principio d'identità come dover essere in sè; principio dunque a priori, trascendentalità del pensiero anche conoscitivo. . Nell'esperienza temporale nulla v'ha d'identico e tempo significa variazione. Ragione significa invece identificazione, espressa col verbo è che nel giudizio trasforma conoscitivamente l'esistere già dato del "soggetto" nell'essere pensato del "predicato". Obbediamo a un'esigenza, a un dover essere, che psicologicamente non è altro che un fine, il fine teoretico del nostro volere, esprimentesi come modalità del giudizio (infatti l'esser il giudizio problematico, assertorio o apodittico non significa altro in fondo, che il nostro stato d'animo rispetto alla possibilità, o evidenza, o necessità morale d'una unificazione). Esso fine ci spinge ad affermare o negare (qualità puramente logica del giudizio), in particolare o in generale (quantità del giudizio secondo i contenuti, da non confondere con l'universalità della forma) la realtà d'una cosa, il suo esser identica a sè stessa in quell'attributo, oppure la causalità d'un evento, ossia l'identico rapporto nel divenire. . I quattro principii della logica e le quattro categorie kantiane della gnoseologia si riducon pertanto a un sol principio formale del conoscere, che conosce in quanto unifica tutte le relazioni dell'esperienza, scoperte nei contenuti sensibili, ispirandosi per così dire a un'unità e identità assoluta, ch'è un postulato a priori, un dover essere ideale, del tutto simile ai postulati della pratica. Esso è condizione della conoscenza, è la ragione del conoscere: ragione in sè metafisica, e quindi soggetto a condizione che sia in sè anche oggetto, unità dell'essere che si rivela a sè stessa nell'unità di coscienza. La chiamiamo soggetto perchè si attua come esigenza soggettiva e attività teoretica in particolari nostri giudizi, ma ciò è molto pericoloso, poi che c'induce facilmente a credere che sia soggettiva anche nel valore, ossia nel principio formale, che dev'essere oggettivo e assoluto: trascendentale, appunto. . La ragione, il principio, si attua nell'intelletto, o facoltà del conoscere teoretico, capacità soggettiva di conoscere oggettivamente. Il concreto di questa astrazione, l'atto di questa potenza, è il giudizio, posizione di valori, identificazione di termini in un rapporto, espresso verbalmente in una proposizione, che diviene così il fenomeno del valore noumenico, l'atto sensibile della ragione intelligente; oppure implicito e sottinteso in un qualunque altro atto pratico diretto dal pensiero. Il giudizio è atto conoscitivo perchè giudica il dato empirico come rappresentazione di un valore, teoretico o pratico, reale o ideale. Restiàmo al primo, al valore reale: il giudizio teoretico, in che modo, per dirla col Kant, è costitutivo dell'esperienza? Esso non l'inventa, la trova, sensibilmente, come dato esistente, e prende questa esistenza - di cui esso medesimo, in quanto atto volontario, fa parte - prima di tutto a rappresentazione della cosa in sè (cioè la prende come esistenza reale, oggettivamente). . La cosa in sè è un puro pensabile, un dover essere: ci dev'essere una realtà in sè del sensibile, una sostanza o causa assoluta in cui il fenomeno s'identifichi con l'essere in sè del mondo, la quale non è dunque confondibile con la causalità naturale entro cui colleghiamo i fenomeni, ma è il postulato, la ragione o, se preferite, la condizione per cui quei collegamenti hanno un senso, un valore logico. Come si può esser morali soltanto a condizione che esista l'autonomia e libertà morale, benchè questa, considerata in sè, non è un fatto ma un postulato della ragion puro pratica, così, pensa giustamente il Kant, si può conoscere oggettivamente a condizione che esista una cosa in sè, quantunque essa non sia un conoscibile, ma un postulato necessario della conoscenza. A questa identità assoluta dell'essere con sè stesso, a questa "causa sui" spinoziana, a questo universal valore è rivolta tutta e sempre l'attività teoretica, sebbene mai lo possa adeguare: le unificazioni parziali, dalla percezione al concetto, dal giudizio individuale e definitorio al giudizio indotto o dedotto, non son che gradi e passi su quel cammino, per mezzo di parziali identificazioni che permettano sintesi vie più comprensive od estensive, ma che ineluttabilmente rinviano all'unità trascendentale sopra accennata. . L'atto teoretico, il giudizio, non è ora sintesi e ora analisi: gnoseologicamente (ossia nel valore) è sintetico; logicamente (ossia nella forma dell'operazione conoscitiva in sè) è analitico. Il giudizio teoretico è un'analisi che condiziona il passaggio da un'unità già data (sintesi a posteriori) a una nuova unificazione conoscitiva (sintesi a priori). Dal percetto al concetto, che ne sono i risultati, il sensibile - presente nella forma d'una sensazione o immagine del primo, e nella forma d'una parola (ch'è poi una sensazione simbolica) del secondo - conoscitivamente è sempre una rappresentazione di quell'unità raggiunta intelligibilmente, divenendo esso medesimo, sol in tal modo, intelligibile: mentre rimane inconoscibile in sè, quantunque presente, il principio stesso razionale, l'unità e identità dell'essere, che rende possibili le unificazioni nei percetti e nei concetti. ... . ... 4. . "Tutti i corpi sono estesi" è, secondo il Kant dei Prolegomeni, un giudizio analitico, perchè io, quando così affermo, "non ho punto arricchito il mio concetto di corpo, ma l'ho solamente analizzato, in quanto l'estensione era già implicitamente pensata in quel concetto, sebbene non messa in rilievo". Adunque per il Kant sono analitici quei giudizi che, come aveva detto nella prima edizione della R. P., "non ampliano il nostro conoscere, ma scompongono e rendono a noi intelligibile il concetto già posseduto". Ma il concetto, la conoscenza teoretica, non son essi l'intelligibile? E il giudizio "Ogni accadimento ha la sua causa", citato qui dal Kant ad esempio d'un giudizio sintetico a priori, non è esso al pari del precedente ugualmente analitico e sintetico a seconda dei punti di vista? In verità, questa distinzione non riguarda differenti forme del giudizio, ma è una distinzione di gradi: il primo è un giudizio empirico, d'esperienza; il secondo, un giudizio puro, una proposizione generale di categoria astratta. . Vediamo meglio, restando quanto più è possibile fedeli al Kant. L'intelletto non è specchio passivo e recettivo d'una verità già data; è attività formativa dell'esperienza stessa come reale, e la realizza appunto ogni volta nell'atto teoretico, nel giudizio: questa, come tutti sanno, è la "rivoluzione" kantiana. Si tratta perciò di riflettere, in che maniera il giudizio sia costitutivo del vero come reale. Ciò avviene perchè il giudizio trasforma un contenuto, un dato esistente - esistente almeno e prima di tutto come sensibilità e vita immediatamente intuita, oggetto gnoseologico (psicologicamente diviene un soggetto) che ci dev'essere per conoscer qualcosa; come ci dev'essere un soggetto gnoseologico, un principio unificatore formale (che metafisicamente divien l'oggetto assoluto) -, lo trasforma, dico, in concetto, predicabile a priori di quei contenuti come lor attributo essenziale e razionale. Il più semplice giudizio esistenziale, per es. "Questo (bianco) è bianco", individuale e contingente, non meno del giudizio generale e categorico dell'esempio kantiano. "Ogni accadimento ha la sua causa", ci rivela il valore formale dell'atto conoscitivo, la sintesi a priori, per cui un concetto si costruisce e il sapere aumenta. . Evitiamo, prima di tutto, d'intendere l'arricchimento del sapere, chiamato sintesi dal Kant, come aumento del numero dei contenuti a posteriori, che riguarda l'ontologia e non il valore gnoseologico (l'aumento di verità) che i contenuti acquistano nell'atto conoscitivo. "Questo è bianco" è una sintesi a priori perchè prende un dato empirico, che fa da soggetto della proposizione, e lo afferma oggettivamente reale, carattere reale (identico a sè stesso) della mia esperienza, attributo essenziale di questo esistere, che d'ora in poi ne diverrà l'idea, il vero, se nuovi giudizi non la modificheranno in nuove sintesi. È il modo del giudizio, universale e necessario - e cioè oggettivo - anche se prèdica un particolarissimo attributo d'un dato oggetto empirico, perchè questo particolar attributo, almeno per ora, ne costituisce l'essere, idealmente. . Ora, se consideriamo la proposizione in sè stessa, logicamente, come operazione conoscitiva, e non in rapporto ai contenuti, troviamo ch'essa è analitica: è un'analisi del dato che ne fa da soggetto logico: nel mondo a me presente, distinguo un sensibile, il bianco, e lo assumo a definire il dato come suo carattere essenziale, in cui cioè il soggetto è (dev'essere) identico a sè stesso. . Ma non diversamente avviene quando il soggetto della proposizione è un concetto già prima acquisito, come nell'esempio kantiano "Tutti i corpi sono estesi", dove analizzo l'idea che già avevo di corpo e, come giustamente rileva il Kant, ne metto in evidenza un carattere, l'estensione, proprio per rendere (più) intelligibile quell'idea, alla quale attribuisco l'estensione come il carattere costitutivo della sua universale e necessaria realtà. Nell'uno come nell'altro caso, non ho arricchito il numero dei contenuti del sapere, chè non si trattava di questo; ho costituito il sapere, il concetto: ragione significa soltanto questo. . Tutti i giudizi, considerati nella forma, sono analitici. Il predicato è un'analisi del soggetto, il quale vien conosciuto in quanto rappresenta l'idea predicata di esso, astratta da esso ma potenziata nel valore. Nessun dubbio, per me, che il giudizio sia sempre astraente: l'idea di bianco è astratta da questo foglio e l'idea di esteso è astratta dai corpi in genere. Non si conoscerebbe senza astrarre. Lo sforzo conoscitivo, l'intelligenza, consiste nel distinguere, nello scoprire, nell'evidenziare, fra gl'infiniti dati dell'esperienza immediata o acquisita, quel più profondo, quel più reale elemento, che ce la renda penetrabile e concepibile, che ce ne dia il concetto più adeguato alla postulata unità e realtà universale, che ci permetta unificazioni sempre più vaste: ma il concetto, considerato in sè, è una idea astratta. Astratta è la forma logica (idea), concreto è il valore gnoseologico (concetto); come analitica è l'operazione conoscitiva, sintetici i valori di verità che ne risultano rispetto ai contenuti. L'esecrato errore d'astrattismo non consiste nell'astrarre, chè non potremmo pensare senza astrarre, ma nel prendere l'idea, che vale per i contenuti esistenziali, come esistenza assoluta in sè, fuori della relatività gnoseologica; e infine prender la categoria, il dover essere, come soggetto invece che predicato d'un giudizio di realtà. . Il solo Kant ci ha messo in guardia da tal errore metafisico, spiegando appunto che le forme unificatrici dell'esperienza non possono nè esistere in sè fuori di questa (platonicamente), nè esser parti o caratteri dei contenuti, che dovremmo attendere a posteriori per averne coscienza (Hegel): esse sono i modi di valutare l'esperienza unificandola per mezzo dei concetti, realmente veri soltanto in essa e per essa, trascendentali (perchè universali e necessari) ma non trascendenti (non assoluti in sè). Perciò quando il Kant distingue una classe speciale di giudizi sintetici a priori, intende parlare del valore conoscitivo che il predicato aggiunge al soggetto d'una proposizione, riguardando il giudizio rispetto a' suoi contenuti, riguardando cioè il rapporto fra attività conoscente e oggetti conosciuti: in quanto appunto il giudizio trasforma in concetto oggettivo di sostanza o causa reale ciò ch'eragli dato come un elemento o un rapporto empirico, sceverato dall'analisi nell'unità a posteriori dell'esperienza e assurto a unità di ragione. . In tal senso, giudizi sintetici puri sarebbero, o i giudizi propriamente metafisici, ossia impossibili come giudizi reali perchè appunto non han più contenuti d'esperienza sulla cui analisi si costruisca la realtà, e quindi valevoli soltanto formalmente; oppure le proposizioni che definiscon la categoria stessa, apoditticamente, come "A=A" (ogni cosa, per essere una cosa, dev'essere identica a sè stessa), o "Ogni accadimento ha (deve avere) una causa", deve cioè esserci un costante rapporto fra le cose e del loro variare. Ma se è vero che gli accadimenti, così come si presentano a posteriori, non son nulla più che una contiguità di sensazioni o d'immagini nel tempo e nello spazio, senza necessario legame fuor che l'abitudine soggettiva e mnemonica che ce li fa attendere così collegati (Hume), e che pertanto affermandoli causati aggiungiamo all'esperienza un valore che ce la rende intelligibile, resta però sempre anche vero che è di quell'esperienza soltanto che noi possiamo predicare la causalità, e che dall'analisi dei contenuti togliamo quei rapporti di più costante e profonda contiguità, che eleviamo a ragione. ... . ... 5. . Ma forse la critica dei giudizi viene spesso influenzata da classificazioni meramente logiche, le quali riguardano i rapporti fra idee già formate in qualsiasi modo e ora connesse fra loro nel ragionamento discorsivo o in quello dialettico. Il sapere non si forma unicamente su l'esperienza sensibile; ben presto lavoriamo astrattamente sopra le idee e le adoperiamo come rappresentazioni per raggiungere nuovi concetti. Un'idea è una parola o altro segno sensibile (e quindi una cosa qualunque dell'esperienza serve da idea), ma è idea in quanto conserva, tesaurizzando l'esperienza nostra ed altrui, i valori conoscitivi del giudizio in cui venne costituita: essa dunque implica le note che l'analisi aveva scoperte e la sintesi elevate a essenza reale degli oggetti ("comprensione dell'idea"), come implica la capacità di rappresentare tutto ciò di cui queste note si possono predicare ("estensione dell'idea"). Allora, mettendo in rapporto le idee, si forman nuovi giudizi, nel senso della comprensione o dell'estensione di un'idea rispetto ad altre, per mezzo della nota comune messa in evidenza nelle premesse. Queste premesse, considerate a parte, appariscono come giudizi soltanto analitici, perchè appunto il predicato non fa che sviluppare una nota già contenuta nell'idea che fa da soggetto della proposizione, come "Tutti i corpi sono estesi" (se già lo sapevo), senz'aggiungere alcun nuovo valore sintetico: ma tutti vedono che qui le proposizioni non son che mezzi valevoli non ciascuna per sè, ma nella conclusione. Quivi dunque è il giudizio costitutivo del nuovo sapere, e di nuovo qui troviamo la sintesi di quelle analisi, il risultato conoscitivo (rispetto ai contenuti) della più lunga e mediata operazione conoscitiva per sè analitica. . Questo discorso, sul ragionamento per mediazione d'idee, nel campo gnoseologico ci porta invece a rifletter meglio su quell'altra vessata questione della conoscenza induttiva o deduttiva. Nella logica formale, che non si preoccupa del valore reale del processo conoscitivo teoretico, questi termini stanno a indicare solamente il rapporto di estensione fra le idee, sottintendendo la lor costruzione per comprensione delle note che divenner concetto. Allora, "Se A conviene a B, e B conviene a C, A conviene a C" è un sillogismo deduttivo, il tipico modo con cui ragioniamo per idee, ossia applichiamo le idee che abbiamo, seguendo il principio d'identità e contraddizione (e, dialetticamente, del terzo escluso), secondo che l'analisi delle idee ce lo permetta. Il sillogismo deduttivo, l'analisi, è l'unica forma di ragionamento logico. Difatti in esso, formalmente, rientra anche il ragionamento analogico, in cui quei termini sono particolari ("Se a e b convengono a c, convengono fra loro"), e infine anche il ragionamento epagogico o induttivo, per cui se a', a", a"' ...convengono a B, tutti gli A convengono a B. . La generalizzazione d'un concetto è, ripeto, questione d'estensibilità d'un concetto particolare a tutta la classe degli oggetti o dei fatti in cui si trovin contenute le note o le condizioni reali di esso: se, come avviene in matematica, la classe intiera A è già data come formata di tutti gli a identici fra loro, l'induzione dai particolari al generale presenta la stessa forza logica della deduzione dal generale ai particolari. Ma come generalizziamo su l'esperienza sensibile? come dalla sintesi a posteriori, dal mero rapporto di contiguità, saliamo alla sintesi a priori, concettuale, quella per cui è poi possibile estender il concetto dal noto all'ignoto, dal passato all'avvenire, dall'astratto logico ritornando al concreto reale? . Questo è il problema gnoseologico. Il sillogismo aristotelico non vi ha che fare. Il problema centrale della filosofia greca era essenzialmente logico: alla sofistica interessava capire come l'uomo pensa e ragiona, problema umano e intellettualistico a un tempo, tipico del pensiero da Protagora ad Aristotele; essi volevano stabilire le forme astratte, i modelli del ragionamento, come in estetica volevan fissare i modelli del bello e dell'arte. Aristotele, nell'Organon come nella Poetica, è il risultato di questo lungo sforzo sofistico. I greci, come non dubitavano che il bello sia bello, poi che lo creavano in opere immortali, preoccupandosi sol dei relativi problemi tecnici e dei rapporti intellettualistici col vero per intellettualizzarlo (ciò che fecero in ogni campo), così non dubitavano della esistenza reale, o del valore delle leggi e degli dèi, limiti che il pensiero non può infrangere e si trattava solo d'insegnare il modo di pensare a queste cose. Per Aristotele niun dubbio che forma e materia, idea e contenuto siano una medesima realtà sostanziale, e per lui, ingenuamente, un giudizio è vero o falso se afferma o nega che le cose stiano come sono in realtà! Ciò che urgeva a questi sofisti, era insegnare a discutere: il sillogismo. . Per noi il sillogismo non è più unicamente analisi d'idee già fatte, è costruzione di nuovi concetti per sintesi mediata da quell'analisi. Come giustamente vide il Kant, anche una scienza formale e astraente, come le matematiche, costruita cioè per ipotesi e prese queste ipotesi come reali in sè formalmente, si sviluppa pur tuttavia aumentando sinteticamente il suo sapere, costruendo nuovi concetti, sia pure per determinazione totalmente a priori invece che per riflessione sui dati a posteriori dei fenomeni. Il problema gnoseologico diventa quest'altro: Il ragionamento è deduttivo e conclude a un giudizio determinante, per cui dato il generale - la norma, il principio, la legge: non si tratta più di quantità numerica del genere rispetto alla specie, ma di universalità del valore rispetto ai contenuti dell'esperienza -, òpera la sussunzione del particolare, ossia dell'esperienza, rendendola intelligibile, spiegandola. Ma giudizi assolutamente determinanti non sarebbero che i giudizi di pura categoria, quelli cioè che non fanno altro che applicare la categoria mentale al contenuto, come quando dicessi "Quest'oggetto è una cosa" o "Quest'accadimento ha una causa", impliciti in ogni percezione, forma spontanea della conoscenza reale. Essi invero non ci rappresentan altro che la sintesi a priori conoscitiva, la condizione cioè di conoscere realmente secondo la sostanza o la causa, rapporto unitario presunto di ogni contenuto. . Se non avessimo che l'unità assoluta delle categorie razionali, dover essere universale e necessario del fenomeno, ed il fenomeno, il nostro ragionamento sarebbe soltanto determinante. Ma ciò non è possibile, perchè io non conosco questo fenomeno sol perchè lo giudico una cosa o un effetto in universale, e debbo ancora sapere che cosa è e da qual causa è prodotto. In somma, è nel concreto particolare che si deve realizzare la legge universale; e fra l'unità tutta a posteriori dei contenuti presenti nella contiguità dello spazio e del tempo, e l'unità tutta a priori delle categorie ci dev'essere tutta una serie di unificazioni parziali, che colmino l'infinito abisso fra senso e ragione. Le categorie medesime, o leggi supreme del conoscere reale, come la causa e la sostanza (nonchè lo spazio e il tempo che unificano i sensibili come esistenti, ossia nella sintesi ancora a posteriori), come si sono formate, differenziandosi dall'ultima e indistinta categoria dell'unità in sè, del dover essere identico a sè stesso? E tutte le altre leggi, tutti i principii più particolari, dai quali deduciamo di continuo per spiegare e antivedere gli accadimenti, come si sono costruiti? ... . ... 6. . Questi problemi condussero il Kant a distinguere, accanto al giudizio determinante, deduttivo in senso gnoseologico (che sussume il particolare nel generale già dato), il giudizio riflettente, induttivo in senso gnoseologico, che scopre i modi particolari delle determinazioni oggettive, ossia determina in concreto le leggi empiriche dei fatti, come per es. la causa speciale di tal accadimento o gruppo di accadimenti. Esso giudizio riflettente, dice il Kant(5), dato solo il particolare, la sintesi a posteriori dell'esperienza, vi trova il generale, il principio e la legge. Ora, ogni giudizio d'esperienza si costruisce così: è una sintesi a posteriori che diviene sintesi a priori a traverso l'analisi, generalizzando, ossia obbiettivando, ciò che l'analisi astrae. "Questo pezzo di ferro arrugginisce" è una prima obbiettivazione, che afferma un fatto universalmente, come vero in sè; "Il ferro arrugginisce", o pure "La ruggine è un ossido di ferro" sono nuove sintesi oggettive indotte allo stesso modo su l'analisi comparativa di più esperienze o degli elementi meglio approfonditi d'un'esperienza; ma identico è il procedimento razionale in cui questi giudizi si costituiscono. . Nei ragionamenti su l'esperienza, nella conoscenza teoretica in senso proprio, deduzione e induzione s'implican dunque a vicenda. Esse sono processi conoscitivi attuali anche in un semplice giudizio immediato e percettivo, inclusi l'uno nell'altro, e le mediazioni delle idee non fanno che svilupparli. La più semplice affermazione di una sintesi a posteriori, il riflettere sulla contiguità extra essenziale di oro e di giallo in esso distinto per dire "L'oro è giallo", è sintesi conoscitiva in quanto non è più a posteriori, ma vien determinata dalla categoria di essere reale in cui il giallo si prèdica dell'oro; come dall'altra parte la più pura definizione per determinazione assoluta, per es. "Ciò che è, è", ottenuta per identificazione del dato con sè stesso, implica tuttavia che qualcosa sia dato alla nostra riflessione, affinchè vi si applichi la categoria. . Rivedendo (rivivendo!) ancor una volta la faticosa ricerca del filosofo di Koenisberg per salvare il valore gnoseologico - la verità come realtà - dallo scetticismo psicologico dello Hume, ossia per salvare la filosofia dallo scetticismo, e quindi dal relativismo, possiamo per ora concludere: . 1°) Il giudizio è il fenomeno del pensiero, l'atto della ragione. Come atto è l'analisi del dato (psicologicamente, la distinzione e la scelta; logicamente, l'astrazione); come ragione, è l'unificazione nel concetto (dover esser metafisico). . 2°) Possiamo chiamare, in un primo tempo, sintesi a posteriori l'unità esistenziale dei contenuti d'un giudizio, quell'unità che troviamo comunque già data, e che conosciamo come unità perchè appunto ne distinguiamo per analisi il molteplice e il vario. Di guisa che è precipuamente sintetico a posteriori quel giudizio che si contenta di affermare l'unità in sè del molteplice analizzato, come "Quest'oro è giallo": dove però non manca la sintesi a priori, la sintesi nel valore logico, consistente nell'affermare reale e in sè quell'unità contingente, sia pure basandosi sui sensi, e cioè arazionalmente. . 3°) Dobbiamo chiamare sintesi a priori l'unificazione dell'esperienza secondo principii universali e necessari, che rinviano a un dover essere uno e identico a sè, come il principio d'identità e quello di ragione, i quali, rispetto ai contenuti, divengon il principio di sostanza e di causa. Allora, per avere un giudizio che sia solamente sintetico a priori, bisogna contentarsi d'enunciare la categoria stessa in astratto (principii logici formali, come "A=A"); o il principio universalmente ("Ogni evento ha la sua causa"). È ben vero che si posson chiamare giudizi sintetici puri quelli matematici (o di altra scienza formale, come scienza ipotetica e normativa, astraente dai contenuti reali; per es. l'etica stessa) e tanto più quelli della metafisica. Ma le proposizioni matematiche, come ognun sa, includon sempre intuizioni empiriche e postulati intuitivi, ossia elementi a posteriori, i soli che alla fine garantiscano la loro applicabilità all'esperienza; di fatti sono scienze astraenti e costruttive, ma non astratte e irreali. E quanto alle proposizioni metafisiche, o esse applicano all'in sè, al trascendente i concetti reali dell'esperienza (il tempo e lo spazio, la sostanza e la causa) e, come ha dimostrato il Kant, sono false sintesi a priori, pseudoconcetti (come i concetti del materialismo o dell'idealismo ontologico); oppure enunciano postulati puramente ideali, affermando il dover essere, e sono sintesi a priori puro pratiche e non più teoretiche. . 4°) Giungiamo così ad una quarta conclusione, la più importante per il nostro obbietto. A parte tutto ciò ch'è sapere formale e astratto, operazione esclusivamente analitica, la conoscenza si serve dell'analisi astraente per costruire (o ricostruire) le sue sintesi oggettive, movendosi fra i due opposti poli: quello della sintesi a posteriori, percettiva, che prende la sensazione distinta (per es. "giallo") a rappresentazione della cosa ("oro") alla quale l'unifica realmente, oggettivamente, benchè questa unità sia extraessenziale, sia l'unità dei dati contigui ("L'oro è giallo") affermata vera in sè; e il polo della sintesi a priori, ideale, sovrasensibile, reale soltanto come pensabile, che afferma il dover essere morale, fra cui il doverci essere un mondo assoluto e in sè, una "cosa in sè", che condizioni la realtà di quest'oro fenomenicamente giallo, e mi astringa a dichiarare che l'oro è giallo, quantunque io non possa conoscere il perchè di tale unità. All'approssimazione di questo perchè razionale si getta la conoscenza teoretica, costruendo una serie di leggi empiriche, ossia relative ai contenuti sensibili, ma al tempo stesso oggettivanti l'empirico in concetti di sempre più profonda identità, sempre più veri del reale, che chiamiamo natura. Questo è il processo del sapere teoretico, la scienza. . Un giudizio puro, una sintesi tutta a priori, non è ancora teoretica: teoreticamente parlando, è un giudizio formale; non ha dunque altra realtà, che d'esser sè stesso, d'esistere soggettivamente come giudizio, se non prova induttivamente sui contenuti dell'esperienza la sua verità reale. È ben vero - contro la tesi del nominalismo - che il valore dei giudizi puri, dei principii, è oggettivo e non soggettivo; altrimenti, che sintesi sarebbe la loro? Anzi, un giudizio è puro perchè esprime la trascendentalità della ragione sul soggetto empirico; obbiettìva, potremmo dire, l'esistere soggettivo in un dover essere assoluto e necessario come legge e principio, com'è ben visibile nei principii morali; ma l'oggettività d'un concetto etico o religioso non è verità teoretica, realtà esistenziale: è vero pratico, dover essere ideale. È pertanto indiscutibile che la conoscenza teoretica sia condizionata da principii puri, dalla ragione insomma, e che in ultima istanza essa rinvii sempre il pensiero ad un dover essere trascendentale, al quale, per così dire, appoggia le sue sintesi a priori. È realmente vero che "I corpi sono pesanti", se c'è, come ci deve essere, un mondo assoluto che possa apparirmi anche pesante: verità fenomenica parziale, ma pur sempre verità, se è posta quella condizione. In tal senso, è ben posto il relativismo del mondo sensibile al soggetto come ragione; ma la ragione acquista (conquista) valore teoretico, conoscenza reale, se ed in quanto realizza le sue sintesi in quelle attuali esistenze fenomeniche, le sensazioni, che sole posson imporsi come testimoni d'un mondo in sè. ... . ... 7. . Il problema dell'intelligibilità del mondo sensibile ha ora più spazio per muoversi. Nelle controversie fra sensismo e intellettualismo pareva che si fosse al bivio tra una conoscenza fatta di sensazioni e un'altra fatta d'idee; parimenti, nella fiera lotta fra empirismo e idealismo, sembrava che si trattasse di scegliere tra il valore oggettivo e quello soggettivo dei sensibili: alternative così fuori posto che, per esempio, il sensismo del Locke si risolve nel più genuino intellettualismo, e l'idealismo dei Berkeley in un radicale empirismo(6), In realtà, non ci sono due conoscenze, una sensibile e l'altra intelligibile, nè quindi due sfere di verità teoretiche, fra le quali sia giocoforza prender partito. . Quando diciamo sensazione, che cosa indichiamo? L'idea d'un'idea. Di solito vien detta sensazione un'idea già astratta in precedenti analisi dell'esperienza, come "bianco" e suono "do". In tal caso, la sensazione attuale di "bianco" e "do" sono queste parole che vedete fra virgolette: null'altro che nomi, segni già uniti per contiguità, o, come dicon gli psicologi odierni, per "trasferto", ai sensibili, di cui prendon il posto agli effetti pratici (che oggi dicono "riflessi condizionali"). Ma il medesimo sarebbe se un'altra qualunque sensazione attuale, per es. il bianco visivo di questo foglio o l'immagine d'un suono significasser ora per noi bianco e do, perchè si tratta sempre della presenza di elementi sensibili che fecer parte delle sintesi a posteriori dell'esperienza e che perciò ce la possono rappresentare in concreto (percezione) o in astratto (idea). Restando al nostro esempio (la natura del conoscere l'esamineremo meglio più tardi), bianco e "do" sono conoscenze? Sì, certo; ma non mai per sè stessi, come sensibili dati a posteriori, condizioni del conoscere e non ancora conoscere; sempre come rappresentazioni per le quali la sensazione attuale diventa formale e così diventa sapere, intelligenza. Conoscere è un rappresentarsi, per mezzo di ciò che esiste sensibilmente, quello che deve essere, per essere realmente. Questo bianco mi rappresenta una cosa, la carta bianca: sintesi percettiva formata a priori su l'analisi d'una qualità, il bianco, assunta a rappresentare una realtà sostanziale (conoscenza concreta, percezione); la parola "bianco" mi rappresenta l'idea astratta di bianco in genere, di cui il valore sintetico sta appunto nella generalità, onde posso applicare tal'idea a questo bianco qui, che così riconosco, determino. . Voglio dire che la conoscenza del sensibile non ha carattere diverso da tutta quanta la conoscenza teoretica: esiste sempre nel sensibile e per il sensibile, ma va sempre al di là della sensazione, proprio al fine di conoscere qualcosa, fra cui, in ispecie, la sensazione stessa. Il nominalismo empirico non consentirà in questo concetto del valore trascendentale di ogni atto conoscitivo. Almeno il sensibile, egli ripeterà, si conosce in quanto sensibile. Non ho altro modo di farvi conoscere che cos'è una pietra, direbbe il Locke, che col darvela in mano, e la parola non fa che richiamare le sensazioni... Quest'osservazione, che sta alla base di tutto l'empirismo, è giusta sol in quanto constata, che la sensazione è sensazione, individualmente: esperienza intuitiva immediata e diretta, che nessuna conoscenza mediata e razionale potrebbe sostituire: verità lapalissiana sulla quale cavalca in eroicomica battaglia l'intuizionismo odierno. Ma se l'intuizione sensibile è conoscenza perchè sensibile, tanto vale dire con l'idealismo che tutto il mondo in sè è conoscenza, e ricominciare da capo a chiedersi che cosa sia il valore conoscitivo di questo mondo di cose chiamate idee. Se il veder bianco questo foglio è un conoscere, un'idea, diciam così, soggettiva, il problema gnoseologico comincia di qui, dal chiedersi che valore sia quello dell'idea di bianco (dell'idea dell'idea) in cui la prima si oggettiva, ossia conosce in senso proprio, realmente. . Il malinteso può derivare dall'uso della parola intuizione, che viene presa come un atto teoretico; ma nell'intuizione, ciò che poi chiameremo soggetto, attività e simili, fa parte del dato; quando già distinguiamo e opponiamo un soggetto e un oggetto, non è più intuizione, è conoscenza e intelligenza. La pura sensazione è presenza, esistenza unitaria di tutto ciò ch'è dato, così com'è dato, a posteriori; essa non ha altro valore che quello dell'esistere: allorquando stringo fra le dita la pietra offertami dal Locke, lo scabro il duro il pesante ecc. di questa pietra, insieme col senso di sforzo muscolare e spiacevole ecc., esistono empiricamente nell'unità indifferenziata (quanto a valore teoretico) del dato; incomincian ad essere qualcosa di reale o ideale, quando almeno penso: questo scabro è scabro, questo duro è duro (affermando la qualità), oppure penso che scabro duro ecc. sono una pietra (o viceversa, la pietra è scabra...) in sè (affermando la sostanza), oppure stringo la pietra ecc. (affermando la causa). . Sembrano questioni di lana caprina, eppure qui c'è un nodo vitale per il pensiero filosofico. Bianco conoscitivamente è sempre rappresentazione, sia pur semplicissimamente e unicamente di questo bianco visivo qui, elevato al valore d'un dover essere in sè, essere oggettivo, o di un essere per me, soggettivo e relativizzato a qualche altro elemento astratto dall'unità a posteriori (per es. allo sforzo d'attenzione) e preso come "io". La gnoseologia deve arrestarsi qui, alla costatazione di un'esistenza sensibile sempre presente come contenuto del conoscere e di un valore trascendentale sempre in atto come forma conoscitiva, lasciando alla metafisica considerarne i valori assoluti (se l'esistenza sia un valore e se il valore esista in sè): per la gnoseologia queste due astratte condizioni si relativizzano nell'atto conoscitivo, dove il contenuto diventa forma rappresentativa, oggetto intelligibile (concetto). ... . ... 8. . Alla domanda, in cui si potrebbe compendiare il fine della nostra discussione, "Che cos'è la sensazione?", la mente umana spontaneamente risponde con l'analisi diretta del sensibile, che ineluttabilmente la conduce a concetti di sostanza e di causa (o almeno, di essere e di divenire, nello spazio e nel tempo, oggettivamente), costitutivi della "natura", sia essa fisica o psichica secondo l'orientarsi delle analisi e le distinzioni e raggruppamenti dei contenuti. Così si costruisce, non soltanto il sapere teoretico comune, ma anche la scienza: il fisico, il fisiologo, lo psicologo guardano la stessa esperienza, intuiscono la stessa esistenza sensibile, per es. questo bianco, e la realizzano in concetti naturali diversi fra loro sol in quanto l'analisi che ne fanno astrae piuttosto questo o quel gruppo di elementi e permette loro di concepire e di spiegar questo bianco, ora come energia fisica d'una materia (causa, d'una sostanza fisico chimica), ora come funzione visiva di un organo, ora come sensibilità reagente ecc. . Però, a questo punto, interviene la noètica a chiedersi, se i concetti di natura hanno risposto, e in che modo, a quella prima domanda; e cioè se essi hanno un valore reale, il quale renda teoreticamente intelligibile la sensazione, o se invece, come ci sta apparendo, i concetti di natura - verità parziali e progressive, relative ai dati sensibili ma orientate verso l'unificazione assoluta e a priori dell'essere in sè - spieghin sempre il sensibile rispetto a un dover essere ideale, di cui il primo non sarebbe che la rappresentazione fenomenica, che con la sua presenza garantisca della realtà o verità del secondo. In altre parole, la conoscenza teoretica del sensibile sarebbe sempre conoscenza intelligibile per mezzo del sensibile; ma il sensibile per sè, il sensibile in quanto tale, resterebbe inconoscibile, sebbene presente, essendo assoluto a posteriori, a cui la conoscenza, sempre relativa, si deve, pur trascendendolo formalmente, adeguare: ciò che il Kant esprimeva dicendo, che la conoscenza teoretica è trascendentale rispetto ai contenuti a posteriori, ma non può essere trascendente e metafisica. . Questa scoperta kantiana ha influenzato, più o men consapevolmente, tutta la filosofia contemporanea, e l'ha trascinata a considerar come reali i concetti consistenti nell'affermare necessariamente e universalmente le esistenze sensibili (e quindi nel ricostruire con paziente analisi la lor obbiettiva presenza nel tempo), vale a dire i concetti storici, svalutando le generalizzazioni astratte di elementi presi staticamente in sè dalle scienze teoriche, pseudo concetti utili sol praticamente per formulare leggi che ci servano come ipotesi di comodo per intervenire in natura. Così si ammette implicitamente la relatività del conoscere ai sensibili e l'obbiettività del valore conoscitivo in funzione delle intuizioni. Però, siccome la forma conoscitiva è a priori, ossia, diceva il Kant, soggettiva (alludendo a un soggetto in universale, o ragion pura), la storia vien intesa come divenire del soggetto, in cui lo spirito si relativizza, specificandosi nelle idee empiriche tutte interne ad esso. . Ma, avanti tutto, la storia non è che il primo e l'ultimo capitolo del sapere metodicamente perseguito: il primo, se per storia s'intende la definizione e ricostruzione obbiettiva e disinteressata dei fatti - storia naturale e storia umana -, descrizione e narrazione fenomenologica delle esistenze, che debbon essere come sono e furon sensibilmente, e perciò semplice introduzione alla lor spiegazione e intelligenza razionale (a meno di adeguare la ragione all'esistenza, così come è!); l'ultimo capitolo, se gli accadimenti concreti sono conosciuti nella lor unità ideale, se le scienze della natura e le scienze dello spirito da un lato, la metafisica dall'altro vengono ricondotte a vivificare delle lor leggi e dei lor concetti logici e deontologici l'esperienza storica e ce la rendono intelligibile. . Questo vuol fare appunto la filosofia contemporanea alitando nella storia il suo potente spirito idealista e interpretando i fatti quali momenti del divenire dello spirito, come soggetto che si riconosce nell'oggetto. Ma tutto ciò serve a relativizzare il sapere all'attività conoscitiva, a ricordarci che il vero è una costruzione ideale in perenne aumento, un valore, come tutti gli altri valori, corrispondente a un fine di sua natura soggettivo; non esclude tuttavia, anzi include la necessità del sapere scientifico, in cui si attua l'oggettività di quel valore. Anche se consideriamo la fenomenologia come fenomenologia dello spirito, la natura come concetto, la realtà d'una cosa o d'un fatto come valore teoretico, la scienza come storia della scienza umana, ciò non toglie che sia tuttora necessario unificare i fenomeni in concetti e leggi di natura, il sapere in sapere scientifico, che si ponga tra la filosofia e la storia empirica per darci ragione del sensibile e per attuare il fine teoretico, nonchè per servirci nei rapporti pratici con ciò che esiste. . La questione, secondo lo spirito kantiano, va posta come abbiamo più volte prospettato, ormai in accordo coi risultati della noètica. Pensare significa valutare. I valori, psicologicamente, si riducono a finalità del volere empirico, fini pratici e fini teoretici, corrispondenti ai bisogni, agli interessi, alle esigenze della persona umana in rapporto con l'essere delle esistenze, col mondo: è proprio questo rapporto che condiziona il pensiero nei due "usi" (come diceva il Kant), pratico e teoretico, di esso. Ma i valori che si costituiscono in tale rapporto, il vero teoretico (essere reale) e il bene pratico (dover essere ideale), trascendono così il soggetto empirico come le esistenze sensibili, il volere ponendo i suoi fini sempre al di là del dato e del raggiunto e liberamente affermando la legge del dover essere oltre l'essere reale. Però, mentre nell'uso teoretico del pensiero, nel conoscere oggettivo, esso, pur trascendendo l'esistenza sensibile nei concetti reali di ciò che il sensibile dev'essere in sè (assolutamente, necessariamente), si deve pur sempre relativizzare nel modo già detto alle esistenze, contentandosi di unificarle nei concetti di essenza e ragione che valgono per esse, nell'uso pratico la trascende assolutamente, realizzando un mondo ideale, il mondo delle idee metafisiche, per il quale non valgono le categorie del conoscere empirico. . Allora si spiega l'apparente contraddizione, dell'ammettere in noètica una relatività dell'attività conoscente ai contenuti sensibili, mentre che in metafisica vige la relatività dell'oggetto (come essere) al soggetto (come dover essere). Sono due punti di vista corrispondenti ai due usi, teoretico e pratico, del pensiero: il primo è un discorso gnoseologico, il secondo metafisico. Nell'esperienza, conoscenza teoretica e pratica sono i due poli del medesimo pensiero, cioè del medesimo rapporto fra il soggetto come ragione (soggetto assoluto, formale) e l'oggetto come dato a posteriori, esistenza sensibile, di cui fan parte il soggetto empirico e la stessa attività conoscitiva come finalità del volere. In quanto il primo si antinomizza (praticamente) al secondo e lo vuol superare in un assoluto dover essere - fra cui il dover essere dell'oggetto, la cosa in sè -, possiamo dire che il soggetto subordina gli oggetti (e quindi anche sè stesso) alle proprie leggi; ma in quanto poi vuol realizzare i fini, i valori, realmente e non idealmente, costituendo le realtà dell'essere, o attuando sensibilmente il dovere, deve piegar la ragione nei concetti teoretici, deve conoscere il mondo come natura. ... . ... 9. . Nel quadro della conoscenza, qual'è il posto della filosofia, e quale della scienza? La filosofia è lo sforzo più consapevole inteso a conciliare le finalità soggettive con l'esperienza obbiettiva, e cioè a fondare la realtà dei valori, a razionalizzare i fini sentimentali. Chiamo filosofia, non una particolar dottrina, ma un particolare atteggiamento del pensiero. Non metto la filosofia nelle nubi, fuori della vita e dell'esperienza; essa ne partecipa, ne diviene il centro, la interpretazione e la regola. In niuno più che nel vero filosofo si agitano e premono tutti gli interessi umani: individuali, onde la sua originalità; sociali, onde la sua eticità; nazionali, onde la sua genialità; storici, ond'è che la filosofia riassume lo spirito del tempo (come l'arte lo simboleggia). Non son dunque i contenuti soggettivi e oggettivi quelli che distinguono la filosofia - o meglio, l'atteggiamento filosofico, la "philosophia perennis" - dal pensiero pratico, dall'etica, dalla religione, dalle scienze e dalle stesse dottrine filosofiche già positivamente esistenti; è la posizione mentale, libera e disinteressata, anche se indirettamente posta a servigio delle credenze e dei fini attuali, ciò che rende inconfondibili l'esperienza e la filosofia che pur vi sta nel cuore, il pensiero diretto e il pensiero riflesso, permettendo a questo di razionalizzare quello e di unificare l'esperienza. . In altre parole, una filosofia, rispetto a' suoi oggetti e fini, non è, come oggi si tende a credere, soltanto teoretica; è strettamente teoretica sol in quanto vuol determinare il principio della conoscenza oggettiva e il criterio della verità. Ma l'etica, l'estetica, la filosofia religiosa ecc., non sono soltanto filosofia della pratica, dell'arte, della religione; son anche pratiche, artistiche, religiose: voglio dire che questi valori, non essendo più oggetti, non essendo valori dell'essere ma del dover essere, non possono venir criticati che da chi ne partecipa (e n'è competente!), e il loro fondamento, e quindi il loro criterio normativo per la pratica, per l'arte, per la religione, non può venir posto soltanto come reale storico e di fatto, ma come ideale della coscienza morale, artistica, religiosa. Così si comprende la posizione nuova dell'etica kantiana di fronte al razionalismo dogmatico e scettico: essa è proprio una posizione pratica! . Non è nei contenuti e nei fini, che la filosofia si distingue dall'esperienza e dal pensiero diretto: è, dicevo, nella posizione mentale, nel metodo. Una filosofia può e dev'essere anche pratica, etica, religiosa, come scientifica ecc., e tuttavia non si deve confondere con la vita pratica etica religiosa ecc., come non si confonde con la stessa scienza in particolare; nè le può sostituire. Tutto il pensiero rientra nella filosofia e con essa si muove, da essa parte e ad essa ritorna: ma la filosofia se ne distingue in quanto è pensiero di questo pensiero, riflessione critica su questa pratica o teoretica, i contenuti delle quali, soggettivi od oggettivi che siano, sono per essa, sempre, dati provvisori da discutere ed unificare. La filosofia è critica, anche se ama e ardentemente cerca di raggiungere la positività e realtà d'un fine pratico o teoretico; anzi, appunto per questo. Ciò basta a guardarsi dall'opposto errore, d'intendere come filosofia una posizione semplicemente pratica del pensiero, per es, etica o religiosa, come il moralismo e la teologia mistica: una mistica incomincerà a diventar filosofia solo nell'istante in cui, a costo di piombare nel dubbio straziante, rifletta liberamente sopra i suoi postulati per offrirne una prova razionale e un fondamento universale. . (Ma del pari, secondo me, non è più filosofia, nemmeno teoretica, quell'atteggiamento del pensiero che diviene fine a sè stesso e pensa per pensare, uscendo affatto dall'esperienza, qual è per es. il formalismo laicizzante, il compiacersi di lavorare sui termini in astratto, il bizantinismo che aduggia tanta parte della filosofia, dove in fondo tutti i problemi, moltiplicabili ad libitum, diventan questioni di parole: fenomeno comune a ogni genere di attività quando divien fine a sè stessa, e si chiama dilettantismo o "giuoco"). . Se dunque per un verso si potrebbe suddividere la filosofia in molti rami, in quanto essa accompagna tutte le altre attività, pratiche e teoretiche, stando per così dire dietro di esse come necessaria riflessione critica, alla quale di continuo esse chiedono le loro norme e i loro fini ultimi, e perciò si moltiplica con esse incentrandosi di volta in volta nei loro problemi, per l'altro verso c'è una sola filosofia perchè questa sempre tende a unificare quei problemi in un tutto che dicesi "cultura", e il suo problema peculiare resta sempre quello di colmare l'abisso aperto tra il finalismo del dover essere ideale e la necessità dell'essere reale unificando l'uso teoretico con quello pratico del pensiero. In tal senso, non v'ha più ragione di dividere nemmeno una filosofia teoretica, alla quale si attribuisce il còmpito di risolvere il problema dei reali, da una filosofia pratica che riguarderebbe il problema dei valori: quasi che la realtà, criticamente considerata, non fosse un valore, chiamato e verità, da rimettersi in rapporto coi fini soggettivi, per stabilire i limiti e le condizioni della conoscenza o teoreticità delle nostre attività; e quasi che i valori pratici restassero "valori" e non si riducessero a semplici fini soggettivi, anzi a meri sentimenti, se non si cerca il lor fondamento reale e se non si riesce a giustificarli razionalmente. . Considerando bene, la filosofia non ha più che un problema interno ad essa, dove gli oggetti esterni del pensiero diretto (siano oggetti esistenti o finalità soggettive), divengono interni, perchè valori del pensiero stesso sul quale ora riflettiamo. Dopo Hegel si dice il medesimo asserendo, che la conoscenza (diretta) è coscienza e la filosofia autocoscienza. Coscienza è il modo in cui l'antinomia (pratica) di oggetto e soggetto si rivela conoscitivamente: il soggetto pone l'oggetto come tale e vi si contrappone quindi come finalità e trascendentalità; perciò nel rapporto conoscitivo diretto oggetto e soggetto si trascendono a vicenda, si escludono l'un l'altro. Autocoscienza è l'esigenza di riunirli nel loro stesso rapporto conoscitivo quando vi si riflette sopra, il che genera la consapevolezza dell'oggetto come fine del soggetto pensante e della finalità come universalità e infine oggettività dei valori. . Ora, si può chiamare praticità della filosofia, la spinta che di continuo la incalza verso una unità assoluta - giustamente in ciò riavvicinata alla religione -, che la condurrebbe alle idee metafisiche; ma si deve nel contempo chiamare teoretico il suo metodo, la critica e la riflessione, essenzialmente teoretico in quanto esclusivamente conoscitivo. Pertanto, si potrebbe concludere, la filosofia è quel pensiero teoretico che critica la propria praticità. Se per questa ogni volta tende ad affermare la realtà delle idee pure formali, attribuendo loro, con l'argomento ontologico, quell'esistenza ch'è dei sensibili, ogni volta, per la sua teoreticità, deve ricondurre le forme ai contenuti sensibili, alla realtà di natura, perchè il vero esista e sia vero. . Sì, il cammino della filosofia, sempre idealistica, riporta tutte le volte alla intelligibilità del sensibile, alla natura, preparando la nuova scienza. Per quella via, gli allori vanno sempre a chi innalza lo spirito accarezzando le esigenze pratiche e metafisiche, e il disprezzo copre la scepsi ribelle, il relativismo all'esperienza, ma questo trionfa tra i roghi e s'illumina dei valori ideali: incenerita la natura come sostrato materiale, brucia anche lo spirito come esistenza sostanziale e ritrova l'essere nel divenire del mondo. Poco importa che la natura si chiami "pneuma", Dio, Ragione; importa che sia la ragione, lo spirito della reale esperienza, la forma dei contenuti sensibili, l'unificazione di ciò che l'analisi ha separato e distinto. Così per esempio è accaduto della scolastica, che ha messo capo al naturalismo spiritualistico del nostro Rinascimento; così poi al razionalismo, che la critica kantiana delle antinomie della ragion pura ha reso consapevole della sua relatività teoretica ai contenuti dell'esperienza. ... . ... 10. . Nella soluzione kantiana della terza antinomia cosmologica - l'antinomia fra la necessità di natura e la libertà dello spirito - il pensiero contemporaneo aveva una nuova strada aperta per conciliare le sue esigenze spiritualistiche con la conoscenza teoretica e con la scienza; ma non l'ha voluta seguire. Non s'è persuaso della impossibilità di determinare realisticamente (teoreticamente, oggettivamente) il soggetto, lo spirito; e così, dopo aver ampiamente riconosciuto che i concetti di causalità e di natura sono il modo col quale "noi" obbiettiviamo e spieghiamo l'esperienza, ha preso questo noi come natura, realtà esistenziale, sostituibile alla realtà oggettiva; dopo aver svalutato la scienza, perchè sapere nostro, soggettivo sempre e prammatistico (pratico), ha preso la praticità come verità e universalità, intendendo la filosofia come scienza, la sola scienza. Allora, reale diviene lo spirito; ma poichè questo si attua realmente ne' suoi oggetti, la realtà dello spirito è quella delle conoscenze oggettive, è l'esperienza, e si perde ogni trascendentalità, e quindi ogni criterio di giudizio come di progresso. Lo spirito è di volta in volta quello ch'è l'esperienza nel suo divenire e farsi reale e non è più che un nome comune dato a questo divenire empirico e di fatto, che non v'ha più modo di rendere intelligibile e realmente valutabile. . Conseguente era il platonismo, per il quale reale è lo spirito, l'idea pura in cui esistono tutti i valori; e irreale è l'esperienza, che l'anima intellettiva può valutare e giudicare perchè partecipe di quei valori: e infatti, filosoficamente, la giudica un'ombra, un'illusione. Ma tolta la trascendenza dell'antico realismo, la sintesi hegeliana di oggetto e soggetto nel Soggetto reale non può che ridurre questo a' suoi oggetti, al reale divenire dell'esperienza così come diviene empiricamente; come la sintesi di pensiero soggettivante (arte) e di pensiero oggettivante (religione) non può che ridurre la filosofia, in cui essa consiste, a religione senza trascendenza, vale a dire, a scienza teoretica. . Ora, prima di tutto, scienza e filosofia hanno finalità diversa, ossia diversa teoreticità: diversa non di grado, ma di valore. Sono come due circonferenze limitanti i loro dominii, che, come già dicemmo, s'intersecano e han dunque un territorio comune, ma non coincidono, sì che l'una non può sostituire l'altra. La scienza, idest, la conoscenza in quanto teoretica, ha per suo dominio l'esperienza e, in ultima analisi, le esistenze sensibili, ch'essa oggettiva nei concetti di natura, unificandoli nella legge causale, ossia determinandoli oggettivamente per esclusione d'ogni soggettività attuale. Il suo metodo è l'analisi. Essa si forma i concetti reali sui contenuti sensibili riportandoli al loro ideal dover essere, alla cosa in sè, e ottiene così il loro essere reale. Questo è la natura, ripeto, e non lo spirito; e, pur sapendo che il concetto di natura è un valore, è un fine nostro a cui tendiamo, non c'è altro modo di raggiungerlo che questo, di realizzarlo in rapporto ai sensibili che ne provino l'esistenza e ne limitino il fine soggettivo e trascendentale. Nessun dubbio dunque che la scienza conosce il sensibile trascendendolo nel concetto di natura, di esistenza in sè - anche quando fosse soltanto una determinazione storica e di fatto, l'oggettività non è che l'in sè del fatto stesso -; e nessun dubbio che l'"in sè" è un postulato, un dover essere soggettivo, per cui la scienza implica lo scienziato; ma essa è oggettiva, è vera come reale, in quanto cerca l'in sè esistente, l'in sè del sensibile, e non l'in sè puro e assoluto ch'è la categoria stessa formale, riducentesi a un fine e a una norma, e non a un'esistenza. . La filosofia invece è riflessione critica sui valori, che trova presenti alla coscienza come finalità; ch'essa criticamente mette in rapporto coi loro oggetti per stabilire il criterio di giudicare questi come valori e di subordinarli in una scala axiologica che li razionalizzi unificandoli nello spirito. Lo spirito è il valore formale, l'a priori, che la filosofia deve contentarsi di conoscere, ossia d'obbiettivare, non come un reale oggetto, ma come un dover essere, idea pura, norma oggettiva e fine soggettivo dei contenuti a cui si applica come valutazione e giudizio, non oggetto e soggetto esso stesso, che diverrebber subito suoi contenuti empirici. . Pertanto, il dominio della filosofia è il pensiero stesso in cui direttamente si formano i valori: essa è la critica del pensiero e non la conoscenza de' suoi contenuti. Naturalmente, la filosofia interseca il dominio della scienza, prima di tutto in quanto è critica della conoscenza, ossia dei valori e del pensiero teoretico: e in tal senso mette capo alla noètica che fonda il criterio di verità, e alla epistemologia che dètta le norme e i limiti della conoscenza reale. In secondo luogo, la filosofia che si sovrappone alla scienza per renderla consapevole che anche la natura è un valore - che l'"essere", io direi, è il dover essere dell'esistere sensibile -, le si sottopone in quanto chiede di che natura sia il valore come fine soggettivo, e come si possa concepire l'essere del soggetto. E così la filosofia si vuol far scienza, diventa psicologia. Ma è possibile, e in che modo, una scienza psicologica, una conoscenza oggettiva del soggetto? . È quello che vedremo nel prossimo capitolo. Per intanto mi preme stabilire che, se chiamiamo spirito il valore formale, l'idea pura - per esempio, la categoria teoretica di causalità reale o l'imperativo categorico puro pratico -, siamo padronissimi di chiamar Soggetto l'idea formale, proprio perchè pura idea, finalità trascendentale del volere; ma non possiamo chiamare reale questo Soggetto, perchè appunto ideale. Assurdo quindi dedurre che lo Spirito è il Soggetto puro che diviene realmente, perchè quello non è un essere (a meno di ritornare all'argomento ontologico dando un frego su tutto il contingentismo e lo storicismo contemporaneo). L'essere incomincia qui, nel divenire. Ma non troveremo almeno il Soggetto puro immanente nel soggetto empirico? La trascendentalità dei valori non è presente alla coscienza come finalità del volere? Non si realizza come attività conoscente e agente? Lo stesso Kant non parla d'un intelletto che forma i concetti, d'una ragione che dirige gli atti; e non son questi reali, anzi l'unica realtà, di cui si possa parlare? ... . ... 11. . Evitiamo i facili giuochi di parole. Discutendo l'antinomia della necessità causale e della libertà morale, il Kant finisce col dirci: Nella coscienza troviamo un'irriducibile antinomia fra l'esigenza razionale di ciò che dev'essere assolutamente e quindi liberamente e l'esigenza ugualmente razionale di ciò che è realmente e causalmente: anzi, la coscienza non è che quest'antinomia, questa opposizione pratica, presente come sentimento dell'antitesi fra lo esistere, riducibile ai contenuti intuibili, e il dover essere, riducibile alle forme pure. Da questa antinomia nasce il pensiero. Questo pensiero chiamiàmolo pure Soggetto; ma il Soggetto è qualcosa e fa qualcosa in quanto si obbiettiva, esce di sè per divenire mondo: non è questo l'ideale stoico, unificare il soggetto al mondo, disperdere, per mezzo del pensiero, l'io in Dio, facendo combaciare il soggetto con l'oggetto? Il pensiero, in quanto vuol obbiettivarsi nei valori assoluti, forma le idee pure, come l'idea di libertà: è il puro fine obbiettivato, la praticità resa pura in una forma, che dunque non è reale, e perciò la chiamiamo idea. La libertà può esser reale in un mondo noumenico, ossia è pensabile, ma non è pensabile come realtà conoscibile, come oggetto. Obbiettivamente diviene una norma della condotta; ma non si attua, questa norma, che nel solo modo possibile realmente, ossia nella concatenazione causale, la sola razionale nel mondo dell'esperienza... Rimane dunque un semplice "come se"? Nulla è più lontano dal Kant di questa illazione. . La stessa ragione, lo stesso valore a priori, che si attua praticamente in un dover essere puramente ideale e quindi in una norma, si realizza teoreticamente nei concetti riguardanti i contenuti delle esperienze. Qui il Soggetto si oggettiva di fatto, limitando i suoi fini trascendentali alle condizioni esistenziali, adattando la libertà del valore alla necessità della natura. Le categorie conoscitive sono le forme in cui il Soggetto, senza perdere il suo valore a priori, lo attua a posteriori, come dover essere di ciò che esiste sensibilmente. La volontà si fa intelletto e l'intelletto si fa oggetto. Di nuovo il soggetto sparisce come tale, come esigenza e finalità, per realizzarsi come fatto e causalità. Questa è la sola categoria, il solo modo della ragione, che renda intelligibili i sensibili, e quindi possibili i fini del volere, fra cui il fine stesso teoretico. . Allora, se chiamiamo finalità la soggettività del pensiero (il pensiero in quanto volere), la finalità soggettiva si oppone alla causalità oggettiva sol in quanto deve opporsi, praticamente, per essere finalità e volontà: ma non è un'opposizione teoretica, una contraddizione di fatto: nel fatto, ossia nel farsi, quel soggetto che idealmente si pone come dover essere, si realizza oggettivamente come essere fra gli esseri, si realizza come oggetto e non come puro Soggetto. . Se riusciamo ad uscire dall'intellettualismo e a concepire, kantianamente, il soggetto come praticità dell'oggetto (e, in ultima analisi, della sensazione), e non come un reale oggetto teoretico, sarà più facile superare anche i residui dello psicologismo che ritroviamo in Kant, quando riconduce il pensiero a una particolare attività che starebbe dietro i pensieri stessi, anzi prima delle stesse intuizioni. Le "facoltà" psicologiche kantiane, basta soffiarvi sopra, scompariscono con le ultime orme del precedente sostanzialismo. L'intelletto e la ragione sono i termini astratti che indicano in che modo si attua in concreto il volere in quanto raggiunge i suoi fini nelle forme pure e ideali, ossia nelle norme per giudicare e valutare, ovvero nei concetti (l'autocoscienza e la coscienza): ma il volere si fa pratico realmente nei reali atti come si fa realmente teoretico nel discorso e nelle rappresentazioni percettive. Preso in sè, come soggetto empirico che starebbe in potenza dietro i suoi atti, il volere non è che il desiderare e l'appetire; e questi altro non son più che il sentire. L'esistere del soggetto, ossia la praticità e finalità, astratta da tutti i suoi oggetti, non la possiamo far consistere, come già vedemmo e meglio vedremo, che nel sentimento, sia questo l'immediata certezza dell'esistenza, sia il dubbio filosofico o l'esigenza etica o religiosa; lo stesso Hegel dovette ridurre il puro soggetto a sentimento. . Ma il sentimento, o è praticità, valore del sensibile, e in tal senso coscienza; o è a sua volta conosciuto, preso come oggetto, realtà esistente, e allora diviene parte della sensazione, da ricondursi a cause che ne determinino l'essere fenomenico: e saranno infatti le condizioni per cui la sensazione, come è per certi aspetti dell'analisi fisica, così è per altri organica. La"natura" del valore, il sentimento o soggetto empirico, non può esser cercata che nella natura restante, pur essendo questa a sua volta condizionata dal valore teoretico, ossia dalla forma che prende la finalità soggettiva e sentimentale allorquando vuol realizzare i suoi fini oggettivamente, e conoscere il vero per meglio attuarli. . La sensazione, unica esistenza e presenza dell'io come sentimento e del non io come sensibile, è intelligibile soltanto come natura, che la trascende ma vi si relativizza e condiziona. Che prova abbiamo allora più d'un incondizionato, d'un valore assoluto, d'un assoluto Oggetto - che sarebbe insieme Soggetto assoluto -, e che pur sempre appare necessario come esigenza soggettiva e a sua volta condiziona a priori, sebbene praticamente, qualunque nostro giudizio? A questa domanda non può rispondere la conoscenza teoretica; risponde l'intuizione metafisica. . Ma questa, o è intuizione del sovrasensibile, e allora è religione; oppure è intuizione del sensibile, dell'oggetto in quanto, proprio, forma sensibile (sintesi a posteriori) e del soggetto in quanto sentimento di questa forma (genitivo soggettivo!), sentimento estetico; e allora è arte. Le influenze religiose sul pensiero scientifico e filosofico posson indurre a credere che la religione sia conoscenza; come gli stretti legami con l'etica e la vita pratica han radicato l'opinione che la religione sia di natura pratica e perfino utilitaria: ma essa è una categoria a sè, una forma autonoma proprio in quanto forma, avente per contenuto (come ogni forma e reciprocamente) tutti gli altri valori e su tutti reagendo. Questa forma è l'aspirazione a un dover essere posto oltre l'essere, è la volontà del sovrasensibile, e i suoi valori si chiamano santità e sovrannaturale, inconfondibili coi valori propriamente etici (umani) e teoretici, della conoscenza possibile, ossia del sensibile (genitivo oggettivo!). Quando la religione si applica alla conoscenza diviene idea metafisica, filosofia trascendente; ma non può chieder le prove a una conoscenza teoretica, alla esperienza, ma soltanto all'intuizione della praticità e finalità soggettiva nella sua purezza fuori d'ogni contenuto(7). . L'intuizione religiosa, portata in filosofia, o è deontologica, filosofia pratica, come quella dell'etica kantiana; o è metafisica ontologica, giudizio esistenziale tutto a priori, nel qual caso non ha più alcuna prova della sua realtà fuori del sentimento che l'ispira. La sola prova che il Valore esista realmente non la possiamo cercare che interrogando le esistenze reali. E poi che non può stare, come s'è detto, nelle categorie teoretiche, che come pensiero superano il dato e dunque vogliono anch'esse la giustificazione di tal superamento, e che d'altra parte limitano il Valore alla sua relatività col contenuto in quanto oggettivo, dobbiamo interrogare la sensazione stessa per vedere se non ha un suo proprio valore, prima di acquistarne uno (oggettivo) nelle sintesi conoscitive. . Però, se è facile depurare l'intuizione sensibile dei valori teoretici obbiettivi - in altre parole, se è facile distinguere tra sensazione e concetto -, più difficile è liberarla dai valori ugualmente teoretici, ma subiettivi, ossia dai concetti psicologici che per lunga tradizione le sono connessi. Chi non pensa, quando pensa alla sensazione, ch'essa non sia "soggettiva"? soggettiva, non soltanto nel valore conoscitivo (ossia, paragonata alla cosa in sè, all'oggettività assoluta), ma soggettiva anche come natura, come essere reale - con evidente petizione di principio -, facendone un ente psicologico? È dunque per me necessario passare a traverso l'analisi della sensazione e sbarazzarla dello psicologismo che se n'è impossessato. . Questo ci obbliga a un lungo intermezzo su questioni naturalistiche, le quali per la filosofia hanno soltanto una importanza epistemologica. Il capitolo che segue è dedicato ai fisiologi e agli psicologi che ancora cercassero un legame causale tra il finalismo subiettivo e la causalità naturale ch'è di lor competenza. L'argomento nostro, sulla intelligibilità dei sensibili, verrà ripreso al capitolo V, e concluso. ... . ... CAPO 4. IL SENSO COME PROBLEMA PSICOLOGICO. ... . ... 1. . La psicologia tradizionale s'arrogava il diritto di compier essa, ed essa soltanto, l'analisi della sensazione, con la quale hanno invece ugual principio tutte le scienze, anzi tutte le conoscenze in quanto conoscenze teoretiche, ognuna poi trascendendola nei concetti di natura. La psicologia fondava quella pretesa sul principio, esser la sensazione, tutta la sensazione, un fatto psichico, un "fatto di coscienza". È un principio che attrae poeticamente le nostre menti, non v'ha dubbio: ma per la psicologia è un brutto incominciare, perchè una volta ammessa l'identità di sensazione e psiche postulata dal soggettivismo e l'identità di psiche e coscienza postulata dall'intellettualismo, si rende impossibile e contraddittoria la stessa ricerca psicologica. Se le sensazioni, per es. questo rettangolo bianco, sono già fatti essenzialmente psichici - e tanto più lo sarebbero le idee che ce ne formiamo, come l'idea di rettangolo e di bianco (o di questo rettangolo bianco qui) -, tutto il mondo è psiche, è già dato come tale; ma non v'è più modo d'istituire una psicologia dove non si può più distinguere il soggetto psicologico dagli oggetti, e soltanto si tratterà di criticare (filosoficamente) i valori soggettivi e oggettivi che le sensazioni prendono secondo le nostre costruzioni ideologiche. . Riprova: non appena la psicologia s'accingeva ad analizzare una sensazione, distingueva il sensibile, lo "stimolo", oggetto della fisica, dalla sensibilità organica, oggetto della fisiologia, e l'uno e l'altra dalla coscienza, suo preteso oggetto; come distingueva il metodo dell'osservazione esterna delle altre scienze dal proprio metodo dell'introspezione. Ora, se quella sensazione fosse già prima un fatto psichico, e se dire psiche fosse lo stesso che dire coscienza, non diviene un assurdo ammettere che uno stimolo fisico e fisiologico si faccia cosciente? Esso lo era già! E non è un secondo assurdo ammettere un'osservazione esterna e una interna dove tutto è già dato come psichico, e cioè interno? Lo psicologo, quando asserisce che la sensazione è un fatto psichico, ragiona nel modo seguente: Questo rettangolo bianco non sarebbe nè rettangolo nè bianco se io così non l'avvertissi, e l'avvertire sensibile sarà dunque la prima forma di conoscenza; la coscienza sensoriale è la conoscenza soggettiva di quest'oggetto, il primo modo con cui un oggetto si presenta allo spirito e quindi lo spirito se lo rappresenta, per es. bianco e rettangolare. Ma ognun vede che il nostro psicologo ha già dovuto duplicare l'esistere sensibile in oggetto (che chiama anche stimolo) e soggetto (che chiama spirito), come se già ci fosser, nientemeno, queste due sostanze prima della sensazione, nella quale viceversa incomincia ad esserci, data la premessa, un fatto reale. C'è qualcosa - ma dove? quando? - che diviene cosciente perchè viene avvertito. Converrà dunque, ripeto, ammettere prima questo qualcosa (la materia?) e questo soggetto (l'anima?), il che è come cadere nel più primitivo materialismo, o in quella forma di larvato materialismo ch'è il parallelismo de' due aspetti, fisico e psichico, della stessa sostanza (organica?). . "Avvertire uno stimolo", "accorgersi di qualcosa" e simili espressioni, indican già un fatto conoscitivo, una percezione bell'e buona, ma non riguardano la sensazione in sè. "Avverto questo rettangolo bianco" significa l'esistere nell'unità attuale dell'esperienza questo bianco e il sentimento dell'avvertire, o senso del conoscere, come sensazione che io ho già sdoppiato in rappresentazione di due valori, l'uno concepito fra le cose (fuori di me), l'altro nel soggetto (in me), per cui relativizzo conoscitivamente i due valori della stessa e unica esperienza, e mi rappresento il conoscere stesso, la mia attività, in tal rapporto dualistico. Ma che c'entra la psicologia della sensazione? questa è, se mai, la psicologia del conoscere. . Lo psicologo risponde, alla Berkeley, che, proprio perchè, questo bianco, io lo trovo prima di tutto nella coscienza, esso è un fatto psichico: la coscienza poi lo "proietterebbe" fuori di sè, localizzandolo nello spazio ecc. "Nella coscienza"! Dove sarà mai questo luogo in cui si fabbricano e da cui si proiettan fuori (dove?) gli oggetti, che dunque non son più tali? "Coscienza" significa consapevolezza, riferimento di qualcosa - contenuto di una nostra attività; un oggetto conosciuto, un sentimento sofferto, un atto compiuto - a noi, o meglio, all'attività stessa (forma) che conosce sente vuole. Coscienza non è dunque l'esser presente di qualcosa - questo bianco che vedo, questo piacere che vivo, questo movimento che faccio -, ma l'accorgersi di questa presenza: saper di sapere, di sentire, di volere; ciò che avviene in quanto oppongo e al tempo stesso metto in rapporto me col mondo, rapporto che si dice di soggetto a oggetto, perchè ognuno dei due termini conferisce all'altro il valore opposto (antinomia pratica che, teoreticamente, si converte in mediazione conoscitiva). . In altre parole, la coscienza è la stessa attività conoscitiva in senso generale e nel suo attuarsi - non come fatto, ma come atto -, ch'è un conoscere l'oggetto e sè stessa, graduandosi in questo sviluppo fino alla filosofia, che n'è la forma più pura. Questo modo d'intendere la coscienza, non come un qualche cosa, soggetto (psichico) od oggetto già dato, sostanza spirituale o materiale assoluta, ma come rapporto conoscitivo, pensiero, in cui si formano tanto i valori della realtà oggettiva (coscienza) quanto i valori soggettivi di quella realtà (autocoscienza), reciprocamente ed implicitamente; vale a dire, d'intenderla come posizione di valori e non come realtà in sè, natura del valore, ch'è sempre un suo concetto (psicologico, appunto), è proprio della filosofia contemporanea, dal Kant in poi, ed è perfettamente in accordo con la testimonianza dell'esperienza pura, mentre evita le aporie e gli assurdi della precedente speculazione. Giustamente oggi la filosofia identifica la coscienza col pensiero, e la dichiara indefinibile per sè stessa, essendo il prius - logico - di tutte le definizioni, la corrente stessa del pensiero pensante. La sola sua legge è l'unità di coscienza: il dover essere, rapporto in cui s'unifica tutta la esperienza in ogni suo momento, realizzando i valori oggettivi e soggettivi nella sintesi conoscitiva, teoretica e pratica; ma la opposizione di soggetto a oggetto il pensiero la deve mediare, non la può creare, trovandola già nel suo esistere sensibile; e la media infatti nei concetti valutativi che regolano la conoscenza come ragione. La filosofia può, sì, parlare d'introspezione; ma l'introspezione filosofica è la riflessione, ossia, come vedemmo, l'atteggiamento critico del nostro spirito, destinato, non a formulare leggi scientifiche, ma a riflettere, fra l'altro e per esempio, sul loro valore e sui lor limiti e risultati (teoria della conoscenza ed epistemologia): filosofia che non precede o segue la scienza, ma sta dietro ad essa, come sta dietro a ogni altra forma d'attività. ... . ... 2. . La psicologia, proponendosi di studiare i "fatti di coscienza", ha seguìto le varie sorti di questo concetto in filosofia, aggrovigliandosi in difficoltà senza uscita, e oscillando dal materialismo allo spiritualismo, di cui il parallelismo psico fisico non è che un compromesso provvisorio. Ma in realtà, la psicologia è riuscita a conquistare un posto utile fra le scienze rinunciando a studiare il soggetto come coscienza, come posizione di valori oggettivi e soggettivi, e lasciando ciò alla noètica per considerare soltanto le condizioni empiriche e misurabili di quell'attività (volontaria), che si attua come coscienza alla luce della testimonianza introspettiva. Allora, il soggetto psicologico non è più la coscienza, ma quei sentimenti e impulsi che forman l'"inconscio" della psicologia più recente (come del resto vide già il Leibniz), e che la coscienza chiama soggetti (empirici) quando appunto li ha già superati e mediati in una conoscenza oggettiva, in un sistema di rappresentazioni, ch'è del soggetto attuale che vi riflette. . Perciò, a mio modesto parere, quando si tratta di psicologia come scienza psicologica, hanno tutte le ragioni coloro che si battono per l'uso più largo dei metodi sperimentali anche in questo campo, da sostituire alla famosa introspezione della psicologia classica: si tratta soltanto d'aver ben chiaro il fine della ricerca. Infatti, se il fine è scientifico, nel senso odierno del termine - ossia nella direzione verso cui s'è oggi formata e orientata una coscienza scientifica della civiltà occidentale, con determinati scopi teoretico pratici -, l'introspezione in psicologia non ha più alcuna importanza, non trattandosi più di definire i concetti, come nei trattatisti aristotelici, ma di fissare delle costanti in determinate funzioni. In tal caso, a che si riduce l'introspezione? Alla semplice esperienza nostra, ossia all'esperienza necessaria per parlare d'una cosa, punto di partenza d'ogni ricerca? Ma questa esperienza è la stessa comune a tutte le scienze, perchè, se non posso parlare di dolore o di volontà senz'averli provati, non posso nemmen parlare di luce e di calore senz'averli percepiti: vuol dire che il fisico obbiettiva la sua esperienza di luce in una rappresentazione di onde luminose, e così la rende "esterna", e lo psicologo obbiettiva la corrispondente impressione piacente o spiacente e il corrispondente impulso a cercare o a fuggire quella luce in una rappresentazione d'attività, che chiama interna soltanto per opposizione alla prima, ma che deve studiare dove e come si studia la prima(8). . Lo psicologo, per trovare un soggetto psicologico, non può far a meno d'analizzare la sensazione e di distinguervi un gruppo d'elementi astratti, che definirà soggettivi, da un altro, che chiamerà stimoli oggettivi; e sol per influenza filosofica attribuirà poi una natura soggettiva anche a quei sensibili, che per lui sono oggetti dati alla conoscenza, all'avvertimento soggettivo di quel primo momento. Così, avendo invertito le parti fra scienza e filosofia, giungerebbe all'opposto risultato, di definire la natura soggettiva o valore che il sensibile prende nella conoscenza (ciò che spetta alla critica della conoscenza) invece di formarsi i concetti oggettivi (reali) del soggetto, ossia di quella natura che ha già preso come un dato. A questo punto, lo psicologo ha implicitamente dichiarate assurde ed inutili tutte le scienze e la propria con esse: assurde, perchè una fisica diviene impossibile e vana dove non c'è più nulla di fisico, e così ogni scienza della natura, compresa una psicologia che cerchi un soggetto dove tutto è soggetto; inutili, perchè sostituibili con la noètica, la quale sarebbe sola competente a dirci come il mondo oggettivo si formi e si svolga in seno alla conoscenza medesima. È per questo che il criticismo, a sua volta, dal Kant in poi, ha dichiarato la incapacità della psicologia a darci il concetto di soggetto, anzi la impossibilità d'una scienza psicologica distinta dalla filosofia. Onde il curioso paradosso di filosofi che, incominciando dal Kant, fanno o presuppongono in ogni pagina quella psicologia, che pure hanno negato. . La legittimità d'una psicologia - e quindi di tutte le "scienze morali" in quanto scienze - dipende dalla soluzione di questo problema: come e in che senso il soggetto, "oggetto" della psicologia generale in astratto e delle scienze morali più in concreto, può divenire, appunto, un oggetto, vale a dire un concetto reale? La psiche dello psicologo non può esser diversa dall'"io" empirico della coscienza comune. Ma, come dicemmo, "io", o sono la coscienza in atto, e in tal senso l'io è pratico, è soltanto sentito, e in tal modo opposto agli oggetti (opposizione pratica da non confondere con la "distinzione" teoretica degli oggetti fra loro), creando così una relazione di valore che chiamiamo volontà, dove l'oggetto diviene il mezzo e il fine del sentimento. In tal senso, non posso fare della psicologia che vivendo il soggetto e, per così dire, standoci dentro; però tal soggetto non è un conoscibile, non è una rappresentazione di qualcosa. Oppure noi diciamo "io" indicando qualcosa, una natura oggettiva, come quando dico "io parlo, io veggo", e questa realtà naturale non può esser che il corpo, il senso fisiologico, rispetto a cui l'oggetto veduto o la parola detta, sono il sensibile fisico, qualunque altro valore acquisti poi come mezzo o fine del volere. . Penetrando ancor meglio il problema psicologico, si dovrebbe, coerentemente, giungere all'opinione di A. Comte, ch'era tutt'altro che superficiale: la psicologia, o è scienza della natura, scienza oggettiva, e in tal caso è biologia; o è scienza morale - egli diceva "sociologia" per designare la storia in universale -, e allora è conoscenza valutativa, riguardante non un "fatto" come natura, ma i fini e i valori esprimentisi in quel fatto (filosofia e storia), che noi affermiamo per partecipazione. La psicologia pura, come scienza oggettiva, è impossibile, proprio perchè l'"io" non è "in sè" universalmente: una tale oggettivazione è soltanto pratica o religiosa, ma teoreticamente l'essere di un soggetto è un dover essere, una finalità ideale, non la sua causalità ed essenza reale. . Avrebbe dunque ragione la filosofia contemporanea di abbandonare la psicologia come una pseudo scienza naturale sostituendola con la storia che rivive i fini e i valori soggettivi nel pensiero attuale che li pensa? Sì, avrebbe ragione, se potessimo rinunciare a pensare obbiettivamente, a uscir di noi stessi, a realizzare i concetti, a sostituire la religione di Dio alla religione dell'io. Non potendo limitarci un solo istante al nostro io attuale, non potendo conoscere e pensare senza trascenderci, la filosofia ha riportato anche la natura allo spirito - la natura è un modo dell'io perchè è un concetto -, e ha preso lo spirito come natura, come realtà conoscibile obbiettivamente. Difatti ha messo capo a un naturalismo spiritualistico ch'è l'antico spiritualismo naturalistico rovesciato - come già avvenne per ragioni analoghe nella filosofia del nostro Rinascimento di fronte alla scolastica -: invero, la filosofia contemporanea, così arditamente contingentista e attualista per quanto riguarda il problema cosmologico, pensa ancora l'anima come qualcosa di reale, anzi l'unica cosa reale; sia poi che l'intenda, col contingentismo francese, come personalità, individualità del "continuo" psichico, che permetterebbe un monoteismo metafisico; sia che l'intenda panteisticamente, con l'hegelismo, come soggetto universale o spirito assoluto che si attua nel pensiero. Comunque, tutto il conoscere allora si riduce a psicologia; questa è allora l'unica scienza possibile! Come cavare i piedi da questo controsenso? ... . ... 3. . La questione va ripresa da capo, fermandoci questa volta nel punto in cui lo psicologismo s'è infiltrato nella filosofia contemporanea a sua insaputa e n'ha pregiudicato la soluzione idealistica, facendola diventare soltanto spiritualista. La filosofia dopo Kant pàrte dall'esperienza; ed esperienza significa, in ultima analisi, presenza, esistenza, sensazione, comunque poi la si vàluti intèrpreti e conosca. L'esister della sensazione, e cioè la sensazione per sè stessa, non è piuttosto un oggetto che un soggetto: codesti, anche per il Kant, sono concetti oppure idee che noi formiamo sopra di lei, impliciti nelle percezioni, espliciti nella ragione: sono l'"essere" oppure il "dover essere" di quell'esistere; e, poeticamente parlando, sono la forma, logica oppure pratica, di quel sensibile, che ne diventa il contenuto. . Ma, prima di tutto, c'è dunque un "noi" che forma i concetti e le idee (compresa questa attuale del "noi"), che percepisce e ragiona? C'è un "io" prima o fuori del sensibile, necessario affinchè ci sia conoscenza, ossia rapporto di forma e contenuto: di forma, che allora diventa il soggetto puro, e di contenuto, che per essa, nella sintesi conoscitiva, diventa oggetto? Eccoci in pieno nella soluzione spiritualistica riaffacciatasi dopo Kant, la quale pone di fronte due esistenze, l'io e il sensibile; e per render possibile il loro rapporto, il loro divenire come pensiero, le considera già della stessa natura, l'una come "io puro", l'altra come "io empirico". Ma, o prendiamo l'io puro come un trascendente, anteriore e in sè rispetto all'io empirico, alle esistenze sensibili, e cadiamo nella contraddizione dell'affermare oggettivamente qualcosa ch'è toto coelo fuori dal nostro io empirico, dall'esperienza; o intendiamo l'io puro come immanente nell'empirico, e allora non può esistere realmente altro io che questo. . Difatti il Kant aveva lucidamente risolto la questione dell'impossibilità teoretica della dimostrazione dell'anima in sè, del puro soggetto come realmente esistente. Purtroppo nelle sue pagine si trova anche spesso il concetto teosofico di uno spirito che con le sue facoltà presieda e gèneri le particolari attività soggettive, costituendone la causa occulta, arbitraria reduplicazione dell'atto reale obbiettivato e preso in sè come un essere permanente sotto le sue manifestazioni fenomeniche: e son queste le infiltrazioni dello psicologismo nella filosofia contemporanea alle quali alludevo. Ma restando all'essenza della profonda innovazione kantiana, l'io puro, la forma conoscitiva dei contenuti sensibili, non è che l'a priori, la loro trascendentalità - il loro valore - e non un altro io trascendente. . Kantianamente, esistono le intuizioni, il dato di fatto, le sintesi a posteriori; esistono cioè dei contenuti per sè arazionali, senza valore, nè oggettivo nè soggettivo; e il termine "esistere" indica qui la presenza immediata, indipendente da "me", o almeno dall'io empirico, dal mio volere, e quindi anche da quel modo di volere ch'è il conoscere teoretico. Pertanto l'intuizione kantiana, la presenza d'un sensibile dato, per sè non implica un soggetto che intuisce più un oggetto intuìto dal primo: quando e in quanto il soggetto intuisce l'oggetto intuito, non siamo più nel dato e fatto della sensazione in sè, ma siamo saliti alla sintesi spazio temporale, al farsi rappresentativo e formale dei contenuti, al loro primo oggettivarsi reale per opera del soggetto formale. . Il soggetto formale kantiano non è un'esistenza (una sensazione, un'immagine, una parola), ma il dover essere o valore di questa esistenza, ciò che essa deve e quindi può rappresentare. La sensazione, la sintesi a posteriori, l'unità contingente e casuale di dati intuitivi, rinvia a una "cosa in sè", a una obbiettività assoluta ch'è la sua "ragione" immanente. Lo spazio, il tempo e le categorie sono le forme soggettive delle unificazioni obbiettive tendenti a raggiungere il valore reale, la cosa in sè; sono soggettive non per un loro proprio carattere psicologico diverso dalla oggettività, ma per la loro limitatezza, perchè sono esperienza sempre particolare benchè rivolta all'universale. Se l'intuizione sensibile, l'esistere, potesse raggiunger di colpo il suo dover essere, la cosa in sè, la ragione, sparirebbe il soggetto formale, la conoscenza, e ci sarebbe l'oggetto reale, l'assoluto (ciò che aspira a raggiunger l'intuizione religiosa). Infatti dalla filosofia kantiana si deduce a rigore che il soggetto (formale, ossia conoscitivo) si attua negli oggetti, è reale quando non è più soggetto puro ma un suo oggetto; l'esistenza appartiene solo a questo. . Ma non v'è anche, come già ci chiedemmo, presso il Kant, un soggetto reale? Il soggetto formale, il dover essere, non si realizza nell'essere, e questo non è dunque tutto e soltanto soggetto (idealismo)? Non sarebbe quindi più logico chiamare Oggetto il puro dover essere assoluto, l'obbiettività pura in sè, e chiamar soggetto il divenire reale, l'esperienza? Ripetiàmoci prima che cosa possa significare per il criticismo il termine "reale". Reali sono i concetti teoretici, i concetti in quanto "veri"; alias, i concetti che valgono per le esistenze. Reale è l'essere; e l'essere, criticamente risolto, è il dover essere dell'esistere, implicito nella percezione, esplicito nel pensiero. I concetti reali, nell'accezione comune della parola, sono i concetti veri possibili, le sintesi dell'esperienza; quei concetti che possono esser rappresentati dalle esistenze sensibili, intuitivamente. È la certezza intuitiva, la presenza del dato, che li rende obbiettivamente veri, per quanto trascendentali. Non posso dire che una cosa è quella cosa se prima di tutto non esiste in qualche modo riducibile all'esperienza. . In tali limiti, reali sono i concetti empirici (i giudizi riflettenti l'esperienza): il concetto storico, che determina un fatto come quel fatto, singolarmente (concetto perchè universale nel valore); e il concetto di natura, che lo determina generalmente, anche per l'avvenire, risalendo alla ragione, reale come causa (necessità di natura). Arrestiàmoci per ora a questo punto. Sono possibili dei concetti psicologici, dei concetti reali, obbiettivi del soggetto come natura (soggetto empirico)? È possibile la psicologia, sia essa descrittiva e individuale, sia essa scientifica e generale? Per avere dei concetti psicologici bisogna che ci sia un'esperienza soggettiva, che un tal carattere si presenti sensibilmente, distinto e unito come parte della realtà obbiettiva che diciamo natura e possa pertanto divenire il contenuto del pensiero teoretico. In questa ricerca del proprio contenuto la psicologia ha sempre smarrito la strada, ora trovandosi su quella della filosofia col parlare del soggetto come valore, dover essere e forma di tutti gli oggetti e prendendo questo postulato come una causa naturale; ora infilando la via delle scienze naturali col distinguere obbiettivamente, favoleggiando di "percezioni interne ed esterne", degli oggetti soggettivi e oggettivi; come se tutte le percezioni non fossero ugualmente tali, e cioè soggettive in quanto soggettivanti e obbiettive in quanto obbiettivanti il loro unico contenuto, la sensazione. A sua volta la filosofia, credendo che la psicologia abbia dimostrato l'esistenza d'una causa psichica dell'esperienza, ha preso da lei questa mai data prova dell'essenza soggettiva di ogni altro essere. . In tal modo, la psicologia divenne la scienza delle "facoltà"; la psiche, il soggetto, sarebbe l'attività nota di ignote facoltà del sentire, del conoscere e del volere, che produrrebbero gli oggetti, prima come sensazioni, poi come immagini e idee: sostanzialismo che lascia le cose al punto di prima, come il materialismo naturalistico che parlasse di ignote forze già esistenti che producono le forze vive, le reali forme dei rapporti dinamici. Il Kant si trovava ancora in questa atmosfera riguardo al problema della scienza; ma non è oggi compatibile che si applichino al soggetto quei concetti, - come il concetto di causa causante e di sostrato materiale - che le scienze, sotto l'influenza appunto del criticismo, hanno abbandonato anche rispetto alla forza e alla materia. Le scienze, ripetiàmolo ancora, cercano l'essere del divenire fenomenico nei costanti rapporti fra i sensibili analizzati e unificati in concetti, simboli di un'unità razionale, di un dover essere assoluto, che però esiste qual semplice fine o esigenza soggettiva teoretica: se mai, è di questa soggettività che ci dovrebbe parlare la psicologia. Come ne può parlare oggettivamente, concettualmente? Questo è il problema psicologico. ... . ... 4. . Secondo me, il problema psicologico non è dunque che un problema di metodo. Il primo errore di metodo s'incontra fin dall'inizio d'ogni psicologia sedicente obbiettiva e scientifica in ciò che notammo in principio di questo capitolo, nel presumere cioè che le stesse esistenze sensibili siano già di natura psichica, prima di determinare questa natura come concetto per analisi e sintesi sopra i sensibili. Ciò vizia tutto il processo, assumendo come proprio oggetto l'oggetto medesimo di tutte le altre scienze, anzi di tutte le conoscenze, rendendole vane e soggettive. Ma siccome diventa vana anche una psicologia in un mondo tutto psichico, per distinguere e connettere obbiettivamente ciò ch'è psichico con ciò ch'è fisico e fisiologico si cade in un secondo errore, di considerare il soggetto come un reale oggettivo in relazione di causa effetto con gli altri (o almeno di parallelismo): il che finisce con l'abolire la stessa soggettività e finalità, trasportandola come causa occulta e miracolosa nel campo delle altre scienze, e specialmente di quelle biologiche (vitalismo) e fisiologiche, alcune delle quali portan già impresso nel loro nome (per es. di "psicofisiologia" o "psicopatologia") l'equivoco iniziale. Incomincio dunque col correggere alcune di queste storture metodologiche, discutendone in concreto, nel campo delle relative scienze naturali. L'esempio del Bergson mi conforta specialmente alla revisione del punto di vista fisiologico: ma il lettore filosofo non creda che sia senza importanza filosofica liberare dallo psicologismo il concetto scientifico, p. es., di "senso" e di "memoria"! Chi sa quanto influisca nascostamente sopra il soggettivismo filosofico l'aver appreso fin da ragazzi che ci sarebbero dei centri psichici che "ricevono" la sensazione e "producono" il movimento; oppure che un'immagine sarebbe di natura psicologica? Non siamo molto distanti dalla "ghiandola pineale" di Cartesio... . In verità, quando dico: "io" veggo questo bianco e scrivo questo nero, non parlo di un io che riceva o faccia qualcosa di altro e di fuori da lui - di una natura che diventi spirito e viceversa -, parlo proprio di questa sensazione già data e presente come bianco movimento nero ecc. Di qui incomincia così la mia coscienza come la mia conoscenza: la mia coscienza è il sentire l'esistenza di bianco o di sforzo motorio come presenza e necessità di fatto (certezza) alla quale il sentimento stesso s'oppone praticamente, aspirando a qualcos'altro che non è (per es. al nero) ma dev'essere - in filosofia si dice, che l'io afferma sè stesso (trascendentalmente) negandosi come non io -; la mia conoscenza è, al contrario, il ritorno all'esistenze, l'adeguare la praticità o finalità soggettiva alla necessità delle esistenze obbiettive; il "porre", come dicon i filosofi, l'oggetto per negazione (o meglio, limitazione) del soggetto. . Allora, o rinunciamo alla conoscenza teoretica (al nostro dover essere reale) per vivere praticamente la vita soggettiva, e neghiamo la natura; o vogliamo conoscere la natura, la necessità reale, le esistenti condizioni di fatto, gli esistenti rapporti causali per cui avviene qualcosa che soggettivamente vale d'un valore teoretico oltre che pratico, e dobbiamo cercare tutto ciò nei contenuti sensibili e non nelle pure forme ideali. La natura dello spirito non può esser che natura; la natura dell'anima non può esser che il corpo; la natura dei sensibili non può esser che quel loro rapporto tutto oggettivo, che si chiama il senso. . Lo studio del senso è di esclusiva competenza del fisiologo, non dello psicologo, perchè non si tratta di stabilire che cosa è la psiche in quanto soggettività e coscienza, ma che cos'è la sensazione in quanto rapporto oggettivo, in quanto condizione organica dell'esistere di una sensazione. Il fisiologo si trova di fronte a un "fatto", l'eccitazione nervosa, misterioso ancora circa la sua propria natura fisico chimica, ma ben chiaro in ciò che qui importa, ossia ne' suoi rapporti funzionali con gli stimoli esterni e col restante organismo. Questa funzione si riduce al rapporto sensorio-motorio, di cui l'arco riflesso è il tipo. Lo schema istologico d'un sistema nervoso è anzi una cellula, che co' suoi prolungamenti protoplasmatici sia esposta all'azione di stimoli esterni o interni all'organismo (organo sensorio periferico) e col suo cilindrasse raggiunga i prolungamenti protoplasmatici d'un'altra cellula, di cui il cilindrasse metta capo a un organo motorio o secretivo. . Tutto ciò si complica, non soltanto con l'unirsi delle cellule in gangli (gangli sensori periferici e motori estramidollari) e delle fibre in nervi (sensori e motori), ma sopratutto per l'interporsi di centri cellulari - diretti (midollo, bulbo, gangli della base), o indiretti (cervello superiore e cervelletto) -, collegati, quelli diretti o inferiori, ciascuno da una parte all'organo sensorio e dall'altra a quello motorio, e quelli indiretti o superiori collegati ai primi, nonchè sempre collegati fra loro, per mezzo di fasci fibrosi, che uniscono a ciascun livello il centro sensorio con quello motorio, e, per le vie lunghe, i centri sensori e motori, diretti e indiretti, fra di loro. . Ma per quanto molteplice e complesso, l'unità morfologica del sistema è evidente, com'è evidente la gerarchia dei centri, quelli inferiori a cui giungono e da cui partono le vie nervose periferiche, sotto quelli cerebrali connessi con loro; e, nel cervello stesso, dei centri sensorio motoriali, perchè connessi coi nuclei grigi della base e del bulbo, rispetto a quelli frontali, connessi soltanto coi detti centri corticali del cervello medio e posteriore. . La ricerca fisiologica dovrebb'essere pertanto orientata secondo una concezione unitaria della funzionalità nervosa, così riguardo alla coesistenza delle eccitazioni (la sintesi a posteriori dei sensibili), come alla legge del loro riprodursi nel tempo (la memoria). Ciò non toglie nulla alla specificità, reale o presunta, dei centri nervosi, che se mai spiegherà in subordine le specifiche differenze sensoriali e motoriali. Ma, insomma, esistono due grandi leggi che dominano (o dovrebber dominare) tutta la fisiologia nervosa: l'unità funzionale; deducibile anche dalla concatenazione morfologica e istologica, diretta e indiretta; e la coordinazione o adattabilità funzionale nei tempo (memoria organica). Esse bastano a spiegare scientificamente e naturalisticamente perchè - vale a dire, in quali condizioni di fatto - i sensibili, che l'analisi poi divide, si presentano contigui e successivi nello spazio e nel tempo, formando l'unità a posteriori della sensazione, senza intervento d'un misterioso soggetto puro che prima crea i sensibili e poi li riunisce. La sintesi conoscitiva, come s'è visto, è tutt'altra cosa: è una sintesi nel valore logico; e l'operazione conoscitiva non deve creare nè riunire quello che già esiste, ma valutarlo e analizzarlo. ... . ... 5. . L'unità funzionale nervosa ci si presenta come rapporto sensorio motorio di cui l'arco riflesso, dicevamo, è il tipo; ma è chiaro che, fin quando rimangono intatte le vie lunghe, l'eccitazione d'una parte si ripercuote, o tende a ripercuotersi (come "innervazione") sulle altre, ognuna delle quali reagirà nei modi determinati dalle sue peculiari relazioni anatomo fisiologiche. Ciò vien riprovato con l'osservare le risonanze, per così dire, di organi anche lontani e non direttamente interessati allo stimolo e all'atto dell'organo eccitato; o meglio ancora si può dire, che tutto l'organismo partecipa sempre più o meno a ciascuna sua funzione. In particolare esempio, che ci servirà più sotto, le costanti perturbazioni della circolazione e della respirazione in occasione di qualunque eccitazione - i cosiddetti "concomitanti organici" dell'emozione (cuore polso respirazione accelerati o ritardati, intensificati o indeboliti), onde derivano in parte le reazioni "espressive" (come pallore e rossore, sospiro e grido) - si spiegano con la legge, deducibile dalla precedente, che allorquando un centro è già in funzione (come questi della circolazione e respirazione), è il primo a risentire l'entrare in funzione d'un altro centro, che v'influisce sovreccitando o inibendo la funzione in atto del primo a preferenza di quella d'un altro centro in riposo. . Ma v'ha di più. Se paragoniamo l'eccitazione nervosa, in sè medesima, a una "corrente" (ciò che si suol fare usando di un'immagine comoda per la sua intuitività), non la si deve pensare centripeta - come induce a credere un vieto preconcetto di un'anima centrale che attenda là gli stimoli -, ma centrifuga, proprio come si concepisce la scarica d'un potenziale elettrico al contatto d'una punta metallica. Intendo dire, che scientificamente conviene meglio immaginare che la corrente nervosa, in occasione d'uno stimolo - fisico (tattile, termico), chimico (olfattivo, gustativo), fotochimico (visivo), meccanico (uditivo), organico (cinetico, dolorifico, viscerale, cenestetico) o altro che sia, designando con questi aggettivi la natura dello stimolo -, gli vada, per così dire, incontro, dal centro all'organo periferico, e non viceversa: l'idea che un color rosso o un suono "do" debban diventare rosso e "do" arrivando ad un centro cosciente, per arcana materialistica o teosofica virtù di elementi nervosi specifici della luce o del suono, ha fatto perdere decenni di lavoro, dal Gall in poi, faticosamente correggendosi l'irragionevolezza di quella veduta nelle più recenti ricerche avviate a considerare i centri piuttosto come risonatori e coordinatori, per sè generici e vicarianti, delle specifiche eccitazioni periferiche. . I centri nervosi sono i nuclei cellulari più direttamente connessi a questo o quell'organo periferico; giusto quindi pensare, come l'esperimentazione conferma, che presiedano alla funzione sensoria e motoria del corrispondente organo periferico; e nessuna meraviglia che, asportando o ledendo un centro, s'abolisca o si turbi la funzionalità di quegli organi che gli son connessi e subordinati. Ciò non soltanto perchè i centri sono trofici ed energetici - come la cellula in genere rispetto alla fibra - ma anche perchè sono gli organi di coordinazione simultanea e successiva, motoriale e sensorio motoria, nonchè. quelli più indiretti di controllo (sovreccitazione e inibizione) dei primi. Ma se un dato centro fornisce l'energia necessaria alla delicata funzione d'un dato organo (per es. uditivo) a lui connesso; se ne unifica le eccitazioni condizionando in tal modo la forma sensibile (per es. il timbro dì quel "do", la sua durata e il suo tono in relazione agli altri suoni), e inoltre unifica, ossia coordina questa eccitazione a possibili eccitazioni motorie (come volgere la testa) e ad altre possibili sensorie (per es. visive), tutto ciò non va confuso con la funzione propria dell'organo periferico (per es. della coclea dell'apparato uditivo): qui soltanto esistono le condizioni affinchè, per es., la vibrazione meccanica trasmessa dall'aria all'endolinfa per le vibrazioni delle membrane uditive, entri in rapporto, meccanico appunto, con l'eccitabilità nervosa. . Insomma, io dico, uno stimolo è quello che dev'essere per essere il tale stimolo. È meccanico, come il suono; fotochimico, come la luce; chimico, come il sapore e l'odore; fisico come la temperatura o la pressione; organico come lo sforzo d'un muscolo o il lacerarsi d'un tessuto? Non lo può diventare, nè importa che lo diventi, unicamente in un centro di natura fisiologica, perchè allora diviene incomprensibile e assurdo che una funzione fisiologica crei una natura meccanica fisica chimica ecc. O si negano tutte le scienze della natura, o si cercano nell'organo periferico le condizioni per cui il sistema nervoso possa entrare in quel rapporto con l'ambiente, ossia col cosmo, che si attua come la tal sensazione di suono "do" o di rosso o d'amaro o di movimento; e che il fisico chimico, analizzandola, può definire meccanica o fotochimica ecc. per certe sue qualità di tal natura, e il fisiologo definirà organica, o meglio nervosa in quanto è un'eccitazione che diviene motoriale. L'unità nervosa infatti consente che la corrente, che dai centri corre incontro a quello stimolo, coordinatamente innervi quei muscoli che agiscono per riflesso, percorrendo cioè le vie delle connessioni più pervie. Ogni scienza deve rimanere nel suo particolare dominio. . La scienza della natura non è la metafisica, e nemmeno la critica. La natura è il concetto dell'essere e del divenire dei sensibili, delle esistenze reali, non è l'idea dell'Essere assoluto o del valore oggettivo o soggettivo di ciò che pensa. Per ogni scienza, la sensazione, l'esperienza, è il dato primo e comune, l'esistere, ch'essa deve indagare, astraendone per analisi i distinti aspetti per giungere alla legge di questo accadere distinto e contingente. Ora, quando il fisiologo cerca in un centro fisiologico la causa efficente di un suono "do" o di un rosso, obbedisce senza saperlo al preconcetto del fenomenismo filosofico e realistico d'un tempo; crede cioè che la sensazione di suono e di rosso sia l'apparire all'anima di un assoluto esistente in sè, sia la soggettività di un oggetto; per cui cerca la sede di quell'anima che trasformerebbe, chi sa perchè, in rosso e suono qualcos'altro che le giunga da un di fuori, da qualità prime di natura diversa dalle qualità seconde... . Ma ogni sensazione è quella sensazione lì presente. Un rosso già vi si presenta distinto e contiguo a un giallo, a un suono ecc. Il rosso è rosso ed è là dove si trova: se il fisiologo (e tanto più lo psicologo) si persuadessero di ciò, che il dato è il dato - se fosser cioè conseguenti al loro positivismo scientifico -, non cercherebbero il rosso e il suono nel cervello (e tanto meno nell'anima; se mai, l'anima sarebbe nel rosso, sarebbe il rosso). Nell'organo periferico ci sono invece tutte le condizioni delle distinzioni delle qualità sensoriali: un occhio è un apparecchio fotografico, un orecchio è uno strumento musicale, un calice gustativo è il solo luogo in cui il filamento nervoso è in reale contatto con la materia solubile, ecc. Ossia, l'organo sensorio è la condizione per cui il sistema nervoso partecipa della natura fisica o chimica od organica, che le altre scienze hanno, così, il diritto di conoscere realmente e non simbolicamente. Ciò che vi ha di esclusivamente nervoso, e che compete al solo fisiologo studiare e ridurre a legge di natura, è l'eccitabilità; ma, se le togliamo ciò per cui si eccita, ossia lo stimolo in quanto fisico chimico ecc. (e non in quanto nervoso), la funzione nervosa apparirà, meno misteriosamente, come la condizione per cui le eccitazioni, pur mantenendo il loro distinto carattere dovuto ai rapporti sopradetti, si possono unificare e coordinare, data l'unità del sistema e la gerarchia dei centri. Meglio ancora, a un fisiologo spregiudicato, dovrebbe apparir evidente che la funzione nervosa è nervosa, non in quanto crei il mondo, le esistenze reali, ma in quanto le metta in rapporto con gli organi di moto, permetta la reazione motoria, vera effettuale e attiva funzione del sistema. Il mondo rimane là dov'è. ... . ... 6. . Ma, si dirà, l'"immagine", non è almeno essa prodotta dal centro, non essendo reale? Non è almeno essa psichica, e non fisica? Un'immagine di suono o di colore, o non è niente, o è qualcosa di simile al suono e al colore immaginato. Allora, o anche il suono e colore sono immagini psichiche di qualcosa di reale esistente in sè e trascendente, e ritorniamo ai soliti assurdi scientifici; o per le immagini in quanto sensazioni riprodotte si deve cercare nella funzione nervosa, non la causa per cui siano piuttosto rosso che suono, ma la condizione organica che ciò permetta, che si dice "memoria" in genere, e questa non è una natura psichica che nel senso in cui è psichico il mondo intiero. Qui entra in giuoco il secondo grande principio della fisiologia nervosa, a cui alludemmo; ed è quello che ci deve sciogliere, scientificamente, l'enimma: la memoria, naturalisticamente parlando, non è che la legge dell'adattabilità funzionale, propria del resto di tutto il campo biologico. . L'adattabilità funzionale nervosa è concetto acquisito alla fisiologia corrente sotto il nome di memoria organica. Questa legge si può enunciare così: L'eccitazione, non soltanto provoca (in modo ancor ignoto) i movimenti, ma li coordina in "atti" - unità dei movimenti contigui, ossia contemporanei e successivi -; e questa coordinazione, in ragione del suo ripetersi (o anche come tendenza ereditata) si traduce in una disposizione mnemonica (similare) a riprodurre con più rapidità facilità ed efficacia pratica gli atti già eseguiti, e a rinnovare tutti i movimenti contigui, a preferenza di altri nuovi, ogni volta che per un'identica a analoga eccitazione si rinnova il primo fra essi al quale sono coordinati. Da ciò gli automatismi. . In altre parole, la corrente dell'eccitazione motoria, cui questa legge unicamente si vuol riferire, si scarica di preferenza per le vie già battute, nelle coordinazioni motoriali più pervie, sì che il riprodursi d'un'eccitazione motoria in un certo senso - memoria di somiglianza, ch'è una proprietà biologica della vita - provoca automaticamente la tendenza o "innervazione" a riprodurre l'atto o la serie degli atti che vi son connessi per le passate esperienze: memoria di contiguità. Ciò basta a spiegare anche perchè, se nuove circostanze in parte inducono allo stesso atto (per es. avanzare un passo per camminare), ma in parte eccitano riflessi in altro senso (per es. se qualcosa ci arresta), si produce una innervazione motoria, un inizio di movimento che resta in potenza, ed è, per così dire, l'immagine non realizzata del primo, che uno strumento delicato può metter in evidenza. Di fatti, l'immagine sensoria d'un atto, per es. l'immagine fonetica d'una parola pronunciata "mentalmente", un ergografo applicato al laringe la rileva come un'innervazione motoria dell'organo periferico! (Inutile avvertire, che i movimenti non esistono che come una categoria di sensazioni articolari e muscolari, dette cinetiche e di sforzo, facenti parte della sensibilità organica o "senso interno"). . Purtroppo l'associazionismo psicologico, affidando invece la memoria sensoriale a un'occulta facoltà soggettiva d'associare e "richiamare" sensazioni e immagini - confuse coi lor valori rappresentativi e ideativi -, impedisce alla fisiologia di scorgere, che si tratta d'un adattamento funzionale agli stimoli del tutto simile all'automatismo motoriale; anzi, che, fisiologicamente parlando, è la stessa identica funzione. L'associazionismo è la legge del conoscere per mezzo della memoria, non dell'essere di questa; "contiguità " e "somiglianza" sono i nomi del rapporto a cui riduciamo l'unità e continuità di fatto dell'esperienza quando l'abbiamo prima astrattamente divisa. Analizzando questo bianco io lo posso dividere all'infinito in una quantità di punti bianchi e di momenti della loro durata, e riunir poi questi minimi astratti nel concetto di spazio e di tempo; ma le condizioni oggettive di tal concetto si devono trovare in una esistente continuità sensibile, chè altrimenti non saprei di che grandezza o durata parlare. Ora, l'unità (a posteriori) e continuità dell'esperienza ha le sue condizioni fisiologiche reali nell'unità organica e nella plasticità funzionale dei sensi, come le differenze e le discontinuità sono condizionate dalle diverse relazioni sensorie coi diversi stimoli della restante natura. La tanto vantata continuità del soggetto personale non esiste obbiettivamente che come memoria organica: tagliate una fibra e scompare. Direte dunque che il corpo è la causa dell'anima?! . Del pari, le "rappresentazioni" di cui parla lo psicologo, ma che soggettivamente sono valori conoscitivi, realmente sono o sensazioni o immagini capaci di rappresentare qualcos'altro di contiguo o di simile, a cui si rivolge il nostro volere, valutandolo appunto come reale (nella percezione) o irreale (nell'immaginazione), possibile o impossibile, ecc.: però, quella capacità o memoria non è che il contenuto dell'attività conoscente. Se quest'ultima, ora, se la vuole spiegare in sè stessa, non la può riferire che a condizioni naturali, fisiologiche appunto. Qui la memoria, anche sensoria e immaginativa, non è che la tendenza o polarità propria dell'eccitabilità nervosa, a rieccitarsi complessivamente e in tutte le direzioni nelle quali s'è già effettuata; tendenza che fisiologicamente condiziona così la percezione come l'immaginazione (fantasia e ricordo). Vediamola meglio. ... . ... 7. . Sia data una sensazione, per esempio la serie delle note d'una frase musicale, che, avendole poi fisicamente divise, diciamo sucessive (contigue nel tempo) e contemporanee (contigue nello spazio) al loro relativo accordo basso: sensazione sempre data come qualificata (sonora), molteplice (quelle note distinte) e una (quella frase). Tale unità, ripeto, trova le sue condizioni individuali nella continuità nervosa, per cui le eccitazioni dello stesso organo, o anche di organi diversi contemporaneamente o successivamente interessati allo stesso oggetto stimolo (per es. vista e udito), s'unificano in una sola eccitazione coordinatrice delle differenze sensibili, a lor volta condizionate dalle diverse relazioni periferiche con l'ambiente. . Io non dubito, che gli organi di coordinazione di questa "associazione di contiguità" sensoriale, come dell'associazione motoriale prima descritta, siano i centri inferiori, sensori e motori, a lor volta collegati e formanti così l'arco sensorio motorio; come non dubito, che gli organi dell'adattamento a tali complessi, ossia della memoria sensoria e motoria, siano i corrispondenti centri superiori del cervello medio e posteriore; mentre i centri frontali, ancor più indirettamente interessati, gioverebbero a un controllo in secondo grado, di sovreccitazione o d'inibizione sui precedenti, allorchè questi sono già in funzione, come "attenzione" conoscitiva e volontaria. Ma lascio ciò ai competenti. . Costituitasi l'unità sensoriale fra le eccitazioni sensorie - comprese, s'intende, quelle da stimoli organici e cinetici - contigue nello spazio e nel tempo, essa più o meno rimane e si fissa, non come qualcosa di reale, come immagine in sè esistente in qualche misteriosa piega del pallio cerebrale, ma come tendenza funzionale, del tutto identica alla motoriale che n'è un caso; tendenza cioè a riprodurre più facilmente quella prima unificazione a preferenza di altre nuove (imparare), come a meglio distinguere gli stimoli abituali (chiarezza); e inoltre, a rinnovare insieme le eccitazioni che s'ebbero insieme allorchè una o parte di esse si rinnovi. La memoria di contiguità non è un fatto diverso dalla memoria di somiglianza: l'una implica l'altra, la somiglianza e differenza essendo dovuta all'azione periferica degli stimoli e la contiguità alla lor connessione condizionata nei centri. Pertanto, se una seconda e terza volta ascolto la stessa frase, l'apprendo; ossia, è la stessa proprio in quanto la sento con più facilità e chiarezza nelle sue distinzioni come nella sua unità, ed è anche un'altra (un'altra volta) perchè qualcosa è invece diverso (nuovo) nelle nuove contiguità interne o esterne al mio corpo (oggi c'è qualcosa diverso da ieri). Se poi oggi odo soltanto le prime note, oppure leggo le note senza eseguirle, o comunque mi rièccito d'una parte soltanto di quel complesso, le note riudite "richiamano" quelle che le seguivano nel tempo, o le note lette richiamano quelle udite in loro contiguità ecc. Ma che significa qui "richiamare"? . Come un suono reale non lo può creare nè il cervello, nè tanto meno uno "spirito" eterogeneo, ma esso è quello che è - una natura realmente fisica contingente in particolari rapporti, che si attuano laddove ne esistono le condizioni (nell'organo periferico, col concorso dei centri) -, così l'"immagine" d'un suono "richiamata" da quello che lo precede abitualmente, e cioè indotta dalla tendenza coordinatrice dei centri a rieccitarsi nella direzione contigua alle eccitazione riprodotte, non può essere di natura diversa dal sensibile. Voglio dire, che l'immagine è immagine in quanto tende a realizzarsi sensibilmente, e quindi perifericamente. Infatti, di solito, l'immagine indotta per contiguità da uno stimolo similare, si realizza proprio a spese dello stimolo sensorio: per es. vedo solido questo tavolo anche senza toccarlo, avendolo tante volte toccato e visto insieme. La solidità non è mica un'immaginetta di solido chiamata da qualche parte del cervello: appartiene all'oggetto, alla sua unità sensibile, con la stessa realtà degli stimoli attuali che la suscitano; sul che si fonda, in quanto al contenuto reale, la percezione (se la realtà esterna corrisponde all'adattamento mnemonico), e, nel caso contrario, l'illusione. . Quando invece i nuovi sensibili contigui a quelli riprodotti, per così dire si oppongono all'attuazione delle tendenze mnemoniche, perchè in contrasto con le precedenti contiguità - com'è il caso, mettiamo, dell'udire il nome o del vedere un oggetto appartenente a una persona nota, i quali, pur richiamandone i caratteri (la figura, la voce ecc.) per essere stati percepiti insieme, non ci permettono di realizzarveli dove altri e troppo diversi oggetti sono presenti, come il foglio su cui leggo quel nome, il muro a cui vedo appeso quel cappello o appoggiato quel bastone -, l'immagine riman nella forma abbreviata di un'innervazione sensoriale, la quale appare "interna" (al corpo) sol per contrasto con le sensazioni attuali che diciamo fuori di noi: ma non appena o viene a mancare l'opposizione della realtà fisica esterna, come nel sogno, o l'innervazione è intensa al punto da vincerla, come nella allucinazione, la tendenza mnemonica ritorna a realizzarsi in modo del tutto simile alla sensazione(9). ... . ... 8. . Ciò premesso, passiàmo a rivedere anche la parte dello psicologo e domandiamoci che cosa può esser soggetto in una sensazione. Se si risponde che il soggetto è il sensibile da essa astratto, come questo bianco, in quanto io lo vedo, o si confonde con le condizioni organiche della sensibilità, oggettive come tutto il resto (come quelle fisiche), o si confonde col valore conoscitivo che questo bianco prende, coscienza di questo bianco, laddove la psicologia empirica doveva proprio definire la natura di tal coscienza e valore, distinguendola dal sensibile e dai valori (in questo caso oggettivi) ch'essa al sensibile attribuisce in opposizione appunto alla propria soggettività. È proprio questa opposizione vissuta nell'esperienza che deve esser ridotta a una distinzione concettuale dalla scienza, se vuol esser scienza naturale; e questo è possibile sol in quanto sia possibile ridurre la soggettività ad oggetto fra gli altri (e non viceversa, la oggettività a soggetto, còmpito della filosofia). Ma, ripeto, è ciò possibile? . La psicologia empirica è una scienza possibile solo in quanto riesca a rappresentarsi un soggetto distintamente da tutti i suoi oggetti e tuttavia in rapporto naturale con essi. Ora, ciò che nell'esperienza ci può rappresentare il soggetto è la soggettività dell'esperienza stessa, sempre soggetto e mai oggetto: è il sentimento e niente altro. Il sentimento in quanto sentito, vissuto (o meglio, vivente), o rivissuto. Difatti, ripeto ancora, nella coscienza comune, l'io, inconfondibile col mondo restante, è il sentimento o l'emozione - fra cui il piacere o dispiacere conoscitivo (certezza o dubbio) - che sempre, come si suol impropriamente dire, "accompagna" le esperienze, dalle quali lo psicologo l'astrae, incominciando dal "tono di sentimento" d'ogni e qualsiasi sensazione. La serie di questi elementi doppiamente astratti si chiama poi affetto, interesse, persona ecc., forme soggettive dell'istinto o del bisogno biologico oppure individuale; ma nell'attuale esperienza, come ciò che diciamo oggetto esiste sempre in un reale sensibile, fosse pure un semplice segno o una parola rappresentativa d'un ben più vasto dover essere ideale, così ciò che diciamo soggetto esiste sempre e soltanto come sentire (piacere e dolore): dai sentimenti pratici - sentimenti semplici (detti "fisici") ed emozioni - a quelli detti morali e intellettuali, dal sentimento di sforzo e d'attenzione al sentimento del conoscere e del riconoscere, dal breve e momentaneo interesse alla passione. La vita del soggetto è la vita dei sentimenti: dunque, però, in quanto vivono, in quanto sono attualmente sentiti o risentiti! . La sensazione è sentita; in ciò, e in ciò solamente, è soggettiva, individuale e spontanea. Nelle analisi e sintesi conoscitive che ne facciamo, i sensibili divengono le rappresentazioni delle cose e dei fatti, degli oggetti di natura; e le lor qualità (come bianco e pesante) per quanto relative al conoscere, son sempre oggettive, dovendo essere in sè; i sentimenti invece ci rappresenteranno, o meglio ripresenteranno la natura soggettiva dei valori che queste cose e questi fatti hanno per noi e debbono avere in sè. La sensazione è sentita. Un sensibile astratto (come un bianco e un pesante) è anche un astratto piacevole o spiacevole; lo stesso si dica se isoliamo una sensazione rappresentativa di qualcosa, per es. la parola "sangue", con la rispettiva emozione spiacevole. In tal arbitrario isolamento d'un istante nel corso dell'esperienza, il sentimento - la parola lo dice - ci apparisce conoscitivamente come passività del soggetto di fronte all'oggetto "esterno", e cioè come un subire ("passio") l'oggetto reale. Ma chi sarà mai, allora, il soggetto reale? . Però se, invece d'arrestarci ad una sensazione astratta, lasciamo che l'esperienza si svolga, nella sua unità a posteriori, come un sèguito di sensazioni in parte simili e in parte diverse, o meglio come un variare di sensibili legati dalla memoria, il sentimento che li "accompagna" apparisce tosto in un rapporto inverso alla "passio" sopra detta: non è un soffrire, ma un volere; non "passio" ma "actio". Infatti, piacere e dolore non son momenti assoluti d'un assoluto soggetto; quei termini indicano piuttosto i due poli d'un decorso emotivo che procede, in definitiva, dal dolore al piacere. Non v'ha dolore, per quanto intenso ed acuto - questo vocabolario psicologico ("passivo", o "attivo", "decorso", "acuto" ecc.) è per forza analogico e materialistico in quanto vuol essere obbiettìvo -, che, se non è morte, non s'avvii a un sollievo, che non s'apra uno spiraglio di consolazione e di vita; non v'ha piacere, per quanto pieno e gioioso, che, se non si calma nell'appagamento, non aspiri a un maggior piacere, a una più reale conquista. . Si tratta dunque sempre d'un decorso emotivo da un maggiore a un minor dolore, da un minore a un maggior piacere. Breve o duraturo, debole o intenso, graduale o scoppiante, semplice o misto, univoco o alterno, eccitante o deprimente, fecondo o sterile, il sentimento si dirige al piacere; o meglio, siccome il piacere non è niente, all'oggetto che dev'essere (più) piacevole, mentre che l'oggetto dato, il reale sensibile, che rappresenta l'oggetto ideale, è, per sè, più doloroso o men piacevole. Ecco dunque che il sentire apparisce come impulso e appetito, amore e odio (affetto), e, insomma, attività volontaria. Basta riconnettere l'astratta serie soggettiva dei sentimenti come appetiti con l'astratta serie oggettiva dei sensibili come sensazioni rappresentative d'oggetti piacevoli e dolorosi, e basta, pensare che fra le sensazioni son anche quelle organiche rappresentative di possibili movimenti e atti, per comprendere che il soggetto, riportato nel suo real concreto, è volere. . Il soggetto psicologico, il soggetto empirico - per intenderci, quello che niuno può negare anche al suo cane e al suo gatto - evidentemente non è, non può nè dev'essere una cosa, una realtà teoretica, una natura chiamata anima. Naturalisticamente parlando, l'anima è il senso: il senso, vale a dire quel complesso di particolari condizioni organiche per cui il sensibile è sentito, e che pertiene al fisiologo studiare, sebbene il biologo ancor chiami questi rapporti "psicofisici", "psicofisiologici" o "fisiopsicologici", invece di chiamarli semplicemente "nervosi", per antichissimi preconcetti animistici (oppure per facilità didattica): sì che non sa più in che far consistere la natura dell'eccitazione nervosa, scambiandola con la psichicità, ossia col valore soggettivo dei sensibili. . Se invece intendiamo per soggetto psicologico la volontà - la quale altro non è che la finalità riferita a un individuo concreto -, non importa più pensarla come una cosa nè come una causa: la volontà è un rapporto, e un rapporto pratico e non teoretico (come sarebbe invece una legge scientifica), fra il sentimento o natura soggettiva dei fini - soggettivo in quanto dolore verso piacere, appetito - e l'oggetto, che, in rapporto alla finalità, diviene valore. In altri termini, la volontà è il nome che diamo al rapporto di soggetto a oggetto in quanto è pratico; il solo sentimento ce la può rappresentare come soggettiva finalità, come appetito: ma non appena vogliamo intendere come si attui e realizzi il volere - lo vogliamo cioè intendere come reale "attività" -, nulla di più nefasto che il concepire la volontà come una forza occulta o miracolosa che stia sotto i suoi reali atti sensibili, residuo di vedute spiritualistiche, ossia di credenze in fondo materialiste, mezza scienza degli scienziati mezzo filosofi (nè scienziati nè filosofi). La volontà messa sotto la serie delle cause reali, come la conoscenza presa come causa della causalità conosciuta, divengono, viceversa, dei semplici inutili epifenomeni di ciò che accade e che si conosce come accaduto. La finalità soggettiva si realizza come causalità oggettiva: è la stessa cosa, nel senso che la finalità diviene valore teoretico in quanto apparisce realmente nella concatenazione causale. . Lo psicologismo crede, al contrario, che un sentimento soggettivo sia come tale l'effetto di stimoli oggettivi; e, come appetito e volere, produca a sua volta gli atti reali. E pretende che ciò sia provato dallo studio psicofisico, parlando perfino di un tempo di reazione inteso come il tempo che impiegherebbe uno stimolo fisico a diventare psichico, ossia ad essere sentito, e il tempo che impiegherebbe il sentimento, come impulso volontario, a "trasmettere" (sic!) il comando ai movimenti... Non varrebbe la pena di discutere questa opinione, chiamata "positiva", se non fosse tanto inveterata, da farne sospettare che sia un'ipotesi necessaria per poter parlare dei rapporti fra anima e corpo in modo oggettivamente comprensibile e comunicabile. Però già in seno allo stesso positivismo scientifico s'è fatta strada un'opinione che lascia minor campo alle ambiguità di questo genere. Ritorniàmo ancor una volta sul terreno delle scienze positive. ... . ... 9. . Tutti ricordano la vecchia ma per i suoi tempi audacissima teoria Lange-James sulle emozioni: lo stimolo emotivo (per es. la vista del sangue) provoca per via diretta i riflessi organici che accompagnano ogni emozione; la quale, però, non sarebbe che il sentimento complessivo della perturbazione organica: per es., non tremiamo e palpitiamo perchè abbiamo paura, ma, essi dissero, abbiamo paura in quanto palpitiamo e tremiamo. Questa teoria ebbe molta notorietà e poca fortuna, perchè feriva alcuni modi inveterati d'intendere il rapporto psico fisiologico in base a distinzioni e causalizzazioni pseudofilosofiche fra organismo e psiche. Ma io non conosco una critica seria di essa, e il riprenderne la discussione gioverà a chiarire il nostro problema. . Vediamo dunque prima che cosa consta dal lato strettamente fisiologico. L'odierna psicofisiologia ha confermato sperimentalmente il fatto, che tutte le emozioni, anche più lievi (p. es. musicali), quelle altresì che si direbber di semplice "interesse", fosse pur soltanto "intellettuale" (p. es. sorpresa, curiosità, dubbio teoretico ecc.), sono "accompagnate" da concomitanti organici in forma di riflessi rilevabili con gli strumenti (pletismografo, cardiogr., sfigmogr., pneumogr. ecc.); fra cui più costanti e prime ad apparire le perturbazioni dei ritmi interni della circolazione e respirazione, che vengon accelerati o ritardati e nel contempo attenuati o intensificati. Questi e gli altri riflessi organici meno studiati dell'emozione (per es. le influenze sul tono d'innervazione dei muscoli, la sovra o sottoeccitazione ghiandolare ecc.), e le conseguenti modificazioni della normale funzionalità di organi e tessuti, si rivelano come sensazioni organiche (p. es. di tachicardia, d'affanno, di tensione ecc.) e cenestetiche; ed entrano a lor volta nel decorso emotivo come nuovi stimoli che s'aggiungono al primo. Gli stessi concomitanti organici hanno anche un effetto periferico, generando una parte dei movimenti d'espressione (p. es. rossore o pallore dalla vasodilatazione o costrizione dei capillari; tremito dall'astenia muscolare; grido sospiro riso ecc. dalle modificazioni respiratorie, ecc.), divenendo fonti d'emozione simpatetica anche in altri. . Ma il quadro delle reazioni motorie spontanee dell'emozione non è qui terminato. Bisogna aggiungervi: prima di tutti, i movimenti automatici o abitudinari utili, ossia coordinati in atti che modificano il nostro rapporto con lo stimolo emotivo (p. es. fuggire, afferrare ecc.), i quali pure influiscono come nuovi stimoli sul decorso emotivo (per es. fuggendo aumenta la paura) oppure lo risolvono. Inoltre, quella parte di movimenti espressivi che son chiamati gesti (p. es. stringere i pugni, coprirsi gli occhi, agitarsi ecc.), che già il Darwin definì come moti e atti altra volta utili (per assalire, per difendersi, per fuggire ecc) ed ora ripetuti - abbreviatamente - per automatismo ereditato o acquistato. Infine, i movimenti dell'attenzione, che son movimenti d'adattamento degli organi sensoriali (fissar lo sguardo, aiutar la visione coi moti delle palpebre, della fronte, della testa; star in orecchi, tastare, annusare, gustare ecc.) e di coordinazione simpatetica degli atti sensoriali (aiutare con la vista la sensazione uditiva o tattile, imitare con gesti il movimento guardato, il ritmo udito ecc.); e inoltre inibendo le sensazioni e i movimenti distraenti (ripararsi dai rumori, chiuder gli occhi, concentrarsi per meglio fissare una rappresentazione endofasica ecc.). Quest'ultima categoria di riflessi (dell'attenzione) accompagna soltanto le emozioni da stimoli non decisivi - che non provocano, così come son dati, un'azione pratica -, ossia stimoli vaghi, non chiari, che destare per es. il dubbio, la curiosità ecc., e sono l'inizio dell'attività conoscitiva in quanto appunto è attività reale (attenzione). Anch'essi s'aggiungono alla serie degli stimoli d'un dato decorso emotivo come sensazioni di sforzo e tensione sensoriale. . Il lettore vede dunque, che tutto ciò che obbiettivamente denominiamo l'aspetto organico dell'emozione non è che l'insieme di sensazioni organiche che seguon la prima, dell'oggetto stimolo. Si tratta di comprendere se, definita l'emozione come un decorso sentimentale, questo sia da considerarsi come un fatto psichico in sè, effetto dello stimolo emotivo e causa a sua volta dei fatti organici di reazione sopra elencati - ossia come un fatto soggettivo interposto fra due oggetti in modo mitico, come vuol la teoria tradizionale -, ovvero l'emozione non sia che la serie delle sensazioni, oggettivamente concatenate fra loro in modo diretto, valutate soggettivamente: ch'è l'interpretazione logica della teoria Lange-James (sebbene non precisamente la loro). . S'accèttì almeno provvisoriamente, come regola metodologica, il piano d'indagine obbiettiva proposto dal Betcherew e dal Paulsen sulle tracce del James: ricerca del rapporto obbiettivo stimolo-reazioni organiche (comportamento); e poi vedremo se la soggettività dell'emozione esista come realtà di fatto fuori di esso. All'esame obbiettivo, fra l'arco riflesso più elementare e diretto, come batter le ciglia all'avvicinarsi d'un corpo all'occhio, e il rapporto stimolo emotivo-reazioni organiche, non c'è che una differenza di grado e di complessità: lo stimolo è emotivo (p. es. la vista del sangue o la lettura d'un telegramma) in quanto non eccita più soltanto per la sua efficienza sensoria (il rosso, le parole scritte), ma in quanto, per effetto della memoria, è stimolo-segno - o, come si dice, "trasferto" - di sensazioni simili e contigue. . Tuttavia, già a prima vista, il rapporto fra lo stimolo e la reazione appare analogo a quello d'un semplice riflesso: veggo spremere un limone e avverto immediatamente la secrezione salivare, benchè questa sia coordinata non alle qualità visive attuali dello stimolo ma al contiguo sapore. Il trasferto agisce proprio come lo stimolo per sè efficace, perchè è nel trasferto che intuiamo l'oggetto del nostro piacere o dispiacere, senza bisogno di frapporre un'operazione conoscitiva che lo analizzi, e distingua le rappresentazioni dai sensibili. Prima di "conoscere" (in senso stretto) si sente, e il conoscere attivo è un modo di sentire, ossia di valutare, come oggettivamente è un modo di reagire, ossia di fare. ... . ... 10. . Restiàmo ancor un istante all'emozione, alla natura del soggetto empirico, non ancor cosciente (nel significato di conoscente); l'emotività è la sfera dell'"inconscio" psichico, espressione che diverrebbe contraddittoria se psiche significasse coscienza in quanto conoscitiva; emotività comune, com'è presumibile, a tutti gli esseri senzienti. . Ma la natura del soggetto è "natura" come realtà obbiettiva, concetto biologico. Che cosa consta al biologo? Uno stimolo rieccita tutto il complesso delle coordinazioni sensorio motoriali secondo la memoria (organica) e per le vie più pervie (più rapide, più facili, più adatte), riducibili a tendenze funzionali, ereditate o acquisite. La parte nuova dello stimolo attuale, appunto perchè agisce su altre e magari opposte tendenze, può modificare le reazioni, avviando a nuove coordinazioni, nel che si suol far consistere la differenza fra un atto "involontario" e uno "volontario". Se presentiamo a un cane una miscela d'acqua e calce nella scodella in cui sogliamo offrirgli del latte, egli vi si precipiterà sopra e l'esame riscontra i soliti riflessi organici (come la secrezione salivare); deluso, dopo due o tre prove, rifiuterà l'offerta e la vista del candido liquido non gli provocherà quei riflessi, che un'opposta corrente ha inibito. La volontà, fisiologicamente, non è che il giuoco di più impulsività (come, psicologicamente, di affetti e sentimenti in contrasto). Per il fisiologo, volontà e coscienza non si distinguono dalla impulsività e dal senso se non in questo: che, in presenza di stimoli non decisivi - dubbi, plurivoci, freddi o antagonistici fra di loro, come tendenze a reagire in direzioni multiple od opposte - interviene una fase di sospensione e inibizione dell'attività spontanea, dovuta al controllo dei centri indiretti, che si traduce in attuazione, che ci serve a chiarire, distinguere, valutare, scegliere e deliberare, vale a dire a "pensare". . Ma si vuole e si pensa perchè si sente e si appetisce. Orbene: in quella realtà fisica e fisiologica, ch'è il complesso (emotivo) stimolo-reazioni organiche sopra descritto, estesa nello spazio e nel tempo e pertanto quantitativamente misurabile, lo psicologo ha il più modesto còmpito di astrarre l'elemento o qualità, ch'egli chiama soggetto psichico, l'emozione; purchè, s'intende, non confonda di nuovo identificandoli come soggetto i sensibili, che ha già chiamati oggetto, con la lor soggettività attuale, il sentimento. Ogni sensazione, analizzandola, divien oggettiva in quanto sensibile (visiva uditiva ecc.) e soggettiva in quanto sentita (piacere e dolore). La più elementare delle sensazioni, come per es. certe sensazioni interne, credute specifiche, di dolore, presenta almeno la sua oggettività come localizzazione corporea ("segno locale", anche se impreciso); e la più chiara e complessa, come la sensazione percettiva, ha il suo "tono di sentimento", chè l'assoluta freddezza e indifferenza sarebbe anche, per "noi", inesistenza. . A meglio considerare, la distinzione che si suol porre, quando si dice che le eccitazioni da stimoli lontani (visive, uditive e sopra tutto ideative, ossia fonetico rappresentative) son più fredde di quelle da stimoli a contatto con l'organismo (olfattive, gustative, tattili, termiche), e queste meno calde delle sensazioni organiche (cinetiche, cenestetiche, dei visceri e dei tessuti, quest'ultime comunemente dette "dolorifiche" perchè le più dolorose), è una semplice approssimazione al concetto più esatto, che tutte le eccitazioni sono piacevoli, spiacevoli o dolorose in quanto, proprio, sono eccitazioni, ossia in quanto la sensazione è organica. Anche i sentimenti più spirituali, per il biologo sono modificazioni della cenestesi. In altri termini, piacere e dolore sono il soggetto della eccitazione - loro reale natura, se natura significa essere spazio temporale d'un'esistenza -, come sentimento rispetto alla semplice sensazione attuale, e decorso sentimentale più o men complesso, ossia emozione, rispetto a un'eccitazione molteplice e complessa. . È dunque vano andar a cercar i sentimenti fuori dell'eccitazione, e tanto più far dipendere questa da quelli. Astratti i due termini, che in natura son la stessa "cosa", si voglion separati e causalmente connessi anche nella realtà. La posizione Lange-James era pertanto scientificamente più rigorosa di quella della psicologia corrente, perchè considerava l'emozione come l'aspetto psichico di tutto il quadro dell'eccitazione sensorio motoria, senza interporla causalmente fra lo stimolo e gli atti, come un soggetto che riceve qualcosa e fa qualcos'altro; e implicava il giusto concetto, che il sentire è una risultante di tutto il complesso della vita come attualità e memoria, in rapporto con tutto l'Essere. . Piuttosto, nel concetto del James, si cela un altro errore: il parallelismo psicofisico. L'emozione-sentimento non sarebbe che l'equivalente soggettivo dell'eccitazione emotiva. Di conseguenza il fatto psichico sarebbe un mero "epifenomeno" di quello organico: tutto ciò che accade, accadrebbe per le cause meccaniche, e la psiche starebbe lì a rendercene inutile testimonianza, quasi vano piacere o dolore. Determinismo stoico. . Ma no. Prima di tutto, non si tratta di due parallele, ma di due valori della stessa linea, che a me può piacere e a te dispiacere mentre è diritta o curva per tutt'e due (universalmente). Il profumo della rosa mi piace: rosa profumata e piacere non sono però due realtà; nell'esperienza diretta (per es. d'un bambino) sono un "fatto" solo; in noi, per comodo d'analisi scientifica, diventano tre concetti: uno fisico, uno fisiologico e uno psicologico. I primi due hanno un valore oggettivo, in quanto constano ugualmente a tutti quelli che hanno i sensi(10); il terzo ha un valore soggettivo - o meglio, è soggettivo - in quanto il piacere è soltanto mio, è vita vissuta, praticità di quella sensazione, non è un altro aspetto (oggettivo) di essa(11). Pertanto, se si parla di realtà naturale, tutto è oggettivo, perchè tutto è riducibile a rapporti in sè, compreso il sentimento come vita in funzione degli stimoli fisici; se si parla dei valori, compreso il valore reale, tutto è soggettivo in quanto è sentito e quindi apprezzato e giudicato, anche se si deve giudicar oggettivamente. In somma, il parallelismo non è che la dualità di teoretico e pratico, che dunque è pratica e non teoretica, e perciò filosofica e non scientifica. . In secondo luogo, "sentimento" è un'astrazione psicologica che, appena ottenuta per analisi, dev'esser riportata all'unità dei fatti come un lor elemento arbitrariamente avulso dalla vita concreta. Preso per sè, un dolore o un piacere, ripeto, non è nulla, e rimane indefinibile. Nell'esperienza c'è piacere perchè c'è dolore: essi, come dicevo, sono i due poli del decorso della vita animata, il quale procede sempre dal dolore al piacere, dalla mancanza al possesso, dalla passività (soffrire) all'attività (volere), dalla morte alla vita. Allora, quel sentire, prima astrattamente isolato e obbiettivato, ci si presenta come tendenza, che gli psicologici chiamano appetire, e alcuni chiamano il subconscio (perchè organico) della coscienza chiara, ossia del pensiero. Quanti equivoci! ci vorrebbe un volume a dipanarli. Tendenza, dicevo: ossia spinta, spontaneità dell'essere concreto della persona, attività pratica e teoretica. Ecco che il parallelismo si chiude nell'unità di soggetto e mondo come volere, e il soggetto supera sè stesso come pensiero. Ma intendiàmoci, la volontà, spinta dal sentimento e diretta dallo stimolo, non è mica una "causa psichica" inserita fra l'eccitazione e la reazione, chè torneremmo così al punto di prima. . La volontà, cioè a dire il sentimento, in concreto, è l'attività reale che, perchè sentimentale, valuta gli oggetti (stimoli e atti), e così appunto determina i fini e i mezzi, fra gl'infiniti possibili dell'esperienza. La serie delle cause naturali e quella delle cause teleologiche nè si escludono (se non praticamente opponendosi), nè sono il parallelo l'una dell'altra: se muovo la mano per coglier quella rosa, chi muove è l'innervazione motoria, che si realizza di preferenza in quell'atto perchè la rosa mi piace. Ritorneremo su ciò; ma non su l'assurda opposizione d'una rosa soggetto cosciente ad una rosa stimolo reale: "ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum". ... . ... 11. . Lo schema psicologico più semplice - l'ipotesi scientifica più aderente all'esperienza, che non la reduplica in forze occulte, come son le "facoltà" della psicologia sostanzialista - è il seguente: Parlare di soggetto significa semplicemente sentire, ossia mettersi nel sentimento - per cui il soggetto è ineffabile -: punto di vista pratico, a cui si riduce la famosa "introspezione" (teoreticamente, ripeto, tutto è ugualmente intro o estrospettivo). Nell'esperienza sensoriale, la psicologia non può intender per soggetto la sensazione stessa, ma la distinzione in essa del sentire dalla cosa sentita. Allora, non si tratta di una distinzione d'oggetti, d'una differenza di nature: la natura del dolore e piacere è ciò che piace o dispiace, vale a dire, in posteriore analisi e sintesi conoscitiva, il corpo nel rapporto con gli stimoli secondo la causalità naturale e il processo d'adattamento funzionale a questo rapporto (memoria). Si tratta d'una distinzione pratica (per opposizione invece che per identità e contraddizione teoretica), perchè il sentimento non è che il valore empirico soggettivo, e pertanto psicologico, della sensazione oggetto. Il sentimento è finalità, impulso, volere - dolore verso piacere in tutte le infinite forme e gradazioni de' suoi sempre nuovi e originali coloriti -, che noi (in quanto vogliamo) opponiamo alla causalità naturale, rovesciandola in un finalismo pratico. Ma questo "noi" non è che l'opposizione stessa volontaria che si realizza obbiettivamente, conoscitivamente, come valore teoretico, causalità di natura, attività concreta. . Il "fatto psichico" non è dunque concepibile come un'esistenza reale, ma come un rapporto di valore, implicito fin ch'è natura, che si chiama volere - il rapporto fra l'astratto sentimento e l'astratta sensazione, che in concreto è l'atto -, di cui il conoscere e il pensare son le forme più evolute, per le quali il valore, da implicito ed empirico (inconscio) diviene esplicito e formale. Ma l'analisi della sensazione non vi trova nè l'"in me" - che apparisce nel pensarla rappresentativamente nei rapporti organici -, nè il "fuori di me" che dipende dai legami dei sensibili che ci rappresentiamo come stimoli esterni al corpo. . La volontà empiricamente è il dualizzarsi della sensazione in esistenza e sentimento di questa esistenza: non è un duplicarsi della cosa (sostanzialismo) nè un differenziarsi di due aspetti o caratteri della cosa (parallelismo); è il suo trascendersi, il suo divenire, la sua vita. Una sensazione tende, in quanto sentita, ad altro da sè (di più piacevole, di meno spiacevole), ossia a una nuova sensazione possibile (fine), attualmente irreale, di cui la prima è stimolo o rappresentazione. Questo processo reale, di cui l'astratto soggetto è, direi, l'incontentabilità dell'oggetto, costituisce ciò che la scienza chiama volere. Essa ancor lo intende come un soggetto che stia fra uno stimolo verso cui è passivo (sentire) - il che induce a crederlo, materialisticamente, un effetto - e un atto verso cui è attivo (appetire) - il che induce a crederlo una causa -, atto che gli serve di mezzo per convertire il primo stimolo in altro più piacevole o men doloroso, per realizzare i valori rappresentativi del primo stimolo reale. Ma la scienza non può nè deve far altro che ridurre il processo al rapporto, interno alla serie delle sensazioni stesse, per cui queste, come stimoli sentiti, appariscono condizione del sentimento, e, come oggetti dati o rappresentati (fra cui gli atti), appariscon mezzi e fini teleologici. Da nessuna parte s'impone un rapporto causale, di produzione dello psichico dal fisico o viceversa, che autorizzi al tempo stesso il dualismo ontologico di materia e spirito e la produzione dell'uno dall'altro: problemi mal posti, quando son posti in natura. . Non essenzialmente diversa è la natura del "pensiero" o attività conoscitiva in generale. Pensare significa ancora, soggettivamente, sentire, e quindi appetire; si dice desiderare in quanto l'appetire è rivolto a oggetti ideali, ma non cessa d'esistere sensibilmente, d'esser il sentimento d'una sensazione (per es. d'una parola) rappresentativa di qualcos'altro; ossia d'una sensazione che vale soggettivamente per quel qualcos'altro che rappresenta. Qui l'appetire, invece d'attuarsi in un atto pratico - in un atto che modifichi realmente l'oggetto, trasformando la prima sensazione (stimolo) in una nuova -, si attua in un atto conoscitivo, l'attenzione, della stessa identica natura degli atti pratici (è un adattamento funzionale allo stimolo), ma che condiziona una valutazione del sensibile, percezione e giudizio: la percezione, come noi sappiamo, è un rapporto di valore implicito, una conoscenza in concreto, dove l'atto conoscitivo analizza l'esperienza per metter in valore gli elementi e i caratteri capaci di rappresentare ciò che l'oggetto dev'essere per essere realmente e praticamente; il giudizio esplica la valutazione, la esprime realmente. Anche qui l'esistenza del soggetto non è in sè, non è una sostanza: egli è il valore della cosa, che nel giudizio si esplica concettualizzando il rapporto fra sentire e sentito, nella coscienza. Quando un sensibile, analiticamente emerso per l'attenzione, vien scelto a rappresentare il fine del volere, il dover essere, esso diviene idea, valore esplicito. . Il termine "conoscenza" va preso in generale, come pensiero, e non soltanto in particolare, come conoscenza teoretica. Conosciamo prima di tutto noi stessi, e cioè: poniamo in qualcosa (oggetto pratico) i fini del nostro appetire, e questo rapporto si può chiamare coscienza, valore (pratico) d'un oggetto, suo dover essere, ch'è sempre un'oggettivazione del sensibile, il fine posto in qualcosa d'ideale e opposto all'esistenza reale sensibile (che pur ce lo rappresenta), l'a priori dell'esperienza. Perciò, l'antinomia di soggetto (come fine) a oggetto (come sensazione) è la legge stessa del pensiero: ma il fine è oggettivato, è valore (dover essere) dell'oggetto. L'antinomia, ripeto, non è dualità di due cose, ma trascendentalità del valore sulla sensazione data (presente come sentimento). . Il pensiero pratico, che realmente consiste nella deliberazione - attenzione comparativa fra le molteplici sensazioni (oggetti dati) per i molteplici appetiti (soggetto dato) di cui è ricca l'esperienza umana; e quindi scelta o emergenza dell'uno su l'altro secondo tal valutazione o giudizio pratico - così facendo traduce il soggetto empirico in fine, perchè lo mette in rapporto agli oggetti; mentre traduce l'oggetto empirico in valore, perchè preso in rapporto al soggetto; ond'è che il pensiero oggettivizza il soggetto stesso, superandone l'essere attuale e determinandone il divenire. Ma si noti che anche la sensazione, che nel caso contemplato (d'una deliberazione pratico-utilitaria del tipo più empirico) verrebbe messa in valore (giudicata migliore) e scelta sulle altre, non vale più solamente per ciò che realmente è, ma vale in confronto con la reale esistenza dell'esperienza restante: come modello, come "bene" opposto ad essa nel rapporto pratico. È già un'idea (ideale teoricamente, idea-forza praticamente), una rappresentazione del valore (fine oggettivato, "bene") realizzata nel sensibile. Un simbolo. Perciò anche la nostra azione è diretta a trascender l'esperienza attuale, e a trasformarla. . Da questo caso, al porre razionalmente il valore pratico in un concetto etico di bene assoluto, ossia necessario e universale, non c'è differenza che di grado. L'opporsi assolutamente al sensibile, come soggetto assoluto (libero) all'esperienza empirica - e quindi come volontà autonoma e fine universale opposto a tutte le sue condizioni e cause naturali è tuttavia l'oggettivarsi del soggetto empirico, del sentimento, in una legge, che ne diviene il fine necessario, perchè il solo che appaghi l'infinita esigenza soggettiva; e valore assoluto, perchè deve valere in sè, oggettivamente, come legge morale. Inutile avvertire che tale legge esiste pur sempre, almeno, in un giudizio, in una espressione fenomenica che rappresenta in parole il valore. Il volere, in quanto attività pratica del pensiero, non è che una posizione di valore, un giudizio, per il quale il soggetto si costituisce oggettivamente come un dover essere in sè (assoluto) dell'oggetto sensibile, che perciò gli apparisce soggettivo, relativo all'esperienza. ... . ... 12. . Ma il pensiero, se è volontà pratica e posizione deontologica in rapporto ai fini soggettivi e, in ultima analisi, al sentimento, è anche conoscenza e posizione logica in rapporto all'esistenze sensibili e, in ultima analisi, alla sensazione; e questo secondo rapporto non definisce un'attività diversa da quella che costituisce il primo. Nell'uso pratico dell'attività del pensiero, il conoscere è il mezzo del volere: è quel volere che, valutando l'esperienza secondo i fini soggettivi, per trascendere l'essere nel dover essere, la conosce per trasformarla, e quindi adopera l'oggetto come mezzo. Ma, per ciò fare, deve valutare l'oggetto in sè, deve oggettivare l'oggetto, trasformandosi in attività teoretica, in volontà di conoscere. Attività pratica e teoretica sono i due "usi" dello stesso volere in quanto pensiero; e l'antinomia di soggetto a oggetto, che n'è la legge, si attua fra l'aspirazione del soggetto a oggettivarsi in un oggetto universale e assoluto (valore morale) trascendente ogni sensibile, e quindi reale sol come esigenza e legge formale, e il suo bisogno d'adeguarsi all'esistenza reale per poterla trasformare, ch'è la necessità di determinare il valore di realtà per imprimervi la propria legge spirituale (i valori pratici). . Allora, l'esperienza reale, di mezzo che sempre era ai fini pratici, si traduce in fine conoscitivo (teoretico) del volere; e il valore, che praticamente tende a obbiettivarsi in un dover essere, si relativizza invece, come vedemmo, all'esistenze reali, nelle categorie della conoscenza. Queste sono trascendentali, ossia a priori, rispetto ai contenuti sensibili, perchè appunto sono valori, fini conoscitivi del volere, regole della conoscenza teoretica; ma, ripetiàmolo per l'ultima volta, non sono (non debbono essere per essere logiche) trascendenti, essendo il trascendente non l'essere ma il puro dover essere. Meglio ancora, il dover essere oggettivo dell'oggetto (la verità teoretica) non è che l'assoluto, l'in sè dell'esistenza sensibile, alla quale ultima ogni legge e costruzione logica si deve adeguare. Per cui, ai due poli della stessa attività del pensiero si trovano i due valori assoluti antinomici: il soggetto assoluto, come dover essere morale (libertà) e l'assoluto oggetto, come realtà ontologica, dover essere della sensazione (necessità). . A questo punto, anche il filosofo deve scegliere la sua via. Vuol egli affermare lo Spirito, determinare i fini soggettivi come valori in sè? Si ponga, come fece il Kant della Ragion Pratica, dal punto di vista pratico. Allora, il mondo sensibile, il mondo delle condizioni empiriche, il mondo degli stessi nostri sentimenti, dello stesso nostro empirico volere, l'io reale come il reale oggetto, non contano più niente; ciò che importa è la norma etica: il dovere. La pratica, per esser pratica, non ha bisogno d'una giustificazione teoretica, perchè è fine a sè stessa. Le basta l'intuizione del dovere, l'intuizione metafisica, ch'è la trascendentalità stessa d'ogni sentimento in quanto sentito. A Dio, pensava lo Spinoza, si giunge per tutte le vie, da qualunque particolarissimo e soggettivissimo punto si prendano le mosse: basta amarlo, volerlo praticamente, ossia sentirlo. La vita del sentimento è tutta la nostra vita: "io" sono i miei sentimenti, i miei amori e i miei odii, i miei affetti e le mie passioni; nulla più. Ho dunque il diritto di affermarmi, di essere me stesso, affermando le mie finalità come tali, determinando come tali i valori pratici, assoluti. Qui non c'è nulla da relativizzare. . Ma il filosofo non è solo uomo pratico o religioso; vuol criticare la sua praticità e religiosità, come vuol criticare la sua conoscenza ed esistenza di fatto. Meglio ancora, il nostro vero ed ultimo scopo è quello di conciliare, a traverso tal critica, l'antinomia fra il pratico ed il teoretico, fra il soggetto e l'oggetto, fra l'assolutezza del valore come fine e la sua relatività oggettiva e conoscitiva. Questa è la peculiare teoreticità del filosofo, che ansiosamente si domanda: il dover essere, come può realmente esistere e attuarsi? . L'idea pura, la sintesi tutta a priori - risponderebbe il Kant della Ragion pura, il Kant criticista -, sia che rappresenti (esprima in parole) l'assoluto oggetto (Dio), sia che si rappresenti il soggetto assoluto (Io), non se li può rappresentare che praticamente, come postulati. Essi posson esistere in un mondo noumenico, sono dei pensabili, anzi sono le condizioni necessarie per pensare - inteso il pensare come valutare praticamente o giudicare teoreticamente (spiegare) il fenomeno -; ma ciò che realmente esiste, ciò che il pensiero, pur trascendendolo, giudica esistente, nel tale o tal altro modo concettuale, è il fenomeno: "il cielo stellato sopra la testa", ossia un concetto spaziale relativo ai sensibili, "il sentimento del dovere nel cuore", ossia un concetto dell'io come fatto di natura. Allorchè vado a cercare che cosa sia questa natura del sentimento, non trovo che un fascio di nervi in eccitazione; allorchè mi chiedo che cosa realmente sia la continuità del soggetto, non trovo che memoria e adattamento organico; allorchè voglio capire che cosa sia il pensiero stesso che ora pensa, debbo farlo consistere in uno sforzo d'attenzione che si attua in parole. La realtà è la natura. . La critica dopo Kant è andata ancora più in là, fino a un radicale empirismo, fino a un assoluto nominalismo. Di reale non c'è che l'esperienza nel suo divenire, nel suo farsi attuale; i valori son tutti qui, nell'esistere di ciò che esiste individualmente, nelle qualità contingenti sempre nuove e molteplici del farsi attuale. Il pensiero stesso è reale in quanto si attua ne' suoi contenuti; in quanto forma, idea, non si tratta che di schemi astratti, traduzione schematica dell'esperienza che, anche per lo Hegel, segue il farsi reale, è reale per il già fatto. In fondo, la "realtà" stessa è una parola: esiste la sola esistenza, e l'unico vero modo di conoscerla, se non è la medesima coscienza intuitiva che ne rimanga al livello, è tutt'al più la conoscenza storica, che rivive attualmente il fatto così come si fece, nella sua individualità e particolarità. Anche qui, contingentismo e attualismo hegeliano si possono dar la mano l'esperienza non si trascende; anzi, la trascendentalità (anche etica e religiosa) non è che esperienza. . Ma, pur rimanendo nella nostra posizione, più vicina a quella kantiana (perchè facile è combattere l'arazionalismo di coloro che ragionano!); e riconoscendo la trascendentalità dei valori non come un reale teoretico, che appunto si dovrebbe ridurre al mero fatto, ma come praticità e dover essere assoluto - la "cosa in sè" oggettiva, l'"Io" soggettivo, irriducibili al reale dell'esperienza, che per quella diviene reale nel pensiero come per questo diviene ideale -, è ormai evidente che la filosofia non può fornire una prova teoretica della loro realtà, non può dimostrare che i valori sono reali (che la praticità è teoretica), dal momento che il teoretico, il reale, ci apparisce ormai come un caso del pratico, del dover essere, relativizzato all'esperienza. Ritornare da questa a un Io puro come reale in sè è una petizione di principio, alla quale si deve l'insoddisfazione che lascia in tutti l'idealismo filosofico, la cui bellezza pur ci attrae così fortemente. Perciò già appariscono i ritorni al realismo ontologico, o i tuffi nel misticismo. . Ma, dopo un secolo e mezzo di criticismo, non possiamo ritornare alla filosofia trascendente senza rinunciare ad esser filosofi. La prova dell'esistere in sè dei valori, che per noi sono soltanto fini pratici e sentimento, ce la può dare soltanto l'esistenza, ossia la sensazione; ma ce la deve dare prima che il sensibile venga superato in un particolar valore teoretico, prima che si realizzi in un concetto o in un'idea che lo trascende. Non è una prova teoretica, è una prova metafisica. Nell'intuizione stessa sensibile, prima di salire alle idee, la trascendentalità del valore è immediatamente presente come forma sensibile, come forma "estetica". Non soltanto il bello è rivelatore dei valori in sè, ma n'è anche l'unica prova possibile, perchè soltanto nelle esistenze sensibili noi ormai possiamo dire che qualcosa è in sè e per noi al tempo stesso... ... . ... CAPO 5. LA REALTÀ E IL VALORE SENSIBILE. ... . ... 1. . Il soggetto, per sè stesso, è sempre pratico. Praticità e finalità sono i caratteri coi quali denotiamo la pura soggettività: il primo termine allude a ciò che possiamo chiamare la natura soggettiva dell'esperienza (il soggetto psicologico), ma è sinonimo del secondo che indica il rapporto di mezzo a fine costituente i valori, in quanto soggettivi, della medesima. Non appena scorgiamo degli infusori natanti in una provetta i quali s'affollano verso il raggio di luce che vi facciamo cader sopra, siamo indotti a parlare di esseri "animati", pur sapendo che questo elementare tropismo si riduce a leggi di necessità naturale, e che in essi manca la consapevolezza così del fine come del mezzo. Del pari, all'estremo opposto, l'azione umana, per quanto sia naturalmente condizionata, la chiamiamo spirituale in quanto diretta a un fine libero. Perciò quando consideriamo la vita animata - quando cioè essa è già un "dato", un contenuto della nostra attuale conoscenza -, la dobbiamo sempre pensare come una relazione di soggetto a oggetto: obbiettivamente, azione e reazione (causale) dell'uno su l'altro, ma inteso anche il soggetto nella sua organica concretezza reale ossia in natura (unico modo possibile di conoscere realmente il soggetto, di realizzarlo in un oggetto); subiettivamente, antinomia od accordo sentiti come coscienza, ossia valutazione e conoscenza. . Il rapporto cosciente fra un soggetto, presente (esistente) come sentimento rappresentativo della finalità puramente soggettiva (pratica), e un oggetto, dato come sensibile rappresentativo di altro fuori di sè (e quindi fuori del me attuale)(12), lo chiamiamo volere: una parola, giusto per indicare il rapporto di valore, il dislivello tra il fine sentito (o il dover essere rappresentato) e l'esistere dato attualmente. Questo dislivello sentito, quest'antinomia o coscienza pratica è la ragione del pensiero, destinato a colmarlo. Come ciò avviene? Il "come" è una questione di fatto, e perciò psicologica e obbiettiva (naturalistica, correggendo il sovrannaturalismo della psicologia corrente); la "ragione" è una questione filosofica, che poi vedremo meglio. . Per la psicologia, come dissi, il pensiero non è un'attività diversa dal volere. Questo si riduce a un rapporto finalistico, che l'osservatore pone per partecipazione (rivivendolo) fra una sensazione, ch'è uno stimolo sentito come spiacevole o men piacevole, e una nuova sensazione appagante, ch'è poi l'atto pratico e la modificazione che ne consegue del rapporto di soggetto a oggetto in quanto qualcosa muta di fatto, sensibilmente (l'atto pratico trasforma il mondo, produce qualcosa). La volontà diretta e immediata ("pratica" in senso più stretto) è detta spontanea e impulsiva; ma essa implicitamente già possiede un valore teoretico, la percezione, e un valore pratico (in senso largo), la valutazione del percetto come mezzo o fine piacevole. . Risale anche oltre il Taine l'osservazione, che una percezione non è che un ragionamento abbreviato (o meglio, automatizzato); e del pari un sentimento implica la valutazione pratica di tutta la sensazione onde emerge, anche se non pongo in evidenza il mio fine come dover essere e il rapporto di questo con l'essere reale, col percetto. . Il pensiero è quel volere per cui si esplicano ed evidenziano i valori impliciti (si scopre) e se ne producono dei nuovi (s'inventa). Lo psicologo non trova, non può trovare, una realtà, una natura diversa da quella del volere in genere: trova soltanto condizioni più complesse nell'unità degli elementi contingenti (per es. lo stimolo dubbio, che può esser diversamente percepito; o una ambiguità o pluralità di fini possibili, ossia una plurivocità di sentimento ecc.), per cui l'atto pratico, quello che modifica il reale dato, viene sostituito da un atto conoscitivo (per es. la parola). Il pensare, come il volere in genere, lo diciamo un'attività proprio e soltanto nel significato naturalistico del termine: per indicare la causalità che lega due dati dell'esperienza (per es. la sensazione di sforzo dell'attenzione e la sensazione dell'atto, della parola che lo attua). Il pensiero è attivo in quanto diviene realmente, in quanto fa qualcosa; non è una misteriosa potenza che stia sotto il suo atto, è un modo di agire di quella concreta esistenza obbiettiva, ch'è l'essere individuale dato in una sensazione. . L'atto del pensiero, il suo esistere, si chiama "idea"; ma non è una "cosa" diversa dal dato sensibile: la differenza sta unicamente in ciò, che un atto (il percepire attento come il fare di proposito, l'agire come il parlare) è un'idea in quanto rappresenta un fine e un valore che lo trascende (che non si realizza tutto nel sensibile). Si potrebbe anche dire, che un'idea è quel sensibile che è cosciente del sovrasensibile: è cosciente dei valori ch'esso rappresenta ma non esaudisce e per i quali esso "vale"; e questa coscienza è almeno il sentimento del dislivello fra l'esistere attuale e il fine soggettivamente sentito. Allora l'attività pratica, il volere, si serve dell'atto (e specialmente della parola) per rappresentare il valore, il dover essere: l'essere di un atto (qual'è per es, la parola) non conta più niente per sè. . La coscienza che, non paga dell'esistenze sensibili, le nega o se ne serve sol per affermare (per produrre idealmente) i valori (soggettivi e oggettivi) che le trascendono, è il conoscere: un modo del fare (ossia del divenire); però, un fare per valutare, un giudizio. Ma evidentemente la conoscenza, l'idea, non è che un mezzo, una tappa dell'essere, che mette in evidenza i suoi valori impliciti e li prende come idee del dover essere per realizzarli come esistenze. Anzi, il parlare medesimo, il costruire i valori in linguaggio, è già un attuarli realmente; e in generale, il fare pensatamente, la volontà cosciente, è un attuare nella contingenza (ossia, come "si può", realmente) i valori trascendentali. Nessuno mai riconoscerà più di me, sensista, il valore di un'idea! ... . ... 2. . Ciò ricordato, mettiamoci ancor una volta nella posizione galileiana, di chi, data un'esperienza qualunque, per es, un pezzetto di ferro attratto da una calamita, in assenza o astraendo da ogni altro interesse o fine soggettivo, si pone a fine l'oggetto stesso, la pura conoscenza teoretica: conoscere per conoscere. Conoscere per idee significa semplificare ancor più quella semplice esperienza; impoverire l'esperienza di tutte le sue contingenze per ridurla a immagini generiche o astratte di sostanza e causa - per es. di corpo e moto, materia ed energia, e simili (mettiamo, "ferro" e "attrazione") -; poi, se vi riusciamo, a semplicissimi rapporti d'identità esplicati in parole di valore astraente, come il linguaggio matematico, che non conservano nulla di sensibile, nè quindi d'immaginativo (fuor che sè stesse!), e possono pertanto rappresentare l'identità logica senza residui di molteplicità empirica, fuori del tempo storico e perciò, valevole anche per l'avvenire. . Il nominalismo contemporaneo non ci obbliga punto a dispregiare la conoscenza oggettivante e la scienza: ne induce soltanto a sapere ciò che vogliamo. Vogliamo contentarci di vedere, di toccare, di conservare in tutta la sua contingente realtà questo singolo ricco originale spontaneo farsi attuale della nostra esperienza? Ne istituiremo la storia; ossia, per quanto è possibile, lo rivivremo e lo faremo rivivere nella sua individualità qualitativa. Vogliamo invece conoscer per concetti, ossia "spiegare" il fenomeno, trascender l'esperienza particolare per fissarne le "ragioni" universali? Allora, ripeto, prima parleremo di ferro e d'attrazione, e poi via via di campo magnetico immaginato come uno spazio in cui un imponderabile mezzo elastico agisca per spostamenti; fin che giungeremo a pensare il fatto in una formula, in una legge: la natura. Sol che questa natura o dover essere in sè del fenomeno, non è più un qualcosa trascendente - poi che è un'ipotesi da noi stessi inventata -, ma è il valore trascendentale, razionale (nel nostro caso, scientifico) dell'esperienza. . Nessuno dunque sarà oggi così dogmatico da credere che, anche nel caso della conoscenza più obbiettiva e scientifica, si sia eliminato il soggetto, nè dall'oggetto conosciuto come reale, nè tanto meno dalla conoscenza. Tutti sanno che conoscere non è riflettere passivamente qualcosa che stia fuori di noi, ma un costruire la realtà come verità oggettiva; e mai quanto nel citato esempio del conoscere strettamente teoretico, il soggetto è altrettanto attivo, la volontà attenta e disciplinata, il pensiero formativo e concettuale. Il metodo galileiano non elimina il soggetto pensante dall'oggetto pensato: vuol solo evitare che la praticità soggettiva e gli "idola" che ne derivano limitino la teoreticità del fine oggettivo puro. . Ma qui bisogna approfondire. Risolvere il problema della scienza è come risolvere il problema della conoscenza in genere, in quanto è conoscenza teoretica: la scienza non è che la forma più squisita e controllata del modo comune di pensare per concetti; l'osservazione scientifica non è che una percezione metodica, l'analisi e la sintesi delle scienze non fanno che perfezionare la comune astrazione e generalizzazione; la "natura" dello scienziato non è che il "mondo reale" dell'uomo comune, reso del tutto obbiettivo. Se si dubita del valore di questa obbiettività, ossia del valore di realtà della "natura" - perchè si pone in altro la realtà del valore (nel sovrannaturale, come un tempo; nella soggettività, oggi) -, si dubita inclusivamente del "mondo" affermato dal senso comune. . Alla parte più superficiale dell'odierno prammatismo(13) è facile rispondere. È vero che i concetti dell'intelletto, e tanto più le leggi scientifiche, sono strumenti economici della vita e obbediscono a esigenze pratiche o affatto utilitarie. Sì, anche una qualunque idea generale, per es. "seggiola", io l'applico deduttivamente, quando n'ho bisogno, a un nuovo percetto cui si possa estendere. Ma ciò non implica che sia soggettivo e pratico (in senso stretto) il processo induttivo con cui quell'idea s'è formata; anzi, l'applicabilità dei concetti ai fini pratici è in ragione della lor oggettività teoretica. Affinchè una legge scientifica sia fonte di applicazioni utilitarie, è necessario che sia reale e vera in sè. Perciò la volontà pratica, pur agendo da stimolo della ricerca oggettiva, dovrebbe pur sempre, per così dire, restarne fuori: l'uomo ha ben appreso che, per dominare la natura, bisogna conoscerla così com'è indipendentemente da lui. . Inoltre, pur convenendo che il conoscere è una costruzione del soggetto, è un fare, e quindi soggettivamente è un volere; che pertanto è un modo e un mezzo dell'attività pratica, si deve subito aggiungere che il conoscer teoretico, e tanto più la scienza, sono un voler conoscere, e realizzeranno il volere in quanto vogliono e raggiungono una realtà obbiettiva, costruiscono qualcosa che non è più "io" ma "mondo" e "natura" quali debbon essere in sè. Il prammatismo stesso, che valore avrebbe, se non fosse e volesse essere una verità oggettiva, un concetto reale? Allora il problema si converte in quest'altro: la praticità soggettiva in che modo diviene teoreticità? Il che è come chiedere: in che modo il soggetto si oggettiva? Basta forse volerlo, basta convertire in teoretico il fine pratico? Ma, data la praticità e soggettività di tutti i valori, non è la loro verità e realtà un'illusione? ... . ... 3. . Qui il prammatismo epistemologico affonda le sue radici nel soggettivismo dell'odierna filosofia, benchè questo spesso ripudii quel suo figliuolo troppo americano. L'unica realtà di cui si possa parlare è la "nostra" realtà. Il soggetto è già reale in sè, perchè è il solo essere già dato quando incominciamo a conoscere, il solo di cui non si possa dubitare e da cui non si possa prescindere. Gli "oggetti" sono "momenti" del suo real divenire: le idee (ossia le conoscenze) sono le cose istesse, reali perchè attuazioni dell'io, non perchè miticamente corrispondenti a una inammissibile cosa in sè. . La posizione dell'antico realismo viene così doppiamente capovolta: in noetica, parlando del pensiero come rapporto conoscitivo (dialettico) di soggetto a oggetto, traduzione logica dell'antinomia di pratico e teoretico; in metafisica, considerando il reale divenire come l'attuarsi dello spirito nella natura. La natura è un'idea astratta del pensiero, ma che non possiamo astrarre dal pensiero. Il pensiero se la costruisce per antitesi all'io pensante, ma essa vale soltanto per lui, come momento oggettivo del pensiero stesso. Infatti l'idea di natura è un modo di unificare l'esperienza mediante le categorie di sostanza e causa, le quali non son degli enti esistenti in sè, ma strumenti puramente formali del pensiero per attingere quella necessità e universalità che deve valere obiettivamente, appunto come realtà dell'essere e del divenire. Ora, questa necessità e universalità obiettiva raggiunta coi concetti di natura unificanti l'esperienza, non potendoci venire dai particolari contenuti di questa, è a priori, è il pensiero che ce la mette: è il soggetto in quanto Spirito universale e assoluto. . Più rigorosamente, dopo Kant, si dice che i valori del pensiero sono immanenti ne' suoi oggetti. Teoreticamente, la realtà dello Spirito dà valore reale alla natura obbiettivandosi per conoscere: questo, se si parla del pensiero in astratto; ma in concreto poi, il pensiero si attua, il soggetto diviene e si realizza nell'esperienza, per la quale esso vale. La realtà immediata e metafisica del soggetto pensante (universale) è il suo attuarsi nell'oggetto contingente, nell'esperienza concreta. Perciò anche la conoscenza, che come astratta idea è natura (scienza), come idea reale è storia, è il divenire stesso reale così come diviene. . Tal contingentismo riaccosta gli hegeliani alla corrente intuizionista (proveniente, in fondo, dal positivismo), e per questa via, come già dissi, facilmente si giunge a convertire l'idealismo in un radicale empirismo: se la realtà dello spirito non è che il divenire storico e di fatto - e anzi questo "fatto" non è che astratto contenuto conoscitivo dell'atto reale, ond'è che la storia stessa vale, come sapere, in quanto è sempre attualità soggettiva -, quella famosa trascendentalità dei valori, quel dover essere dello Spirito, pratico (l'eticità) e teoretico (la verità), che costituisce il carattere di universalità e necessità del suo essere assoluto, dove mai andrà a finire? Su che ci fonderemo più per giudicare buono un atto, vero un oggetto? Immanentizzato del tutto nell'atto e nei contenuti, anzi in essi realizzato, il valore non li può più superare se non in quanto un atto (e quindi un oggetto) si relativizza col suo precedente, che diviene un disvalore, il male e l'errore del bene e del vero attuale. . Di ciò approfitta il prammatismo per svalutare l'intelletto e prenderne i concetti come mezzi strumentali ai servigi della soggettiva empirica esperienza. Ma questo soggetto empirico di cui ora parliamo, non è anch'esso un particolar contenuto, un oggetto astratto (se preso in sè) di quella vera, di quella necessaria e universale realtà, ch'è propria soltanto del pensiero in atto, ossia che è già data, per l'idealismo, come assolutamente a priori? Il Soggetto assoluto, lo Spirito, preso come realtà di tutti i valori, non è l'oggettività stessa? . Piuttosto chiediamo: questo Oggetto assoluto, che si chiama Soggetto perchè si attua in quelle idee, ossia in quegli oggetti che sono i miei particolari oggetti, è un principio, oppure è proprio il farsi, il divenire reale? Evidentemente è un principio, è un postulato o idea formale, reale come idea della oggettività: principio della realtà, ma non real divenire se non in quanto si attua particolarmente. È negli oggetti particolari che noi lo troviamo come coscienza conoscitiva; e ad esso, come a un postulato, rinviamo la certezza reale. La realtà come oggettività universale e necessaria rimane un dato a priori, di "natura" soggettiva perchè postulato del soggetto, ma unica "ragione", misticamente addotta, del suo farsi oggettivo come particolare atto ed oggetto. Il problema resta al punto preciso in cui lo aveva lasciato il Kant. . L'idealismo non ha risolto che il problema interno della filosofia, dando a questa il compito strettamente teoretico che la distingue dalla religione come dalla conoscenza empirica, le quali rimangono nell'antinomia di soggetto e oggetto escludendo l'uno dall'altro (pensano per antitesi pratica invece che per sintesi teoretica pura). L'antinomia pratica di soggetto a oggetto - l'incontentabilità morale, ma anche il dubbio conoscitivo -, vissuta come sentimento e volere (conoscenza pratica), si esplica come dialettica del pensiero mediato, il quale traduce quell'antitesi assoluta in un'opposizione relativa, presupponente l'identità essenziale dei due termini (l'unità di coscienza). Questo fu il passo compiuto dallo Hegel sopra il Kant, il quale già aveva trasportato il dualismo delle sostanze cartesiane nell'interno del pensiero, ma ne aveva rinviato l'unificazione ai regni dell'inconoscibile noumenico. Perciò, come vedemmo, anche la filosofia kantiana rimane una posizione pratica e deontologica: la realtà dei valori è un dover essere. . La posizione dialettica invece è, o vuol essere, teoretica (anche riguardo ai valori pratici): dal punto di vista logico, il soggetto pone l'oggetto e lo distingue per negazione della sua propria soggettività, ma l'oggetto non cessa, d'esser tale per un soggetto, d'esser un'idea (e non una realtà in sè); dal punto di vista metafisico, il soggetto si attua di volta in volta in quel reale oggetto ch'è la sua propria (e unica!) realtà. Allora non c'è più una materia separata dallo spirito, un corpo separato dall'anima, una cosa separata dal suo valore; e nemmeno ci dev'essere una conoscenza oggettiva teoretica separata kantiananiente da una conoscenza puro pratica. La forma vale sempre ne' suoi contenuti, l'essere si realizza nel divenire; esistenza e trascendenza si conciliano nell'immanenza del trascendentale nell'attuale esistere (soggettivo), il quale diviene così l'essere teoretico del dover essere kantiano. ... . ... 4. . Di questo sviluppo dal Kant dobbiam esser grati allo hegelismo. È come se una mano potente ci obbligasse a piegare il collo e lo sguardo, dal cielo delle idee platoniche al concreto "sinolo" aristotelico, escludendone ogni residuo di realismo, perchè l'atto del pensiero, quand'è giunto all'autocoscienza della filosofia (teoretica pura), non presuppone altro che sè stesso: non v'è più un oggetto dato a posteriori; una materia esistente come fenomeno, che si riduce a un'idea già pensata, o meglio a un pensiero ripensantesi; come non v'è un'intelligenza esistente fuori di noi e identica a sè stessa che faccia da motore immobile del divenire, perchè la ragione esiste nel real divenire, è l'esperienza stessa che si fa ragione. . Se ne dovrebbe dedurre, come criterio filosofico, il bisogno di riportare tutti i problemi in termini di pura esperienza criticando ogni realismo (idealista) che cercasse ancora il fondamento reale fuori dell'attuale esperienza per obbedire a esigenze religiose oppure pratiche; e infatti perfino la teologia, sotto quell'impulso, ha tentato di diventare una filosofia della "esperienza religiosa" e della "azione". Quanto alla scienza, la critica che il nuovo idealismo (realista) muove al naturalismo, non è dunque di esser oggettivo, ma d'esserlo astrattamente, di prender l'idea di natura come un reale oggetto. La natura non ha dunque realtà? Sì, come ogni idea, anche l'idea di natura è reale; ma questa (parziale) realtà del sapere obbiettivante consiste nel suo stesso farsi, come storia del pensiero scientifico: non in una realtà di natura fuori dello scienziato. Del resto gli scienziati, queste cose ormai le sanno fin troppo; e di qui appunto rinasce il problema del sapere oggettivo come l'abbiamo di sopra impostato. Ma, pregiudizialmente, rinasce in filosofia il problema della realtà! . Osserviamo intanto, che lo stesso criterio che non lascia sussistere un oggetto in sè fuori dell'esperienza, non dovrebbe più lasciar credere a un Io puro fuori del particolare empirico io, o anzi del suo attuale oggettivarsi nel non-io contingente: in quell'idea e in quell'atto, cioè, di cui l'Io puro non sarebbe che il principio trascendentale, la forma - soggettiva in quanto pratica e deontologica, non in quanto realmente esistente - dei contenuti, esistenti in quanto sensibili. Tale a rigore dev'esser, secondo me, la posizione consequenziale del criticismo, che un larvato misticismo risospinge allo "Spirito" a traverso l'ambiguità dei termini. . "Esperienza", è vero, significa ormai "coscienza"; e perciò l'idealismo sembra metter capo al soggettivismo, anzi al solipsismo. Ma "coscienza" non è più un termine psicologico (ne abbiam visto l'assurdo); non indica un qualcosa, una natura del soggetto (il soggetto empirico), che sarà uno de' suoi oggetti, quando lo pensiamo in accordo con gli altri. La coscienza in quanto pratica è il dislivello, l'antinomia del sentimento con le sue condizioni di fatto (è il volere); in quanto teoretica, è la mediazione fra gli opposti, la conoscenza del fine e del mezzo oggettivo, la costruzione dell'oggetto reale e ideale, e, insomma, tutto il mondo conoscibile: esperienza, appunto. Tale mediazione conoscitiva è pensiero? Benissimo; ma il pensiero, in questo caso, non esiste in sè dietro l'esperienza: n'è il nome teoretico, come praticamente è un atto, un fare, un esistere sensibile del rapporto finalistico fra i due astratti termini di forma e contenuto del pensiero. . Se dunque postuliamo un "pensiero pensante", una causa causante di tutto il pensiero pensato, ossia oltre il mondo definito "reale", non si tratta più di uno Spirito reale e universale al tempo stesso, che sarebbe un'ipostasi di vecchio stampo: si tratta del principio stesso di universalità e necessità immanente nel conoscere teoretico; la "regola", per dirla kantianamente, del farsi reale. Ancor più esattamente, si tratta della praticità del teoretico, perchè la finalità teoretica si pone per sua regola il dover essere in sè, la sostanza e la causa assoluta. . Concludendo, il criticismo non risolve il problema del reale, ma lo pone in termini di esperienza e di coscienza. Noi ora dobbiamo con l'esperienza dimostrare il trascendente: dobbiamo cioè cercarne l'immanenza nel sensibile, senza ritornare ad affermare il sovrasensibile in sè, opposto all'esistere, quale apparisce alla coscienza pratica. Questo superamento dell'eticismo filosofico era la consapevole missione dell'hegelismo. Dopo l'accennata revisione, noi non abbiamo alcuna difficoltà a metterci da questo punto di vista, che spinge a cercare i valori reali nelle contingenti esistenze, e in ultima analisi, nei sensibili, negando esistenza reale ai valori puri. . Storicamente parlando, possiamo enunciare il problema così: dimostrata dal Kant "impossibile" la prova ontologica di S. Anselmo e di Cartesio, perchè di astratta logica formale, la filosofia contemporanea vorrebbe sostituirvi la prova di fatto, la prova dell'immanenza dei valori nel concreto farsi attuale. La logica reale pàrte dall'identità dell'idea e della cosa nell'esistere attuale: nulla dimostra meglio la realtà che la presenza di fatto vero come quel fatto. La scienza più reale è la storia; la filosofia più teoretica è quella che riconosce che ogni cosa dev'essere quello che è... Naturalmente, una simile constatazione non ha più alcuna praticità e lascia, ossia ritrova al punto di prima tutte le cose, si chiamin pure idee; e quindi anche i problemi filosofici in quanto problemi, aspirazione a sapere e a fare, risorgono per superarla: il "concetto puro" vuol superare il concetto-cosa (l'oggetto), l'autocoscienza vuol superare la coscienza. Dovrebbe tuttavia restar fermo il criterio. che quei problemi non si posson risolvere trascendentalmente (se non praticamente). ... . ... 5. . E invero, che cosa saran mai il pensiero "puro" e i concetti "puri" dell'odierno idealismo, se non sono la ragion pura e l'"idea" kantiana? Un concetto è puro in quanto si spoglia di tutti i contenuti dell'esperienza - che abbiamo ormai chiamata conoscenza (teoretica) reale (storia) -, per diventare formale, per rappresentare l'universalità del valore. In questa pura forma, che il Kant chiamava sintesi a priori, il pensiero, come ben vedemmo, esprime soltanto una regola o una legge in sè, e non ha più altro contenuto che, il pensabile stesso, che pertanto si può dir noumenico. . La storia della filosofia e la psicologia del pensiero umano son lì a dimostrare, che è sempre esistito ed esiste, fiore estremo d'ogni civiltà, questo pensiero puro come attività separata e anzi antitetica a quell'esperienza e a quel fare, che pure abbiam detto pensiero (reale). In tal caso, il pensiero "puro" trovasi come una realtà storica e psicologica accanto, e sia pure al di sopra del divenire reale empirico, e, se si vuol distinguere da questo, non si può al tempo stesso confonderlo nella famosa formula hegeliana dell'identità di realtà e pensiero. Il pensiero puro, la filosofia in senso largo, sarà una realtà (storica), un momento del divenire, come psicologicamente è un'attività, un fare: ma esso fa, produce delle idee, rappresentate dalle parole, che sono inconfondibili con le cose e i fatti dell'essere e del divenire esistenti (esistono come parole). . Proprio perchè prescinde dalla "realtà", il pensiero può farsi puro, e formare i valori in sè, o, come si suol dire, "creare": io direi "inventare", termine che indica la essenziale praticità del pensare. Tal'è, squisitamente, il pensiero etico; etico non soltanto perchè posizione pratica, pensiero rivolto al dover essere; ma anche perchè questo dovere non è pensato come condizionato da alcun essere esistente, risolvendosi in una regola di condotta che vale per tutti anche se nessuno l'ha mai seguita o la potrà mai seguire. L'imperativo categorico è "vero" anche se non esige realtà fuori di quella della sua enunciazione. Aveva ragione il Locke di osservare (giudice non sospetto) che il pensiero etico, proprio perchè costruisce liberamente le sue idee come idee "morali" e le sue regole conformi al suo volere, è la forma di ragione più vera, nel senso ch'è la più certa e probante, potendo formare i suoi concetti in perfetta coerenza col fine ideale e non attendendone prova che dal proprio assenso (pratico). . Ma lo stesso si può dire di tutto il pensiero puro, proprio perchè, in fondo, il pensiero è puro (o si purifica) in quanto è pratico, è trascendentale, è rivolto al dover essere. Tali sono tutte le idee metafisiche. Il principio metafisico di una sostanza assoluta e di una causa prima è vero, verissimo come principio necessario al pensiero e non esige altra esistenza che il suo esser pensabile (esistenza noumenica); falso sarebbe solo il pensare che lo si possa incontrare domani per la strada, come un reale teoretico. Tutte le scienze pure, del resto, partecipano del vantaggio d'esser "vere" assolutamente in proporzione del loro grado di formalismo, ciò che le rese l'ideale del sapere per tutto il razionalismo. Una scienza formale (come le matematiche, la logica formale, la logistica o logica matematica), o una scienza in quanto formale (come la meccanica "razionale"), è pensiero che, almeno temporaneamente, prescinde dai contenuti dell'esperienza per cercare rapporti universali e leggi in sè. Esso costruisce e inventa col sostituire tipi, simboli, modelli ai contenuti reali, e col partire da ipotesi o postulati ideali invece che dai dati dell'esperienza. Ne risulta una dottrina certa come dover essere, vale a dire una verità certa come pensiero, ma distinta, e anzi antinomica (in quanto, in fondo, pratica, ossia dogmatica) alla verità semplicemente "probabile" del concreto pensiero "reale". . La filosofia dallo Hume in poi non è uno di questi pensieri puri e formali, perchè è la loro critica. È "autocoscienza" solo nel senso ch'è riflessione sulla coscienza (su l'esperienza), e quindi critica della conoscenza. La critica, non avendo un contenuto proprio da realizzare, ma dovendo soltanto riflettere sul valore delle altre attività, è disinteressata scepsi, ossia diviene puro metodo teoretico; e questa è la sola purezza della filosofia odierna. Allora, tutta la critica si aggira intorno a quei due problemi di cui parlammo fin da principio: l'uno sulla realtà dei valori, problema pratico e definizione del soggetto (o meglio, della soggettività del reale); l'altro sul valore di realtà, che definisca l'oggetto come realmente oggettivo, problema teoretico (critica della conoscenza). Ma ambedue questi problemi si debbon incontrare e mediare nella ricerca del fondamento del reale ut sic, senza di che il valore sarebbe sempre un "come se" e un'illusione dei metafisici, e il reale sarebbe soggettiva "impressione" e illusione dei fisici. Lo scetticismo diverrebbe allora l'unica conclusione "possibile" d'una critica puramente teoretica. . Restando nel criticismo, che riflette la coscienza in tutta la sua infinita estensione (l'infinito divenire dell'esperienza), ma nulla "fuori" di essa (e come lo potrebbe?), pareva assodato che la coscienza sia relazione di soggetto e oggetto, i quali non esistano l'uno esterno all'altro, ma siano, cioè valgano e si facciano, in questa relazione o sintesi della lor pratica antinomia e quindi analitica e astratta antitesi teoretica. Questa relazione dunque costituisce il "valore": valore soggettivo dell'oggetto, che per lo meno è la sensazione sentita (la coscienza pratica), e anche quando col pensiero raggiunge la sua massima chiarezza teoretica resta sempre un'idea implicante la finalità; e valore oggettivo del soggetto, che per lo meno è reale come un atto, e anche quando afferma la pura soggettività (il libero volere) si realizza obbiettivamente nella necessità di una legge che ce lo rappresenti. Allora, quali le conclusioni di un criticismo che voglia restar coerente, e non voglia (per fini pratici) nuovamente uscire dalla coscienza, vale a dire dall'esperienza? ... . ... 6. . Ritorniamo per l'ultima volta alla posizione kantiana, ch'è il punto di partenza più chiaro. Il pensiero è soltanto pensiero in quanto produce ad libitum delle forme, delle idee pure, in giudizi sintetici a priori. La realtà, di queste forme è la lor esistenza storica e di fatto, che la storia e la psicologia conosceranno teoreticamente come un qualsiasi altro contenuto. Il loro valore è pratico (sono invenzioni): infatti esprimono - e "rappresentano" per una conoscenza pratica - il soggetto, la trascendentalità del volere su l'esistere; determinano una regola per il fare (e per il pensare stesso), ma non ne determinano la realtà. Purificando il pensiero da ogni contenuto e riferimento empirico (non restando di empirico che quel pensare medesimo), e purificando il giudizio da ogni particolar soggetto e quindi da ogni fine particolaristico (non restando di finalistico che il volere libero, il soggetto trascendentale), l'idea non rappresenterà l'essere oggettivo, il reale, ma il dover essere soggettivo, l'etico: la pura esigenza che il valore sia valore. . Questa è, criticamente, la realtà del valore, il vero etico: un'esigenza, un postulato di ragion puro pratica, che diviene il fondamento trascendentale del criterio di tutti i nostri giudizi morali. Infatti, applicando quel principio ai soggetti e fini particolari - secondo i sentimenti che la esperienza suscita come empirici motivi all'azione - giudichiamo praticamente del bene e del male in particolare, con giudizi di contenuto utilitario, economico, giuridico, politico, morale, e relativizziamo anche fra loro questi valori. . Essi però non hanno ancora che un fondamento soggettivo. La posizione etica non è che il primo momento, il primo atto del dramma dell'umano pensiero: è l'affermazione dell'io come soggetto volontario, come praticità che, in quanto diventa pensiero e conoscenza, non è conoscenza reale, ma consapevolezza di un'esigenza ideale, che condiziona il giudizio di valore a un principio trascendentale. Ma dallo stesso antinomismo pratico fra il volere e l'esistere, fra il dovere e il fare, e tra la-forma pura (il principio) e i contenuti empirici del divenire, sorge la posizione teoretica, condizionata da questi. Il fine cerca i suoi mezzi, il dovere si deve attuare secondo che può. Il pensiero, se è un volere, non vuol soltanto giudicare e negare, vuol anche fare e affermare: attuare i fini. Il prammatismo e il volontarismo in genere han dunque ragione quando dicono che il pensiero teoretico è un modo e mezzo del pensiero pratico; ma la conoscenza si fa reale, non per un arbitrio del volere nè per un particolare interesse; al contrario, il volere non si attua, il dovere non può essere, che teoreticamente. Il valore deve valere realmente, universalmente. . Allora (secondo momento) il pensiero - e si dica pure il soggetto come volere - afferma e definisce l'oggetto, il non io. La forma pura, esprimente la pura trascendentalità, diviene (e si limita come) a priori teoretico, categoria (per es. la libertà diviene causalità): vale a dire ch'è forma per i contenuti dell'esperienza, "ragione" di questi. Infatti, l'essere reale noi lo conosciamo come un dover essere (sostanza e causa) di ciò ch'esiste (sensibilmente). Nell'analisi kantiana dell'intelletto, la conoscenza è certa come reale quando è sintesi formale dei contenuti intuitivi: ciechi questi senza la forma (nè veri nè falsi), ma vuota la forma (irreale) senza di quelli. . Proprio perchè quella kantiana è analisi della coscienza comune e della scienza, i contenuti son presi come già dati (esistenti) con qualità (sensibili) indipendenti così dal soggetto in genere (come volere), come dal pensiero in ispecie (dalle forme intelligibili); "noi" regoleremo questi contenuti nelle forme spaziotemporali e li spiegheremo nelle unificazioni concettuali, senza poter aggiungere o toglier nulla alle qualità che sono così come esistono. La conoscenza, il pensiero, si fa conoscenza teoretica e scienza (l'idea pura si fa concetto) in quanto prende contenuti empirici, di cui rimane forma unificatrice a priori. . Qui bisogna camminare con estrema prudenza, e non anteporre la soluzione metafisica del problema a quella gnoseologica, che, secondo il Kant, deve precedere, dovendo dirci se i giudizi metafisici sono "possibili" come giudizi reali. Ora, dalla critica gnoseologica kantiana non si deduce ancora che il pensiero crei, produca il suo oggetto - o che il soggetto divenga quell'oggetto -: nel qual caso il soggetto perderebbe la sua trascendentalità, e quindi anche l'oggetto perderebbe la sua vera realtà, e ambedue si ridurrebbero all'esistere come si esiste, senza valore. Altro è dire che il pensiero è sintesi formale dei contenuti dati - che conoscere significa porre dei rapporti fra i contenuti esistenti - conclusione kantiana della critica del conoscere; e altro è dire che il pensiero è sintesi di forma e contenuto, unità essenziale dei due, problema metafisico che per il Kant è insolubile teoreticamente: allora sì tratterebbe del terzo momento del pensiero, la riflessione, mentre dobbiamo ancora concludere sul secondo, della conoscenza reale, per determinare che cos'è un oggetto reale per la coscienza. . È un concetto (per es. "calamita" o "attrazione"); ossia un'idea condizionata dai contenuti sensibili, unificati secondo le categorie o funzioni formali del pensiero che ce li rendono intelligibili. Un concetto è dunque una costruzione del pensiero, ma non una "creazione", dovendo, per valere realmente, convenire ai contenuti fra i quali viene "scoperto" il rapporto. Un giudizio sintetico a priori (per es. "Ogni accadimento ha la sua causa") è, sì, un'invenzione formale, di valore universale in quanto è una "legge" - e in tal senso, in fondo, è pratica ("Ogni accadimento deve avere una causa") - ma la realtà di una tal conoscenza teoretica sta nelle deducibilità dei particolari giudizi su soggetti esistenti ai quali essa fa da predicato, il che dipende dal processo induttivo che l'ha condizionata. . S'intende che il pensiero può lavorare, per così dire, a vuoto: sia perchè la conoscenza teoretica diviene fine a sè stessa - è teoretica in quanto disinteressata e in tal senso obiettiva -, e si può pensare per pensare (fare un giuoco di pensiero), come accade nelle parti puramente formali delle scienze (per es. in matematica); sia perchè si spera di raggiungere un vero più universale, come in metafisica, volando oltre la resistenza dei contenuti dell'esperienza. In questi casi, il pensiero prende a contenuto concetti già formati e ne deduce dei nuovi per via puramente e astrattamente logica, ma senza prova; però, così facendo, ritorna pensiero formale essenzialmente pratico, sebbene guardato teoreticamente. Per es., se ogni accadimento ha la sua causa, è pensabile una causa prima (libera) di tutta la serie; ma quest'idea non è più un concetto reale, pur rimanendo formalmente teoretica: infatti io non la "posso" formulare che in un giudizio apodittico ("Ci dev'essere una causa libera!"), ch'è un giudizio teoretico della ragion pratica ma di valore pratico; oppure in un giudizio ipotetico ("Se la libertà è pensabile, essa può esistere in un mondo noumenico, vale a dire ch'è reale come noumeno"), che è la soluzione critica: conoscenza riflessa e non più diretta del reale(14). ... . ... 7. . Soltanto in questi limiti e condizioni è possibile la scienza come conoscenza reale, che approfondisce e perfeziona la conoscenza empirica e il "senso comune", di cui è la forma metodica e disinteressata. Metodo significa consapevolezza e controllo dell'operazione stessa conoscitiva, che diviene una tecnica volontaria (ossia una pratica della teoretica); il disinteresse ne fa parte in quanto si elimina la soggettività dei fini particolari e, almeno temporaneamente, si sospende la spinta pratica del nostro volere. In altri termini, il conoscere teoretico costruisce l'oggettività del reale (il valore di realtà) ma non le esistenze che lo condizionano; è contemplazione, pensiero "riflettente", e quindi pensiero dell'oggetto, ma non ancora pensiero che sia o divenga il suo oggetto. . Il sapere scientifico si costruisce dunque fra quei due presupposti antinomici, l'a priori della ragione (il valore) e l'a posteriori dei sensibili (l'esistenza), che non spetta ad esso unificare: per la scienza son due condizioni generali del sapere, e cioè due esigenze soggettive e, oggettivamente, due dati dogmatici, ai quali corrispondono i due atteggiamenti della ricerca, parimenti orientata verso l'osservazione e l'esperimento nelle parti descrittive e analitiche, come verso la ipotesi e la legge nelle parti razionali o matematiche. Di qui le opposte critiche alla scienza. Il contingentismo l'accusa di intellettualismo e nega realtà al concetto scientifico, che gli sembra una semplice ipotesi di comodo; l'idealismo le rimprovera il suo empirismo e il suo astratto realismo. Tutti poi sono scontenti - gli scienziati per i primi - dei ristrettissimi limiti d'estensione dei concetti scientifici, e sono insoddisfatti di una conoscenza che non può nè sa conoscere e ridurre a nozione esatta proprio quello che più ci sta a cuore, ossia il mondo dello spirito, i valori morali, il soggetto (il che è come dire, che non sa ridurre il soggetto a un reale oggetto!). . Nondimeno il metodo galileiano è l'unico modo di conoscere oggettivamente gli oggetti percepiti: di costruire un valore in sè delle esistenze. "In sè" non vuol dire "fuori di me" che per il realismo filosofico; per il relativismo scientifico, basta che significhi "universalmente", ossia, subiettivamente, per tutti gli esseri razionali, e obiettivamente per tutte le possibili esperienze. Su l'analisi di questo pezzetto di ferro che si sposta verso la calamita - e cioè, infine, su l'analisi dei sensibili già spontaneamente obbiettivati nella percezione - formare dei concetti con parole e simboli che possono rappresentare in astratto l'universalità del rapporto, la sua razionalità (la sua trascendentalità) e nel contempo la sua convenienza e applicabilità alle esistenze empiriche. . Questa è la scienza, sempre relativa perchè sempre limitata nell'accordo fra il soggetto come pensiero e l'oggetto come esperienza - laddove il pensiero puro pratico è assoluto perchè in antinomismo pratico con l'esperienza -; e vie più specializzata e particolarizzata secondo i molteplici rapporti che l'analisi le suggerisce, data la molteplicità delle qualità sensibili o immaginabili per analogia. Ma, pur fra tali condizioni di relatività, la scienza è illimitata, perchè può sempre scoprire nuove note di comprensione de' suoi concetti e nuovi oggetti a cui estenderli. Non ci stupiremo ch'essa ancor si trovi alla sua infanzia se ricordiamo che cosa sia la storia del sapere scientifico e della ricerca obbiettiva. La maggior parte delle stirpi umane preferirono vivere la vita del sentimento contentandosi di conoscenze mitiche, ossia di tipo pratico, e di restar passivi di fronte alla natura, a cui antepongono il sovrannaturale. A parte la breve parentesi del pensiero cosmologico greco, bisogna venire all'utilitarismo dei popoli occidentali dell'epoca moderna per trovare il terreno adatto, nella specializzazione del lavoro, alla ricerca obbiettiva e disinteressata. . L'apparente paradosso si spiega facilmente. L'utilitarismo è un edonismo, ma è un edonismo razionale, che ha appreso a servirsi della conoscenza teoretica per meglio attuare i fini soggettivi. L'utilitarismo appartiene al razionalismo perchè è la risoluzione teoretica dell'antinomia pratica: il volere è potere a traverso il sapere. Perciò lo spirito realizzatore dei popoli europei promulgò fin dal nostro Rinascimento quel "Sàpere aude", quel coraggio della verità, ch'è la volontà di sapere per fare (ma anche per amare)... . Allora Dio e la Ragione diventan natura e conoscenza reale. La "natura" però è un concetto in continuo sviluppo; esso oggi non implica più un sostanzialismo nè materialista nè spiritualista, e combatterlo in ciò è un combattere una scienza, o meglio una filosofia oltrepassata, chè la scienza, come dicemmo, segue la filosofia del proprio tempo. Le stesse categorie di sostanza e causa, funzioni necessarie in quanto spontanee nella percezione comune, e ancor utili alla scienza odierna nelle unificazioni fenomeniche particolari più concrete, son oggi intese come pure forme logiche, il fondamento delle quali si lascia alla filosofia, com'è suo còmpito, di ricercare. Ciò è ben visibile in tutt'e due le direzioni del pensiero scientifico, sia che si guardi verso l'esperienza, sia che si guardi verso la ragione e l'esplicazione di quella. . Si capisce che una scienza "concreta", come la geologia o l'astronomia, dovendo studiare un oggetto o gruppo di oggetti in tutte le loro proprietà, deve dare a questi attributi un sostantivo comune ("terra", "astri"); e deve intendere le cause che determinano il divenire di questi oggetti come cause "genetiche", come il prodotto della "cosa". Ma le proprietà di un particolare oggetto vengono poi ridotte a proprietà fondamentali comuni, come materia ed energia fisica, affinità chimica, vita ecc., studiate dalle scienze fondamentali in astratto; e le leggi particolari vengon dedotte da quelle generali (per es. l'astronomia dedurrà i suoi principii da quelli della meccanica e della fisico chimica). Ora, queste scienze fondamentali, che il Comte chiamava "astratte" e lo Spencer "astratto concrete" (meccanica, fisica, chimica, biologia, psicologia), non soltanto considerate ciascuna per sè come un corpo scientifico formato di tante parti, da quelle descrittive e analitiche a quelle generali e sintetiche, ma considerate anche nella lor serie di complessità crescente e generalità decrescente, s'incatenano e formano un sistema, che in un senso rinvia dal concreto all'astratto, dal complesso al semplice, dalle cose alle cause e da queste alle ragioni ultime e più generali di tutti i fenomeni; e per l'altro verso ritorna alla qualificazione dei fatti, dal necessario e universale al contingente e particolare. Questa sistemazione e coordinazione è in continuo incremento, sebbene non tutti gli anelli della catena siano oggi saldati (per es. la chimica s'è già unificata alla fisica, ma la biologia non riesce ancora a dedurre i suoi principii da quelli fisico-chimici). ... . ... 8. . Ebbene: considerando il sapere scientifico, non nelle sue specializzazioni tecniche, ma nella sua unità filosofica: si può scorger molto bene come il valore di realtà venga affannosamente e progressivamente cercato nelle stesse direzioni in cui lo pone l'odierna filosofia, che per la scienza divengon soltanto due concetti limite, due condizioni del sapere ch'essa obbiettiva in quanto controlla nelle esistenze per realizzare le forme logiche nei contenuti. . Infatti, nel senso della causalizzazione e spiegazione razionale dei fenomeni, la scienza risolve o tende a risolvere tutte le sostanze in cause, e queste in rapporti costanti del variabile divenire, riducendo l'essere della natura (l'essere reale) a rapporti spazio temporali, ossia a movimenti - sogno di tutta la scienza da Democrito ai nostri giorni -, cosicchè, nelle scienze e nelle parti loro più costruttive e matematiche, la causalità è retta dai soli principii logici d'identità e contraddizione. Per questo verso, ogni scienza o parte delle scienze più concreta e sperimentale rinvia alla unificazione di quelle astratte e razionali; nè si considera più come assolutamente insuperabile il limite segnato dalla presenza d'una proprietà che ci sembri nuova perchè ancora indeducibile da altre già note. . Ma nel senso opposto, ogni accadimento apparisce "nuovo" in concreto, e la contingenza d'un fatto o l'individualità d'un oggetto si presentano ogni volta con caratteri specifici o individuali indeducibili anche dalle loro cause. Non soltanto, per es., la vita è irreducibile all'affinità chimica, benchè prodotto di fatti chimici; ma (vecchio esempio!) la ruggine è irreducibile al ferro e all'ossigeno che l'hanno prodotta, avendo peculiari proprietà che non son quelle del ferro e dell'ossigeno; e ogni cosa, poi, come quella cosa, ogni accadimento come quell'accadimento è originale e quindi indipendente dalle sue cause e condizioni - irriducibile all'identico del "tutto e uno" -, in quanto esiste contingentemente con le proprie note di distinzione! Per questo verso, la corrente del pensiero oggettivo rifluisce verso l'esperienza, che vuol definire per sè stessa o adoperare in atto, e tanto più, quanto più ciò che interessa sapere e fare riguarda la singolarità del divenire (come nei fatti umani) e non la sua unificazione nell'essere. Così dall'astrazione e generalizzazione si ridiscende di continuo, sia verso le scienze tassinomiche e storiche, che attuano conoscitivamente i principii nella definizione degli oggetti e dei fatti, cioè nella conoscenza in particolare; sia verso le scienze applicate, che li attuano praticamente adattandoli alle circostanze. . È fuor di posto chiedere alla scienza se sian più reali le leggi dell'elettrodinamica, o la teoria quantica (più contingentista), o la singolarità di questo pezzetto di ferro. Bisogna chiederlo al filosofo. Per la scienza, il valore di realtà è la convenienza delle due condizioni limite, l'unità nell'identità a cui aspira la nostra ragione come ragion pura teoretica (l'"appercezione trascendentale" di Kant), e l'esistenza del fenomeno come già data nella molteplicità empirica. Ma se lo scienziato intendesse invece come reale l'idea trascendentale per sè (platonicamente), o il contenuto dell'esperienza (empiristicamente), allora davvero la scienza sarebbe senza progresso - che cosa più si dovrebbe cercare? -, ed anche senza praticità. . Infatti nel primo caso avremmo un ascetismo teoretico a cui non può corrispondere che una pratica mistica; nel secondo, un cinismo teoretico a cui non può corrisponder che una pratica cirenaica (se tutto è così come esiste e l'intelletto non è che astrattezza convenzionale, non resta che vivere come si vive, non essendovi altro valore che la sua attualità sensibile, il piacere). . La critica della conoscenza teoretica e della scienza introduce alla metafisica, terzo momento del pensiero che vuol superare i suoi limiti conoscitivi per ritornare assoluto; ma nel tempo stesso gl'impedisce ormai di farlo nella direzione del soggetto puro - della posizione puro pratica - attribuendo a un'idea morale le categorie della realtà che abbiamo appreso esser valide in rapporto all'esperienza. Perciò vi si dovrebbe giungere teoreticamente, sulla stessa via dell'esperienza come conoscenza reale, cercando di afferrare l'assoluta realtà per mezzo d'un'idea che senza antinomia unificasse le due condizioni limite della conoscenza reale, l'a priori razionale rappresentato dalla pura forma, e l'a posteriori dei contenuti per i quali il valore - la finalità e il dover essere soggettivo - diviene concetto reale, essere oggettivo delle esistenze che ce ne rappresentan la realtà. Non si tratta più, ripeto, d'una sintesi formale dei contenuti, come nella conoscenza diretta e nella scienza: si tratta della sintesi metafisica di forma e contenuti, di valore ed esistenza e, infine, di soggetto e oggetto. . Però (si noti bene!), affinchè questa sintesi sia reale - affinchè l'idea metafisica rappresenti la realtà ut sic e non sia un ritorno a una posizione puramente soggettiva -, dev'essere cercata a parte rei, in accordo con l'esperienza, e non in antinomia con i contenuti sensibili; che altrimenti si finisce col dare un frego su tutta la critica della conoscenza, la quale ha definito il reale come concetto unificante i contenuti, ossia come lo concepisce la coscienza, per chiamar invece reale il soggetto puro, invertendo il segno a tutti i termini senz'altro risultato che il divorzio tra filosofia e senso comune. . Un'idea metafisica a parte rei, e quindi strettamente critica e teoretica, è invece la "cosa in sè" kantiana. Fu detta contraddittoria, perchè oggettiva e realistica in un mondo tutto costruito dal pensiero; e perchè causa in sè dei fenomeni in un mondo in cui la causalità riguarda i fenomeni e non l'in sè. Invero, essa è soltanto provvisoria: la "Estetica trascendentale", che introduce all'analisi della conoscenza, dopo di questa si deve risolvere nella sintesi estetica - nella sintesi di sensibile e intelligibile - nel senso accennato dal Kant nell'Introduzione alla "Critica del Giudizio"(15). Ma procediàmo con ordine. ... . ... 9. . Dapprima, per il criticismo, la "cosa in sè" è piuttosto un punto di partenza che un punto d'arrivo, perchè è l'idea metafisica presupposta da tutta la conoscenza in quanto teoretica e non un'idea costruita per sintesi dal pensiero filosofico. Questo si contenta di metterla in evidenza analiticamente allorchè critica una qualunque conoscenza "reale"; gli appare dunque come un postulato teoretico, allo stesso modo che, nel criticare il pensiero pratico, trova che la libertà n'è il postulato pratico che poi conosciamo come idea senza concetto (senza realtà se non analogica).(16) . In altri termini, parlando della "cosa in sè", non si tratta di un'invenzione e di un valore prodotto dal pensiero, quali sono le idee metafisiche della precedente filosofia, teoreticamente "impossibili" appunto perchè non si può, per esempio, predicare degli oggetti reali quell'infinito e incondizionato che vale per i fini soggettivi nè si può predicare del valore spirituale quella "cosalità" che règola le conoscenze reali. La "cosa in sè" vien semplicemente scoperta dalla critica della conoscenza: in ogni pensiero reale, anzi in ogni percezione, anzi in ogni intuizione dei contenuti sensibili vi ha coscienza del soggetto come volere (e quindi valore) antinomico all'esistere, e vi ha nel contempo coscienza dell'oggetto come necessità (e quindi essere in sè) di quelle esistenze, che divengono il contenuto (lo stimolo e l'atto) del volere subiettivo, e perciò delle forme che le riducono a un qualche cosa per noi. Piuttosto che del "fuori di noi" si tratta, del "più di noi". Io non posso guardare quella casa senza implicare che esiste qualcosa in sè che per me è quella casa lì. . La filosofia ha poi rifiutato la metafisica della cosa in sè, dicendo che si tratta d'un "realismo ingenuo". Però, intanto, come filosofia critica deve convenire che quell'idea è presupposta in tutti i concetti reali che si relativizzano ai contenuti dell'esperienza. La critica del pensiero - il quale le apparisce come un'attività sui generis attuantesi in giudizi espliciti nelle forme pure d'idee e concetti espressi in parole e simboli (nel qual caso preferisce chiamarlo "ragione") - rinvia all'analisi della coscienza, cioè della conoscenza implicita in qualunque percezione e atto pratico. Per il criticismo, è la coscienza che deve giustificar la ragione e non viceversa. Allora, criticamente, la conoscenza certa come reale - per questo appunto noi la diremo "ipotetica", ossia men certa dell'apodittica certezza morale - non potrebbe trovar altra giustificazione del suo trascendere il sensibile, del suo unificare i contenuti in concetti razionali, del suo farsi scienza e metafisica, che nel bisogno di raggiungere in un'approssimazione (all'infinito!) quella "cosa in sè", ch'era il primo presupposto del primo conoscere e divien ora l'ultima mèta della conoscenza teoretica. . Solamente a questo punto la "cosa in sè", scoperta dalla critica della conoscenza come un postulato della conoscenza teoretica - ormai identificabile con la condizione limite a parte rei o esistenza dei contenuti -, potrebbe diventare l'idea metafisica d'un realismo filosofico, ossia la conclusione teoretica del criticismo (come avvenne nel positivismo). Il Kant, come si sa, fu assai titubante a tal proposito. Però, le conclusioni metafisiche del criticismo secondo lo spirito kantiano sono coerenti alla sua posizione essenzialmente pratica, chè da tutte le parti ormai le condizioni e quindi i fondamenti del valore di realtà come della realtà dei valori sono ideali, sono postulati puro pratici enunciabili come regole e leggi del volere e del conoscere. Essi rinviano quindi l'unificazione reale e l'unità stessa di soggetto e oggetto a un mondo noumenico teoreticamente inconoscibile. Proprio perchè ci dev'essere unità di soggetto e oggetto, noi siamo spinti a unificare l'esperienza in particolari leggi dirette dall'"appercezione trascendentale" verso una unità reale in sè. . Pertanto non è affatto contraddittorio che il Kant abbia concluso esser la "cosa in sè" un "inconoscibile", anzi la "causa" inconoscibile (dell'intelligibilità) dei fenomeni. La "cosa in sè", per la filosofia, non è, ripeto, che un postulato trascendentale - come a dire la ragion pura della teoretica -; è il principio di oggettività (non un oggetto) che troviamo nella coscienza e ritroviamo poi nell'intelletto come a priori; causalità dei fenomeni, appunto: "ragione". In questa ragione ci dev'essere, non soltanto l'unità oggettiva, l'unità del molteplice fenomenico nella realtà teoretica (l'unità dei modi, secondo Spinoza, nella sostanza e quindi il principio della loro determinazione); ma anche l'unità dei valori, come fini soggettivi, col loro esistere e col loro attuarsi oggettivo (l'unità degli attributi, l'unità di coscienza e cosa). . Ma per sapere se e come ciò possa avvenire, non possiamo che rivolgerci all'esperienza in quell'approssimazione concettuale, che sarà sempre parziale e provvisoria, pur non essendo falsa e illusoria. Mentre il razionalismo prima di Kant fu una continua ascesa dall'esperienza alla ragione, una volta che questa è apparsa un principio deontologico ma teoreticamente inconoscibile, non c'era che rinunciare a conoscer la "cosa in sè", il perchè dei fenomeni, e ridiscender dalla ragione all'esperienza, contentandosi di determinarne il come, la relazione. . È una rinuncia alla metafisica per un'approssimazione soggettiva ma relativa al principio di oggettività, già implicito nel realismo scientifico. Sotto questo aspetto, il positivismo della scienza è il più fedele interprete del Kant teoretico(17). Soltanto chi non la conosce può asserire ch'essa sia ritornata a un sostanzialismo materialista o a un causalismo determinista, oggi che perfino la fisica non è che la determinazione relativistica di una semplice probabilità! Piuttosto: avendo la scienza, come s'è detto, i suoi limiti, ch'essa rispetta; ma avendo il pensiero, kantianamente parlando, tutti i diritti, ossia la libertà, di varcarli in una conoscenza, sebbene non più teoretica; quale sarà la nuova metafisica, la metafisica che prolunga il fenomenismo scientifico? Oggi la troveremo al polo opposto all'antico razionalismo naturalista di Galilei, Newton e Cartesio: è la filosofia della contingenza. . Se la domanda "Perchè" è mal posta, non essendovi un perchè conoscibile come sostanza e causa assoluta fuori dei fenomeni, ma solamente un quia, una categoria o a priori teoretico riguardante il divenire fenomenico, alla nuova metafisica non resta che adeguare la ragione al fenomeno, l'universalità e necessità del valore alla singolarità e originalità delle esistenze. E siccome la conoscenza intellettiva e la scienza non riusciran mai a non trascendere il fenomeno - a relativizzarsi alle esistenze (come storia) senza relativizzarle al valore razionale (come teoria) -, ecco che il contingentismo, criticata la scienza col prammatismo; diviene intuizionista per tuffarsi nella "corrente della vita" e per sorprenderne lo "slancio" originale onde sorge il fenomeno come quel dato fenomeno. Però, com'era prevedibile, questo non è più fenomeno d'alcun noumeno, salvo la mistica affermazione d'un Essere consustanziale con la vita: il fenomeno non è più che l'attuale esistenza d'un "io" irrazionale che si sente vivere. È la metafisica dell'"ecceità", lo sbocco storico del nominalismo contemporaneo. ... . ... 10. . Già vedemmo infatti come l'identica esigenza abbia trascinato anche il criticismo idealista verso un analogo attualismo; e qui come là, l'attualità è quella del soggetto. Dal naturalismo scientifico si ritorna a uno spiritualismo in re; dall'essere reale al divenire dello Spirito. . Perchè il criticismo idealista respinge con disprezzo il realismo della "cosa in sè"? Perchè non la può giustificare criticamente in un sistema divenuto tutto relativista. Il mondo è il mondo della nostra conoscenza; la oggettività dell'oggetto è dunque soggettiva, psicologica (sentimentale, io direi): il pensiero ingenuo pone come "non io", perchè lo crede in sè, quell'oggetto ch'egli medesimo costruisce; ma, criticamente, esso è una conoscenza, un'idea; e la "cosa in sè", l'idea di un'idea. Il mondo è il mondo delle idee, non più assolute e trascendenti (se non in quanto ce ne furono storicamente di tali), ma relativizzate l'una all'altra nella forma dialettica, ch'è logica del pensiero e non delle cose in sè; e, come valori spirituali, immanenti in quel divenire attuale, ch'è il divenire e l'attuarsi del pensiero: la sola realtà di cui si possa parlare. . Sembra che questo ragionamento non contraddica il kantismo, dal momento che per il Kant la "cosa in sè" è noumenica e dunque è un pensiero; ma soltanto lo renda coerente. Una volta negata la possibilità d'affermare teoreticamente la realtà del trascendente dalla parte delle forme razionali, perchè richiamarlo dalla parte dei contenuti, come esistenza d'una lor causa, in sè, da noi ignorata? Per giustificare le forme stesse della conoscenza? Ma in tal caso, ritorniamo all'"armonia prestabilita"! Il pensiero contemporaneo preferisce ritornare, se mai, alla posizione humiana: che sarebbe una posizione soggettivista e scettica, se alla realtà in sè della cosa non si sostituisse, quasi di soppiatto, la realtà dello spirito. . Infatti, già nel precriticismo inglese, dopo i vani tentativi del Locke, che ancor intendeva la "cosa in sè" come il coesistere di qualità prime comuni all'oggetto in sè e alla sensazione nostra; e del Berkeley, che riferiva a Dio l'essenza delle percezioni in quanto esse, pur formando tutto il nostro mondo, non dipendon dal nostro volere; con lo Hume l'impresa era apparsa disperata. Dove tutta la conoscenza è relativa e soggettiva, impossibile ammettere una realtà dell'oggetto. L'oggetto è un'illusione; ed in suo luogo non resta che chi s'illude, il soggetto... . Qui comincia l'istoria del soggetto puro, dello spirito reale che prende il posto dell'oggetto in sè. La filosofia critica dopo Kant introdurrà a una metafisica dello Spirito, sia questo un'assoluta realtà morale a cui il pensiero rinvia di continuo e da ogni parte ne riconduce, qual'è l'Io puro di Fichte; o sia invece lo stesso Logos, il Pensiero come soggetto unico di tutti quegli oggetti, che criticamente appariscon come idee e teoreticamente come divenire storico. . L'hegelismo, dapprima muta l'oggettività in pensiero: tutto ciò ch'è reale, è idea (e quindi ragione); poi, realizza il pensiero ne' suoi oggetti, i quali più non sarebbero che i suoi prodotti, o meglio atti: tutto ciò ch'è razionale, è reale. Il primo passaggio è ancora criticista, ma il secondo è metafisico in direzione che sembra perfettamente opposta a quella della "cosa in sè". Prima di accettare Hegel bisogna conciliarlo col criticismo, se ci riesce. . Intanto, nel confronto, ci troviamo davanti a un bel paradosso! Se noi prendiamo il real divenire delle idee nel senso hegeliano, e cioè teoreticamente, sembra che se ne debban escludere, proprio, tutte quante le "idee" nel senso kantiano, le idee pure, di cui non rimarrebbe che il fil di ferro che le regge, il pensiero come attività psicologica e accadimento storico nel tempo. Per esempio, un'idea morale - sia questa un postulato o un imperativo, come la libertà o il dovere; oppur sia magari la rappresentazione corrispondente di un dover essere, come il Bene, la Giustizia ecc. - non è certo una conoscenza reale, ma un valore ideale; perciò non si attua nel tempo e nel divenire storico che come quel particolare atto del pensiero. Allora, dell'idea pura e universale, che diremo noi? che il valore di un'idea pura è reale perchè c'è realmente quell'idea? In tal caso, tutti gli universalia sono reali; e se no, son reali soltanto le parole, flatus vocis perduti nel tempo... . Il Kant poteva parlare di "realtà morale", che avrebbe per soggetto la "persona morale" e per oggetto il "mondo morale". Questi vocaboli, che usiamo parallelamente per il soggetto e l'oggetto conoscibile (ossia sensibile), vengono presi analogicamente - tutto il linguaggio soggettivo è analogico - per dare un sostrato a dei predicati morali, i quali però, non essendo mai analitici ma sempre sintetici, non presuppongono alcuna loro esistenza in quel soggetto od oggetto. Fin che restiamo col Kant in una posizione pratica, non c'è pericolo di confonder la "realtà" morale con quella teoretica, che sono perfettamente antinomiche. La posizione pratica è affermazione volontaria del dover essere, non dimostrazione dell'essere: crolli il mondo (reale), fa' il tuo dovere! (anche se tu sei un pugno di cenere di fronte al Valore assoluto). Ma, una volta abbandonata la posizione antinomica e pratica, come dimostrammo assurdo e impossibile prendere quel soggetto morale, ch'è volontà e finalità, come un oggetto o essere reale, così sarebbe assurdo e impossibile andar cercando la libertà o il Bene per le strade come un fatto o una cosa. . Nel panlogismo hegeliano, la "realtà morale" kantiana non può esser più che l'idea del signor Emmanuele Kant in quel tempo e luogo; anzi, la mia attuale idea di quell'idea. E non manca un certo atteggiamento sardonico dello Hegel riguardo a tali idee pure: anche eticamente, a che servono le idee morali? a tenersele in saccoccia? Di solito, la cosiddetta "coscienza morale" giunge a cose fatte e segue la storia; ciò che conta è il fare, l'esser moralmente (il volere) ciò che si è realmente. Il divenire è il divenire reale, e i valori sono i valori esistenti storicamente, quelli che si fanno, e non soltanto si pensano(18). ... . ... 11. . Resterebbe allora che intendessimo come real divenire delle idee, soltanto il prodursi di quelle idee "reali", che eran le idee teoretiche kantiane, i concetti. Ma anche qui ci accorgiamo subito d'esser fuori strada: o mutiamo il significato del vocabolo "idea" prendendolo come contenuto del concetto, o eliminiamo dal criterio di realtà proprio le... idee, il pensiero in quanto formativo, le costruzioni teoretiche in quanto sintetiche a priori e, insomma, il trascendentale kantiano, per adeguarci alle esistenze storiche di fatto. Non solamente dovremo negar valore reale a quelle costruzioni ottenute per sintesi di pensiero, che sono le generalizzazioni, le induzioni e la parte razionale delle scienze - l'hegelismo le tratta da pseudo concetti, e rispetto al vero reale (storico) la scienza non gli par meno vana della moralità aprioristica -; ma anche la "sostanza" e la "causa", e tutte le idee pure del pensiero teoretico, in che modo le potremo considerare ancora "reali"? . Unicamente al modo stesso di Kant; chè altrimenti le categorie sarebber dei reali in sè, metafisicamente. Ma noi sappiamo che la sostanza e la causa non sono reali in sè, perchè si tratta di principii formali per conoscere il reale e non di questo reale; esse sono categorie riducibili a idee pure che otteniamo per sintesi tutta a priori. E, si badi bene, le idee pure non son realtà nemmeno "in noi", dove non troveremo mai la sostanza e la causa come reali esistenze: troveremo sempre, psicologicamente, una particolare attività sensibile, un contenuto, e per conoscerlo dovremo ricorrere ai detti principii di sostanza e causa con cui definire le relazioni obbiettive di quell'attività con gli altri oggetti. In breve: il valore delle categorie conoscitive è a priori, trascendentale; il pensiero, anche come pensare teoretico, in quanto è valore puro, è formale, ossia normativo ma non costitutivo dell'oggetto reale. Non si può identificare con questo. . Non potendo ammettere una realtà in sè del valore (se non che come pensiero formale), resta che il valore sia immanente, e cioè che valga "nelle" esistenze. Qui (e non prima) è il punto di passaggio dal kantismo all'hegelismo, nodo di tutte le nostre controversie, bivio della filosofia con fanale rosso ancor acceso. Rallentare! e, intanto, corregger subito quel locativo appiccicato all'immanentismo come un indirizzo sbagliato. Dire che un valore, per sè trascendentale, è immanente "in" un'esistenza contingente, sarebbe come ripeter ancora, per esempio, che l'anima è "dentro" il corpo, dopo aver compreso che l'anima non è una cosa, ma volere e finalità di quella cosa, ch'essa medesima conosce come corpo. Sarebbe un non senso in Kant come in Hegel. . La differenza fra loro è piuttosto questa: presso il Kant, il valore (noumenico) vale per le esistenze; diviene pensiero "reale" in quanto si applica ai contenuti fenomenici. Perciò il pensiero, anche se teoretico, giudica ma non crea l'oggetto reale; questo si costituisce come concetto in quanto i fenomeni vi si accordano, vi trovano il "loro" principio di unificazione. Ecco perchè "ci dev'essere" una causa in sè del fenomeno, un reale assoluto, in metafisico accordo con il fondamento trascendentale del nostro pensiero verace. Allora, l'immanenza d'un valore sarebbe l'incontro, nel tempo e nello spazio fenomenico, di un Io trascendentale con un Non-io ugualmente noumenico? . Per lo Hegel invece i valori valgono in quanto reali, e sono reali in quanto valori del divenire fenomenico, che dunque non è più fenomeno d'alcun sottoposto o sovrapposto noumeno. Coraggioso passaggio, da un criticismo trascendentale, deontologico (romantico) e, infine, pratico (anche del teoretico), a un immanentismo tutto teoretico (anche se animato da un profondo spiritualismo), il quale vuol realizzare la Ragione nel divenire dei contingenti. Per la prima volta, il nominalismo eracliteo, che per secoli aveva sostenuto soltanto la parte ereticale di fronte alla ortodossia realista, incrociatosi con essa a traverso Kant, sàle al di sopra e in primo piano trascinando la filosofia a un idealismo in perfetta antitesi con quello che vi aveva trionfato fin che gli uomini le chiesero sol la ragione per credere e il conforto a sperare. Perciò, anche all'interno della filosofia hegeliana, il punto per noi più importante è il passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo: dal primo al secondo momento della sua stessa dialettica. . Infatti la prima posizione hegeliana è soggettivista e relativista: tutto ciò ch'è reale è razionale. Qui non si fa che applicar il criticismo kantiano allo stesso Kant: se il reale è conoscenza (idea), non c'è più alcun reale assoluto, e la realtà è il farsi delle idee nelle lor reciproche relazioni, dove non soltanto l'assoluto sta per il relativo e lo implica, e così la causa per l'effetto ecc., ma anche l'oggetto è per il soggetto, e il Valore (il dover essere) per il pensiero che lo pone. Sotto tale aspetto logico, un fenomeno kantiano è già un'idea, e il noumeno è ancora un'idea sviluppatasi storicamente in opposizione dialettica alla prima e con essa mediata: ecco il posto delle idee kantiane nel sistema hegeliano. . Ma la seconda proposizione hegeliana - tutto ciò ch'è razionale, è reale! - non è una semplice conversione della precedente: è una nuova posizione, quella dell'immanentismo, in senso inverso alla posizione trascendentale; l'attualismo assoluto del Gentile ne sarà il più vigoroso e coerente sviluppo. I valori, che le idee kantiane postulano e rappresentano in forme pure - li chiameremo ancora lo Spirito e l'Io puro per negazione della negazione, ossia per non adeguarli a un particolare oggetto o soggetto, ma, in sè, non son altro che degli inconoscibili alogici e quindi inesistenti -, si determinano realmente, ossia teoreticamente, come atti del pensiero, che non rimane più in un mondo noumenico, ma diviene concreto oggetto, mondo attuale, un esistere come un fare, teoreticità e praticità insieme. Il pensiero è reale perchè si attua, oggettivandosi, facendosi idea teoretica, cosa: non la "cosa" astratta e per sè stante, immobile e identica a sè, ma la sua attualità storica e di fatto. Lo Spirito si realizza ne' suoi "oggetti", come l'anima (o spirito individuale) si realizza nel corpo; come la filosofia (o pensiero puro) si fa scienza concreta nella storia. . Ma come giustificare il passaggio dal primo al secondo momento della filosofia hegeliana, dalla sintesi criticista nel soggetto formale (nell'idea) alla sintesi metafisica nelle esistenze reali (nei contenuti) e, in ultima analisi, nei sensibili? Se non vogliamo interpretare l'hegelismo miticamente, quasi un neo platonismo per cui lo Spirito si attui oscurandosi e autolimitandosi nei contingenti (da lui stesso "creati" o almeno "posti"), per risalire, in perenne ciclo, verso la propria luminosa libertà assoluta il che riconduce la destra hegeliana a un trascendentalismo, dove lo Spirito, come dissi, prende il posto della "cosa in sè" è soltanto nella critica del valore estetico, ossia d'un valore immanente alla sensazione come tale, che si può cercare la prova esistenziale della spiritualità dei contenuti stessi, prima che essi divengano contenuti d'idee logiche ed etiche che li trascendono: la prova cioè che il valore esista e si attui in una reale unità di forma e contenuto. ... . ... 12. . L'importanza e la portata metafisica di una critica dei valori sensibili, che cerchi il fondamento dei "giudizi sensibili puri", come il Kant chiama i giudizi estetici, e delle rispettive "idee sensibili" (o "rappresentazioni dell'immaginazione"), affiora già in Kant e introduce a quell'estetica filosofica che nella filosofia contemporanea acquista un così grande sviluppo, accanto a quello dell'epistemologia e della critica della scienza, insieme con le quali ne costituisce anche l'aspetto più originale. . Il filosofo di Koenisberg, che nell'"Estetica trascendentale", dovendo cercare il fondamento della conoscenza, tratta i sensibili come dei meri dati fenomenici, che non hanno in sè alcun valore obbiettivo, ma sono unicamente i contenuti intuitivi di forme a priori che li trascendono per unificarli nelle rappresentazioni di oggetti; nella "Critica del Giudizio" riconosce invece, che i sensibili stessi - prima di divenir "materia" di forme conoscitive (concetti di natura), ed oltre ad essere "stimoli" di sentimenti gradevoli o sgradevoli, e quindi mezzi per rappresentarci i fini e interessi teoretici e pratici - già posseggono un proprio valore e si presentano in una propria forma, detta "immagine" (attuale o riprodotta, o anche creata dall'arte), che può esser piacevole per sè stessa, disinteressatamente, ossia indipendentemente dai valori e dai fini logici e pratici. Allora, il giudizio su questo accordo fra l'immagine sensibile e il sentimento che le è immanente, prescindendo da ogni cosciente finalità che l'oltrepassi, è un giudizio estetico, che dunque si fonda sul solo sentimento della forma sensibile (è soggettivo); ma ciò nondimeno è universale, in quanto afferma un valore, il bello, che tale deve essere per ogni persona "di gusto", ovvero capace di sensibilità estetica. . Adunque il "bello", trovato in natura o cercato nell'arte (quando a sua volta esso diviene un fine dell'attività umana), non è che il detto "accordo" tra la forma sensibile o immagine dell'oggetto - Kant intende dire, quella "forma" che diviene un oggetto quando divien "contenuto" dei concetti di natura - e il sentimento ch'essa forma contiene, che diverrà soggetto, finalità determinante le forme trascendentali del pensiero, quando la sensazione non ne sarà più che un contenuto e uno stimolo empirico. Nel valore estetico (il bello), e nell'attività artistica che vi corrisponde (l'immaginazione, "facoltà" media fra l'intuizione sensibile e l'intelletto, come il sentimento sta in mezzo fra il conoscere e il volere), si sente (come piacere disinteressato), benchè non si possa obbiettivamente (razionalmente) dimostrare e rimanga pertanto "inesplicabile", che v'è accordo, e quindi essenziale unità e identità, fra il mondo sensibile e l'intelligibile, fra ciò che concettualmente si costituisce come natura e ciò che razionalmente s'impone come finalità e dover essere. Perciò da una parte il giudizio estetico avvia il pensiero a riflettere sui sensibili per unificarli secondo fini e valori, che nulla, se non fosse quell'accordo, autorizzerebbe a cercare in essi; e dall'altra parte, la contemplazione della bellezza sensibile, e tanto più la commozione del sublime (che traduce in piacere estetico lo sgomento del dislivello fra l'intuire e il comprendere) preannunciano l'esistere nel mondo di quei valori etici e religiosi, che l'arte poi simboleggia nelle sue immagini poetiche. . Di qui ad intendere la bellezza e l'arte come rivelatrici dei valori assoluti, e anzi, poi, come assoluta e immediata realtà contrapposta alle artificiose e pratiche astrazioni dell'intelletto, non è lungo il passo, sebbene la vigilante prudenza del Kant se ne fosse cautamente astenuta. Già il romanticismo, da Schelling a Schopenhauer, da Schiller a Novalis e a Nietzche, si era gettato per questa via, quasi istintivamente cercando nell'estetico l'unità di soggetto e oggetto prima o dopo le opposizioni pratiche e le distinzioni teoretiche; ma del resto, tutto l'intuizionismo contemporaneo, fino al Bergson, al Baldwin, al Fawcett, al De Gaultier, che altro vuole, se non tentare di sostituire alla metafisica razionale e illuminista una metafisica estetica, che intenda l'assoluto come immediatezza dell'Essere, presente nell'intuizione estetica? . Ma per non perdere il filo del nostro discorso, ritorniamo all'hegelismo, che presenta il vantaggio d'una posizione rigorosamente teoretica, avversa a ogni irrazionalismo e quindi a ogni misticizzante pancalismo. Esso c'interessa particolarmente anche perchè vi si inserisce il maggiore dei nostri estetisti, B. Croce, la teoria del quale non ha punto bisogno d'esser qui riferita perchè ormai notissima e largamente applicata dalla critica artistica e filologica italiana, ma che sarà ogni momento sottintesa nella discussione del problema estetico, cui verran dedicati i capitoli seguenti. . In questo, invece, la dobbiamo saltare, in quanto il Croce tratta del valore estetico per distinzione dagli altri, ai quali lo ricongiunge sol come grado della conoscenza e momento del divenire dello Spirito; laddove si tratta qui di vedere se nel sensibile sia già data quell'unità reale, che la dialettica del pensiero smembra poi nelle opposizioni pratiche e nelle relazioni teoretiche di soggetto e oggetto. Infatti, come dicemmo, il problema estetico si presenta prima di tutto come un problema metafisico che si potrebbe enunciare così: se la critica della conoscenza ci ha dimostrato che una cosa è già un'idea, e che nell'idea il soggetto supera l'oggetto, il valore supera le esistenze e, infine, il pensiero supera la sensazione (Kant), spetterà alla estetica filosofica dimostrare la plausibilità dell'opposta posizione, che cioè il valore si attui nei sensibili, che il pensiero sia immanente ne' suoi contenuti e che, insomma, l'idea si manifesti in forme intuitive. . Invero, storicamente parlando, allo Hegel interessava meno che a tutti questa dimostrazione, perchè l'identità di razionale e reale è per lui un concetto filosofico (sintetico) che non ha alcun bisogno di una prova analitica, ottenuta con un ritorno alla tesi estetica, già superata e implicita, insieme con l'antitesi religiosa, nel momento della sintesi filosofica. . L'autocoscienza gli dice che anche una sensazione è un atto del divenire dello spirito, e non gl'importerebbe di cercarvi un valore distinto, se non per definirlo come un momento soggettivo di ciò che in un secondo momento diverrà l'oggetto e il non io(19). Tuttavia, come si sa, la soluzione hegeliana si riaccosta ai romantici e allo Schiller: nel bello intuiamo l'identità assoluta d'idea e fenomeno, che filosoficamente non è che un'esigenza. Ma in che consiste poi questa "intuizione" dello spirito assoluto? Se fosse un atto reale (una conoscenza), sarebbe un'idea, una "rappresentazione" oggettiva. Se fosse un concetto puro, sarebbe filosofia e non arte. Se invece è la semplice posizione soggettiva dello spirito (sentimento), non ha più quella realtà che andiamo cercando... ... . ... 13. . Domandiamo maggiori lumi, e più moderni, alla "Filosofia dell'Arte" di Gio. Gentile (1931), che si ricollega al più puro Hegel, rifiutandone l'interpretazione crociana, che al Gentile sembra troppo intellettualista e poco filosofica. La "Filosofia dell'Arte", com'era prevedibile, è di nuovo tutta la filosofia del Gentile, ripresa dal punto di vista del problema estetico, che le fa muovere un altro passo, molto interessante (per chi s'interessa di questa grande e bella cosa ch'è l'uman pensiero); ma, naturalmente, il lettore vi cercherebbe invano un'"estetica", sia pur generale: per es. un criterio per giudicare delle varie arti e, dei vari artisti e, infine, per distinguere e valutare universalmente il bello. Egli troverà qui soltanto il principio filosofico dell'arte, inteso come un momento del pensiero comune a tutto il pensiero (implicante anche la volontà e l'azione) e per cui tutto rientra nell'arte e tutti siamo artisti. . Infatti, dice il Gentile, l'estetica si suol contentare di chiedersi che cos'è l'arte, presumendo che ci sia, ma ignorando il perchè, il suo farsi nello spirito, al quale la filosofia deve ricondurre ciò che l'esperienza empirica prende come un esistente in sè, un "fatto". Ma il cosiddetto fatto artistico è immanente al pensiero che vive o rivive artisticamente i suoi contenuti: lo stesso pensiero che nella sua obbiettività (logica) dà loro la forma storica e li giudica oggettivamente, come da svegli giudichiamo d'aver sognato, mentre che il sogno è sogno fin che non ce n'accorgiamo. . Così l'arte è Dura arte fin che è sentimento. Intendiamoci bene. Il sentimento non va preso come uno "stato psicologico", un particolar contenuto sul quale attualmente pensiamo, e, infine, un oggetto fra gli oggetti. No, il sentimento è il principio soggettivo, l'io, che anche in questo istante ci fa pensare: l'anima del pensiero che si realizza attuandosi volta per volta negli oggetti conosciuti e negli atti compiuti, ma li informa di sè e a sè di continuo li riconduce, richiamandoli dalla lor necessità obbiettiva alla propria libertà e infinitezza. . Per il Gentile, tutto il mondo è il mondo dello spirito, del soggetto; ma questo non è qualcosa di già dato, che esista in sè: esiste in quanto si attua, e si attua dialetticamente, ossia pensando l'oggetto opposto a sè e infine riconoscendosi soggetto di quell'oggetto (autocoscienza). Perciò la posizione soggettiva, il sentimento, e quindi l'arte, non si trova realmente che nel divenire oggettivo, nel pensiero, nei contenuti insomma, che sono le forme che l'arte prende a traverso la mediazione del pensiero. L'arte pura è "inattuale"; per affermarla bisogna prescindere dalla forma attuale (idea) e raggiunger il principio immediato, l'io, Immediato per modo di dire, perchè c'è l'io in quanto si esplica e s'attua facendo, nel pensiero logico e pratico. Si potrebbe dire, e il Gentile dice, che "c'è arte in quanto non c'è", in quanto cioè il sentimento esiste nei contenuti oggettivi che ne son l'antitesi - è la tesi, l'io, infanzia dello spirito, che vive nell'antitesi, nel non io, del pensiero da lei maturantesi -; ma poichè il sentire annulla i contenuti come oggetti in sè (fuori di noi), trasformandoli in forma artistica, è meglio concludere che tutto è arte in quanto tutto è sentimento e soggettività. . Allora, la questione più difficile dell'estetica, il rapporto tra forma e contenuto dell'arte, rimane agevolmente risolta. Lingua, suoni, colori ecc., materia della tecnica artistica, così come gli argomenti e gli oggetti rappresentati, possono sembrare degli antecedenti estranei all'arte perchè questa li trova "di fuori", nell'astratto pensiero, e tutto il pensiero si può dire il "contenuto" dell'arte; ma questi antecedenti e contenuti precipitano nel sentimento e in concreto ne diventano i conseguenti, creazioni, forme soggettive dell'essere. Contrariamente al Croce, la tecnica (il fare) non è estrinseca, se è mezzo per l'attuarsi reale del sentimento; però, contrariamente anche allo storicismo individualistico del Croce, molte sono le tecniche, le opere e gli artisti, una è l'arte, sentimento in tutto. Sentimento che non si esaurisce nel pensiero, essendo il divenire della stessa coscienza di sè; e così il pensiero è processo, non risultato: realtà che il sentimento regge, riportandola all'io da cui è partita. Onde l'arte, che si esclude dal momento oggettivo e religioso del pensiero (antitetico), diviene ispiratrice del momento filosofico (sintetico); e infatti circola in queste pagine calde d'un possente afflato umano ed etico. . Il Gentile oppone dunque (in termini spesso polemici) questo umanismo e sentimentalismo - che riconduce l'arte a un momento perenne dello spirito, a un semplice principio attivo, alla immediatezza spontanea del genio creatore ch'è in tutti in quanto tutti sono uomini attivi, spiriti liberi - all'estetica crociana, che distingue il bello e l'arte dalle altre attività dello spirito, come intuizione dell'immagine ed espressione in forma fantastica di uno stato d'animo (lirismo), che rende l'arte autonoma rispetto alla conoscenza logica e all'attività pratica. In realtà, stando al Gentile, l'arte va a identificarsi col pensiero logico, astrazion fatta dalla sua oggettività, e col pensiero morale, astrazione fatta dalla sua praticità: come questi due valori son fra loro unificati nella filosofia dell'unico Spirito che diviene "altro", ma non è che sè stesso e a sè stesso ritorna. Pertanto, ripeto, invano chiederemmo al Gentile un criterio per distinguere il fine e il pensiero estetico dai fini e dai valori conoscitivi e pratici. Il bello non è più un real valore che si attui per sè (pur implicando gli altri): è un semplice principio, l'ineffabile soggettività d'ogni nostro atto, l'"amore". . Però, in tal caso, non se ne potrebbe nemmeno parlare, perchè l'io di cui parliamo è già mediato nel pensiero. E infatti il Gentile, per parlarci del bello, è pur costretto a farlo esistere in qualche modo, prima del pensiero (oggettivo) che ne sgorga e pur avendo detto che il modo d'esistere del soggetto è l'oggetto. L'io puro è un dato a priori; ma siccome questo dato si presenta come sentimento, la sua concreta immediatezza non può esser che... il corpo, la "natura"! Sì, il corpo come natura, in cui l'anima s'incarna, è il sentimento, vis interna naturae: e "lo spirito è spirito della natura, per chi ben l'intenda". . Ben intendere questo naturalismo, in cui, forse con meraviglia di chi non aveva penetrato l'attualismo hegeliano, esso ora viene a metter capo, significa, secondo il Gentile, distinguere fra la natura del naturalista e della scienza, ch'è natura morta, analizzata obbiettivamente come se fosse esterna a noi, necessaria e assoluta nella sua molteplicità e limitazione, e perciò "irreale"; e la natura (e quindi il corpo, e poi l'universo intiero) dell'idealista, che invece "è la più salda realtà che ci sia, opposta al pensiero ma nel pensiero, soggetto che il pensiero trova in sè come essere di cui è il divenire... vita del sentimento... essa stessa bellezza". ... . ... 14. . In verità, nessuno ha mai negato, dopo Kant, che la natura sia un concetto, e che sia il pensiero quello che gli attribuisce valore reale, affermandolo vero relativamente ai sensibili, ossia nei limiti dell'esperienza, dove il corpo non è che il modo di "sentire" lo spirito e di rappresentarselo oggettivamente. La sola differenza è, che qui chiamiamo "natura" il sensibile stesso, la condizione (ossia il contenuto) dei concetti scientifici di natura: "dal sensibile ch'è dentro di noi traggono origine e vita tutte le cose". Allorchè consideriamo il sensibile, non come astratto contenuto dei concetti di corpo e di natura, reali sol relativamente, ma come forma e principio esistenziale del pensiero stesso, originarietà del sentire fondamentale, intuita come "corporeità dell'io", la sensazione, da "materia" esterna ai nostri concetti diviene forza interna, spirito e principio del valore. Questo valore, individuale e universale a un tempo, sarà reale in quanto diviene pensiero (di quei sensibili), ma è soggetto puro in quanto è sentimento, soggettività della sensazione; sotto quest'aspetto, "il corpo è corpo in quanto si sente, non si sente perchè è già corpo". . Adunque il reale non è l'immediato dell'intuizione estetica (come vuole l'intuizionismo francese); l'immediato, soggettivamente estetico come sentimento, si realizza teoreticamente nelle idee che come tali negano l'estetico, il sentimento, e si attua praticamente come un fare (che dunque s'ispira al sentire e di nuovo implica l'arte). Qui è l'incontro di tutti i valori: l'esserci, l'esistere del'io è il sentire, che cerca il suo piacere (la sua finalità in universale) nel divenire. Questo piacere, principio vivente, amore che tutto fa, è il carattere trascendentale del pensiero, la condizione a priori di tutti i valori, ossia lo Spirito; ma lo Spirito è quello che si fa: il logo astratto (oggettivo) n'è un momento, il logo concreto (reale in sè) è sapere in quanto è fare (unità d'intelletto e volere); e il soggetto, facendosi pensiero concreto, diventa azione, praticità e, perchè trascendentale, eticità. . Mai l'hegelismo, a mio avviso, ha raggiunto una più compatta profondità metafisica. Ma siccome l'arte, così intesa, manca dell'elemento dell'oggettività essenziale al fare e all'azione, come essa arte manca al momento oggettivo, il metodo dialettico ci giuoca il solito scherzo, d'intendere un valore come tutto e come niente, vanificando il valore stesso in quanto tale nella sua negazione e nella negazione della negazione. Infatti l'arte, o non è nulla (di artistico) perchè non fa nulla (di artistico) nè si pone oggettivamente se non alienandosi per divenire realtà ed utile; o è troppo, perchè è soggettività, sentimento comune ad ogni attività teoretica e pratica, per cui tutto è espressione di sentimenti. . L'unico punto in cui, nell'estetica del Gentile, il sentimento può dirsi estetico e quindi provare esteticamente l'identità essenziale di soggetto e oggetto - cioè, senza che l'oggetto trascenda il soggetto negandolo (come nell'idea teoretica), nè il soggetto a sua volta trascenda il dato oggettivo facendo (come nell'azione etica) -; l'unico punto, voglio dire, in cui l'estetico, come soggettività, apparisce immanente ed è prova reale dell'immanenza dei valori ch'esso implica e riflette, è l'identificazione sopra ricordata di sentimento e sensibile, di anima e corpo, o natura sensibile del soggetto. Ma di qui si giunge a un'estetica del tutto romantica: quella cioè che ha dominato tutto il nostro secolo, e che fa consistere il bello nell'arte e l'arte nell'espressione della vita stessa, come spontaneità del sentimento, che diviene "sincerità" dell'arte "creatrice". . Naturalismo romantico da una parte, e idealismo dall'altra vengono a fondersi nell'unico romanticismo estetico, per il quale, ripeto, l'arte è vita vissuta, espressione di sentimenti reali nella forma più spontanea, i quali illuminano di sè i mezzi oggettivi di cui ella si serve, liricizzandoli nella fantasia, esprimendosi e comunicandosi per simpatia umana. Dante fu il primo a intender così la poesia nuova, sciogliendo il " nodo" di Bonaggiunta da Lucca ("I' mi son un che quando..."): e l'ultimo fu il Pascoli, che raffigurava l'anima del poeta nell'ingenua espressività del "fanciullino". Ma anche tutta l'estetica contemporanea s'aggira nel circolo del pensiero romantico: l'arte è soggettività pura, visione soggettiva e animazione del mondo, espressione in fantasmi dei sentimenti che non si realizzano in oggetti veri e negli scopi pratici dei nostri interessi; e pertanto è liberazione dai fini pratici e gioia disinteressata. . Da noi, il genio del Vico precorse il romanticismo germanico, e l'intelligenza di Francesco De Sanctis l'applicò poi alla critica letteraria: perciò il Croce e il Gentile non ebber che a interpretare idealisticamente il naturalismo di quei due, per riconoscersi loro prosecutori. E difatti, affermare col Croce che il bello è il piacere datoci da un'immagine ispirata dal sentimento, o dire col Gentile, che dunque il principio del bello sta nella soggettività di quell'immagine, nella vita stessa che circola come puro sentimento informando di sè i suoi oggetti e mezzi, è sempre un atteggiamento romantico, ora dal punto di vista conoscitivo, del fissare nel fantasma, creato dall'intuito artistico, l'espressione del sentimento; ora da quello subiettivo del rifarsi alla natura morale dell'attività estetica. Il divario fra i due filosofi idealisti è assai minore di quanto il Gentile mostra di credere(20). . Essi sono poi d'accordo nel pensare (il Croce nella parte storica della sua "Estetica", il Gentile nella conclusione di questa "Filos. dell'Arte"), che il Kant sia passato accanto all'arte senz'accorgersene. Ma, nell'"Estetica trascendentale", il Kant non se ne doveva accorgere, perchè la conoscenza è trascendentale proprio in quanto supera i contenuti sensibili, che rimangon solo a rappresentare, per accordo o per antinomia, il concetto o l'idea. È nella "Critica del Giudizio", ossia al suo giusto posto, che la definizione del valore estetico è data dal Kant in forma così limpida e persuasiva, che ad essa giova rifarsi, non soltanto per impostar bene il problema dell'arte, annebbiato dal soggettivismo romantico, ma per ben comprendere, nell'interesse stesso dell'immanentismo idealista, come sia possibile l'esistere del sovrasensibile nel sensibile. . Per il Kant, ricordiamolo ancor una volta, il bello consiste nel valore della forma sensibile in quanto tale, mentre che gli altri valori si realizzano, sì, sopra, i sensibili, ma li trascendono nei concetti oggettivi dell'essere e nelle idee soggettive del dover essere. Per cui l'arte, qualunque siano la sua ispirazione e i suoi contenuti, sarà ricerca della forma sensibile che tale rimanga, come "linea" o "stile"; e il sentimento estetico sarà quel sentimento dato proprio nel rapporto degli elementi sensibili, che come sensazioni e stimoli sono enti astratti, ma concreti si presentano (prima di "rappresentare" qualcos'altro) nella sintesi estetica, nella unità caratteristica dello stile. E pertanto l'arte è arte e non "natura", anche se vuol imitare la natura o "fare come la natura". . Lo sdegno dell'idealismo per il mondo sensibile, per la "vile materia", gli ha impedito di scorgere come questa materia s'illumini senza bisogno, di trascenderla nel soggetto puro, e quindi come il soggetto, lo spirito si attui, anzi già si presenti in atto, prima di rappresentare un'idea. L'argomento merita dunque d'esser ancora trattato anche ai fini della filosofia dell'essere; ma la sua conclusione metafisica deve passare per un difficile cammino: quello in cui si dimostri errato il soggettivismo estetico, vale a dire il fondamento di quasi tutta l'estetica contemporanea. Per me, infatti, il bello esiste; e, piuttosto che un valore del sensibile, è proprio esso il valore sensibile... ... . ... 4. IL BELLO. ... . ... 1. . Oggi c'è un bel sole; sole di marzo, dopo la pioggia, con l'aria limpida e fresca. Gli alberi sono ancora spogli, ma c'è una vibrazione di vita anche nelle cose morte. Qui davanti, una gran piazza; oltre la piazza, in fondo, case su case, rosse e gialline, arrampicate per il colle; da quest'altra parte, il viale che conduce a quella striscia di mare blù cupo, sotto il cielo chiarissimo. Odo un ronzar di veicoli, e gli appelli rauchi delle automobili, or vicini ora lontani. Mi sento vivere; sento tutti i miei movimenti, tutte le mie facoltà sveglie. . Questo è il mio piccolo mondo, limitato e contingente. Ma ancor più limitato, ancora più contingente è ciò che di esso esiste intuitivamente, ciò ch'è attualmente presente, la semplice contiguità de' molteplici (quel rosso, quel blù, questo suono...), la semplice continuità dei diversi (quel bruno che muta di posto passando davanti a quel rosso...), sintesi tutta a posteriori dei sensibili nella sensazione data. Ad essa io però non m'arresto un solo istante; interpreto il dato e lo supero; analizzo e giudico teoreticamente, scelgo e valuto praticamente: quella striscia blù è il mare, voglio andare al mare. Quando di proposito mi fermo al dato e mi ripiego a considerare la sintesi sensibile in sè stessa, si discioglie in un pulviscolo d'impressioni effimere alle quali, lo veggo bene, la sola conoscenza può dare un costrutto, una realtà, un valore, che immediatamente le trascende: già percepivo quel cubo rosso come una casa (una cosa), questo movimento come un fatto (un effetto). E se m'intestardisco a fissare qualcuna di quelle impressioni per definirla, ossia per conoscerla in sè, mi trovo in possesso di un'idea astrattissima e generalissima, come "rosso" e "moto". . I sensibili altro valore non avrebber dunque oltre quello ch'essi posson rappresentare, obbiettivamente come fenomeni di sostanze e cause che noi dobbiamo porre al di là della sensazione, subiettivamente come stimoli pratici che valgono per dei fini, che parimenti mettiamo fuori di essi. Però, intanto, è innegabile anche il reciproco: non c'è valore, reale o ideale, oggettivo o soggettivo, che sia rappresentabile (conoscibile), se non per mezzo del sensibile. Qualunque cosa sia per me o in sè il mare, non posso percepire nè pensare al mare, se non lo percepisco e penso in quella striscia blù che vedo, in questa parola che scrivo o dico, o in un'immagine, sempre sensoria, dell'una o dell'altra, che me lo rappresentano o ricordano. Nè posso conoscer me stesso, se non mi rappresento la mia personalità in un'impressione come questa, in un sentire interessarmi e commuovermi piuttosto per questo che per altro stimolo; e il mio volere e pensare medesimo, in un esser attento e attivo, in uno sforzo più in un senso che nell'altro, sia questo il fare o l'inibire un atto pratico, oppur sia un atto teoretico, un giudizio in parole segni e simboli. . Ma c'è di più. Questa capacità del sensibile di rappresentare, pur limitandolo, l'intelligibile, e la reciproca necessità dello intelligibile d'attuarsi sensibilmente, non riguardano un carattere estraneo ai valori rappresentati, anche se questi valori, per voler essere universali e assoluti, praticamente negano la particolarità e contingenza sensibile: essi sono "valori" - per es. il vero teoretico, il bene pratico - in quanto possono o debbon esistere. L'esistenza è ciò che aggiunge realtà a un concetto o a un'idea, ciò che li rende validi per sè (assoluti e universali) e non soltanto per noi, nel qual caso resterebbero dei meri desideri e fini soggettivi, delle finzioni e ipotesi senza probabilità nè apoditticità. . Ora, il carattere di esistenza probabile o necessaria - o tanto più quello di esistenza certa e "storica" -, è il sensibile che lo fornisce al mondo intelligibile dei concetti e delle idee. Solamente in quanto i loro contenuti esistono sensibilmente e la loro forma sensibilmente si attua o si può attuare, i concetti sono reali oltre che logici e le idee sono etiche oltre che morali... Insomma, per quanto si cerchi, non abbiamo altra prova della realtà d'un contenuto conoscitivo che la sua convenienza o rappresentabilità col sensibile, e non abbiamo altra prova del valore d'una forma in sè, ossia della verità ideale, che la sua presenza in quanto sentita: la realtà di quella casa è provata da questo cubo rosso che vedo, ma anche la mia idea di Bene e di Dio trova la testimonianza per la sua certezza solo in quanto è sentita. . Ma un sensibile è "soggettivo" perchè "illusorio", fenomenico? È illusorio solo quando crediamo reale l'oggetto in sè. Quando invece riconosciamo che un oggetto in sè (il trascendente del realismo ontologico) è un dover essere ossia una conoscenza formale e pratica, mentre che "reale" è la sua convenienza ai contenuti dell'esperienza, ai sensibili, questi diventano il dato presente e immediato, l'assoluto a cui si relativizza il sapere, la prova teoretica della sua verità trascendentale, della sua realtà o illusione. Con ciò non si cade nell'empirismo: un dover essere, un'idea formale (un valore trascendentale), è pur reale in quanto ha un'esistenza (e ce ne possiamo formare un concetto di natura), che ci prova il suo valore, ce lo fa almeno sentire (e ce lo fa attuare come volere). . Un sentimento è illusorio perchè soggettivo? E una sensazione in genere, non prova nulla della realtà d'un valore perchè lo rappresenta soltanto soggettivamente? Al contrario: proprio perchè la sensazione è la natura, la realtà del soggetto - è l'esistenza, l'unica esistenza del soggetto come oggetto, intesi questi non come due concetti praticamente opposti, l'uno del dover essere e l'altro dell'essere, ma come intuizione o presenza dell'unico "io" (anima e corpo!) -, proprio perciò la sola sensazione prova l'oggettività di qualcosa, il "non io" dell'"io". . Questo fluire sempre nuovo di sensazioni che si compongono e si scompongono nell'esperienza diretta e intuitiva, è l'unico modo in cui l'Essere, qualunque esso sia, è presente a noi, o meglio, ripeto, è l'esistenza stessa dell'io in quante parte e partecipe del mondo. Chi, per religioso timore, o per isterico ribrezzo del mondo sensibile, lo nega totalmente per gettarsi in braccio al puro intelligibile; chi per conquistare l'in sè del valore rifiuta i valori sensibili, è il solo che alla fine dovrà logicamente concludere che l'assoluto è illusorio e che nulla esiste. ... . ... 2. . La nostra piccola constatazione, della realtà esistenziale dell'io sol in quanto sensibile, può avviare il pensiero teoretico a una soluzione del suo problema ultimo, allor che non si consideri più il sensibile qual contenuto conoscitivo - come faceva il sensismo ricercando la genesi della conoscenza: e si capisce che in quel caso i contenuti sensibili divengono illusori relativizzandoli alle idee razionali (che pur debbon valere per essi perchè sono da essi rappresentate) -, ma si consideri in quanto esso medesimo è sintesi formale e valore in sè, che qui (e qui solamente) significa anche "in me". . Il problema è questo: la forma (il valore), teoretica e pratica, trascende ogni volta i suoi contenuti sensibili, proprio perchè li prende a contenuti, mentre pure son essi che le dànno realtà esistenziale e quindi rappresentabilità teoretica. Ma se il valore puro o formale è trascendentale rispetto ai contenuti dell'esperienza, questa non lo potrebbe mai nè rappresentare nè provare, nè minimamente suggerire o provocare, se a sua volta non si presentasse in una forma, con un valore proprio ed in sè (o almeno, per sè), che intuitivamente ce lo faccia sentire. "Esiste" questa forma, non più (o non ancora) del sensibile, ma, proprio, forma sensibile? . Ebbene: teoreticamente parlando - idest, giudicando al modo indicativo tempo presente - non esiste altro che la forma, e non esiste altra forma che quella sensibile! Poi, per trasferto psicologico e per dialetticismo logico, il predicato dell'esistenza passa dalla forma, in quanto rappresentazione, al valore rappresentato. Perciò dico: esiste quella casa rossa, passa quest'automobile, trasferendo l'esistenza dal sensibile alla cosa e al fatto percepiti e pensati nelle sintesi conoscitive. Allora il filosofo facilmente conclude, che dunque altro invece non esiste che la percezione e l'idea, dimenticando che il percetto si realizza nel sensibile, e l'idea si attua nei percetti, o almeno nelle immagini e nelle parole, senza le quali sarebbe impossibile il pensare. Difatti, le idee pure le chiamiamo valori formali proprio perchè non si posson rappresentare che in pure forme, in parole. . Io dico: prima di tutto esiste il sensibile, come tutti ammettono, anche se lo credono un'apparenza (esisteranno le apparenze) e se contemporaneamente ammettono l'esistenza in sè d'un Valore assoluto (pur figurandoselo, i più, sensibilmente, ossia miticamente). Esistenza e sensazione sono i nomi astratti, uno logico e l'altro psicologico, dell'intuizione o presenza immediata; salvo a trasferire poi l'esistenza ai valori mediati, che l'intuizione "mi rappresenta", e che in tal modo divengono "reali". Pertanto, ogni valore (trascendentale) esiste, si presenta, in una forma sensibile (almeno la parola e l'immagine fonetica), di cui apparirà contenuto dal punto di vista estetico; mentre dal punto di vista logico la forma sensibile diviene essa contenuto, che diremo reale (in quanto esistenziale) dei nostri concetti. Da ciò discende assai chiaro il fondamento critico dell'estetica: ogni forma, e quindi anche la forma in quanto unicamente sensibile, ha il suo valore immanente; o meglio, quel valore ch'è trascendentale come rappresentazione logica ed etica di ciò che dev'essere realmente e idealmente, è immanente in quanto è valore sensibile, valore estetico, valore che "si presenta" sensibilmente. . La filosofia prima e dopo Kant, degradando il sensibile ad apparenza fenomenica e subiettiva, sperò di vanificarlo in tutto: quello che esiste, perchè deve esistere (in sè), è la cosa (o l'idea). Purtroppo questo realismo perdura anche in Kant. Dal criticismo si dovrebbe concludere, che il molteplice e vario dell'esperienza, la sensazione, è l'esistere del soggetto (del sentimento), il suo empirico attuale realizzarsi, e quindi l'essere (o il divenire) dell'io in quei rapporti obbiettivi, detti natura, ch'egli stesso pone quando accorda e unifica i sensibili nelle sintesi delle categorie che ne "debbono" costituire l'essenza (nel mentre che gli si oppone come soggetto e spirito assoluto, che per mezzo del volere si determina per antinomia pratica): il Kant invece continua a pensare, con una contraddizione in termini dovuta all'antico animismo, che i sensibili sian di natura soggettiva, nostra rappresentazione o immagine di un'identica esistenza fuori di noi. I termini "rappresentazione" ed "esistenza", in quel sopravvivente realismo, vengon sempre usati con significato inverso a quello che avrebbero in un criticismo coerente. . Si rilegga, per esempio, questo periodo che scelgo di proposito dalla "Critica del Giudizio" ("Analitica del Bello", paragr. 2°): "Per dire che un oggetto è bello... bisogna considerare ciò che la sua rappresentazione produce in me e non ciò in cui io possa dipendere dall'esistenza dell'oggetto"(21). Il Kant voleva distinguere il giudizio estetico ("Quel palazzo è bello") dagli altri giudizi di valore, per es. economici ("Esso è ben inutile") o morali ("Ed è una vana pompa"), per giungere a definire analiticamente il fondamento del gusto (il valore del bello), come piacere disinteressato. . "Quel palazzo" fa da contenuto comune di tutti questi giudizi; ma - argomenta il Kant - in quanto esso esiste realmente, diviene una condizione dalla quale dipende che siano o no appagati i miei fini e interessi, e in tal caso il mio giudizio su quell'oggetto è pratico, definendo l'accordo o il disaccordo tra le finalità (l'utile, il bene) e la realtà dell'oggetto (implicante a sua volta un atto conoscitivo, almeno la percezione). Il giudizio estetico invece è indifferente all'esistenza di quel palazzo perchè non si fonda su concetti, nè pratici nè teoretici (non è una conoscenza); esso giudica unicamente la rappresentazione ("Vorstellung"), intesa dal Kant come immagine subiettiva del reale sensibile: ciò che "io" vedo e contemplo (fosse pure un fenomeno, una finzione, un'allucinazione), al solo intuirlo e "rifletterlo". . Subiettivato, quasi inconsapevolmente, l'oggetto estetico - la forma sensibile -, bisognava obiettivare, ossia universalizzare, il soggetto estetico, il sentimento prodotto dall'immagine, affinchè questo divenisse il fondamento soggettivo, sì, ma anche universale dei giudizi di gusto. Il Kant deduce allora l'universalità del giudizio estetico "è bello" dal carattere disinteressato del piacere su cui si fonda, disinteresse che rende il giudizio presumibilmente valido per ogni persona di gusto: quasi un a priori del sentimento. In tal guisa si apriva la via a tutto il soggettivismo dell'estetica contemporanea; ma la si chiudeva a ogni possibilità di comprendere l'unità metafisica di sensibile e sovrasensibile, intravista dal Kant ma rimasta un arcano e "inesplicabile" accordo. ... . ... 3. . Rettifichiàmo avanti tutto l'uso del vocabolo "rappresentazione". Per ognuno esso indicherà qualcosa che "ci" rappresenta qualcos'altro (il tale attore rappresenta un personaggio, un quadro rappresenta una foresta, ecc.). Ma in psicologia, "rappresentazione" suol denotare la reviviscenza d'una sensazione o immagine precedente, e rappresentarsi allora indica il ripresentarsi di qualcosa alla memoria, sia un vago fantasma, sia un preciso ricordo; o sia nelle cosiddette associazioni percettive o immaginative. Noi sappiamo già che pensare di tale adattamento funzionale chiamato memoria, che interpretammo naturalisticamente. Sappiamo che una immagine riprodotta si realizza o tende a realizzarsi nel sensibile attuale, o che almeno si rinnova come innervazione similare: comunque, la immagine detta "mentale" è della stessa natura della sensazione; se non è che una sensazione riprodotta e più organicamente condizionata, è pur sempre oggettiva come qualsiasi altro dato sensibile. È vero che, nel confronto che il pensiero istituisce fra i suoi oggetti per fondarne il valore di verità, diremo poi che un'immagine mnemonica è illusoria rispetto alla corrispondente sensazione, come diciamo che nella medesima percezione (per es. del solito bastone immerso nell'acqua) il tatto è più vero della vista. Ma criticamente, ciò che attualmente esiste ed è presente (e quindi reale) è la rappresentazione e non l'oggetto rappresentato: se la rappresentazione è mnemonica (per es. se immagino un mio amico lontano), è ben questa immagine riprodotta che, appunto perchè presente, anche se più debole e men chiara perchè ridotta a un'innervazione visiva, mi rappresenta ciò ch'è inattuale (anche se deve esistere in sè). . Il giusto senso del termine "rappresentazione" - quello in cui l'abbiam sempre adoperato noi - è dunque logico, non psicologico: indica il valore conoscitivo d'un esistente, non la sua natura, Quel cubo rosso che veggo (oppure la sua immagine riprodotta, oppure la parola "casa", oppure l'immagine della parola ecc.) rappresenta quella casa (oppure una casa in genere, oppure un oggetto, una sostanza ecc.). Ciò ch'è presente mi rappresenta il suo valore conoscitivo, il suo dover essere, il "di più" di quello ch'è attualmente. Tal di più si può ridurre all'unità percettiva (il "reale" del senso comune) per cui nella sensazione data si realizzano le immagini che l'hanno sempre accompagnata (quel cubo m'apparisce anche solido ecc.) nel qual caso il conoscere è piuttosto un riconoscere; o invece il di più può riguardare l'idea, il valore in sè: ma conoscenza e rappresentazione sono la stessa sintesi logica nel suo farsi attuale, percettivo e ideativo. . Ora, se il Kant per "rappresentazione" avesse inteso il valore logico dei sensibili, avrebbe dovuto invertire l'uso dei termini nel periodo sopra citato: i sensibili (le linee, i colori, etc. di quel palazzo), in quanto esistenze presenti e attuali - quello che sono - formanti un'immagine, presentano un proprio valore estetico, distinto da quelli pratici e teoretici che otteniamo per concetti; in quanto invece rappresentano un oggetto, un reale che deve esistere in sè e che perciò ci può esser utile ecc., non sono più estetici, ma reali e pratici. Il che (si noti bene) non contrasta nemmeno col fenomenismo kantiano, se inteso criticamente (e non realisticamente). Proprio perchè quelle linee e quei colori esteticamente sensibili ci rappresentano nel contempo un dover essere in sè (una cosa in sè), che nelle costruzioni concettuali (nelle sintesi rappresentative) diviene un essere per me (un mio concetto), nel valore estetico si ritrova al tempo stesso la prova dell'unità e della distinzione fra sensibile e intelligibile! . Purtroppo, per il Kant, come per l'idealismo in genere, rappresentazione ("Vorstellung") significa invece, nuovamente, il duplicato, di natura soggettiva, del sensibile stesso: l'impressione psichica d'un imprimente stimolo fisico: grossolana analogia materialistica, come quella del sigillo e della cera usata nel parallelismo aristotelico fra reale e conoscenza del reale, a cui questa concezione rimonta. Come l'immagine "mentale", per l'ipotesi dell'anima centrale e cerebrale, sarebbe il doppio psichico d'una sensazione là depositata conservata e a tempo opportuno richiamata dalla miracolosa facoltà della memoria psichica, così poi anche la sensazione primordiale viene a sua volta reduplicata da questo psicologismo, che teme di perdere l'anima se non considera quel rosso e quel suono traduzioni soggettive d'un rosso e d'un suono esistenti fuori di noi. . Ma non è difficile raddrizzare un tal concetto. Se uno realisticamente ammettesse che esistono un rosso ottico e un suono acustico i quali poi diventino, mutando natura, un rosso e un suono "nella coscienza", dovrebb'esser proprio il criticismo ad avvertirlo dell'equivoco, dovuto al confondere la subiettività o relatività logica dei sensibili (perchè qualità contingenti di fronte alla obbiettività dei concetti che ci formiamo sulla loro analisi); con una supposta natura psicologica di quei sensibili che nel contempo definiamo fisici... Se questo suono è un'eccitazione acustica per mezzo dell'aria, la causa e l'effetto sono la stessa cosa, la stessa natura, e ve lo dimostro facendovi vedere e udire l'esperimento della campagna pneumatica; e se questi contenuti non fossero fisici, tanto meno lo sarebbe la loro spiegazione concettuale! . Per cavarsi d'impaccio restando fedeli al kantismo, ossia restando "nella coscienza", l'empiriocriticismo tedesco (per es. Mach e Avenarius) trovò quell'acuta soluzione, a cui s'accosta una veduta del positivismo criticista (per es. Ardigò): i sensibili per sè non sono ancora nè fisici ne psichici, nè oggetti nè soggetti, perchè tutti questi sono concetti che vi si costruiscono sopra nelle sintesi conoscitive; il soggetto sì costituisce per "autosintesi" e l'oggetto per "eterosintesi" di quegli stessi elementi, secondo che si unificano sui due piani paralleli di rapporti esterni o interni a noi (?!). Ma, se sintesi vuol dire unificazione e rapporto esistente tra i contenuti sensibili, non possiamo parlare che di eterosintesi: anche se riguardiamo i sensibili in rapporto a noi (questo "noi" è dunque già dato?), conosceremo l'io obbiettivamente, come corpo e natura empirica, e non l'io soggetto unificante; e se sintesi indica il valore a priori della categoria unificante, come norma che informa della sua finalità soggettiva quelle oggettive unificazioni, tutto è autosintesi, e la stessa sintesi a posteriori era già, come vuole l'idealismo assoluto, autosintetica, dovendo contenere in sè il principio del suo divenire conoscenza e idea. . Per noi, la coscienza non è una cosa, dentro e fuori della quale accada qualcos'altro; e tanto meno una cabina di trasformazione del mondo fisico in mondo psichico o viceversa: quel termine esprime soltanto un rapporto di valore. La coscienza sensibile è il rapporto fra la praticità del sentire e la sensibile presenza o esistenza, intuita come esistenza del sentito; rapporto che diverrà coscienza conoscitiva (pensiero): pensiero teoretico (esplicativo) in accordo all'esistere sensibile; pensiero pratico (normativo), come volere e dovere, in antinomia con esso. Perciò il dato sensibile, valendo come la sola esistenza obbiettiva - ossia (individualmente) reale - dell'io, nonchè esser "neutro" (come vuole l'empiriocriticismo), è proprio l'attualità o immanenza (l'esteticità o presenza) del "valore", definibile nel rapporto tra finalità soggettiva e realtà oggettiva (rapporto di coscienza); e rimane poi sempre a rappresentarlo nel pensiero, dove il sentimento testimonia della finalità e l'intuizione sensibile della realtà. ... . ... 4. . Ed ora rettifichiamo anche l'altra premessa dell'estetica kantiana, quella che fa consistere il valore estetico nel sentimento di piacere disinteressato, che in noi desta la sola presenza sensibile (egli dice la rappresentazione, ma abbiam corretto), indipendentemente dalla cosa rappresentata (egli dice esistenza) e dai rispettivi sentimenti e interessi pratici. Così l'esteticità del sensibile viene ad interiorizzarsi ancor di più ed a rifugiarsi nella mera soggettività d'un sentimento, in base al quale noi giudicheremmo universalmente del bello. Ma come un sentimento può costituire un valore universale? . Il Kant, come tutti ricorderanno, introduce una sottile distinzione fra i tre giudizi: "è buono", "mi piace" (ossia "è gradevole"), ed "è bello". Il primo è un giudizio morale di valore universale, perchè si fonda sopra un principio (il dover essere morale) assoluto ed (eticamente) necessario. Quando invece io dico che la tal cosa mi piace o mi dispiace, il valore di un siffatto giudizio rimane, secondo il Kant, individuale (qualunque sia poi la quantità degli oggetti che piacciono e dei soggetti a cui piacciono o no), nel senso che il giudizio resta subiettivo, fondato su l'interesse mio o altrui (ma ciascuno per sè) per quegli oggetti: chi dice "mi piace", non pretenderà mai che il suo criterio valga universalmente (anche se, di fatto, quella cosa piacesse a tutti). Ora, anche il giudizio estetico è fondato sul piacere, è un giudizio subiettivo; tuttavia erra, conclude il Kant, chi sostiene che il bello sia ciò che piace. Il piacere estetico essendo disinteressato, l'estetico non è il gradevole: il giudizio "è bello", benchè fondato sul mio piacere come il giudizio "mi piace", vale però universalmente come il giudizio "è buono". Perchè? . Qui, intanto, c'è una piccola confusione, nella quale il Kant s'aggira per molte pagine. "Mi piace il vino delle Canarie" (prendo il suo esempio), non è un giudizio di valore, è un giudizio reale, non diverso, per es., da: "Questo è vino delle Canarie", se non nel contenuto psicologico invece che geografico o altro di simile. Tutt'e due questi giudizi, particolari nella quantità dei contenuti, sono però universali, universalissimi, come qualunque altro giudizio storico, nel valore formale: se sono veri, debbon essere veri in sè (categoricamente). D'altra parte, tutti i giudizi, anche etici ed estetici, si posson presentare nella forma logica del "mi piace" o "è gradevole" - quel palazzo mi piace esteticamente, mi dispiace moralmente -, quando appunto riguardano la realtà della cosa e del fatto, e non la norma dell'azione diretta a un fine: infatti, io dico "è buono" di un atto ed "è gradevole" di un oggetto (posso giudicar buona anche una cosa ma sol in quanto la penso fatta per uno scopo, come "Quel palazzo è un insulto alla miseria"). . Inoltre, un giudizio che soltanto " esprimesse " il sentimento subiettivo di piacere o dispiacere, kantianamente non sarebbe mai nemmeno un giudizio (un pensiero, una conoscenza, sempre fondati su l'a priori); sarebbe un'esclamazione ("Che buon vino questo..."), pari a un gesto, a un atto pratico, a un contenuto. Per divenire un giudizio di valore, è d'uopo che il piacere sia preso come finalità, riducibile a una regola della condotta - nel qual caso avremo un giudizio edonistico -, del tutto simile al giudizio morale (apodittico), con la differenza che il fine pratico si relativizza al piacere (condizionalmente) come il fine teoretico all'esistere sensibile (onde il rapporto prammatistico, il valore utilitario come praticità del teoretico). . Subordinatamente alla prima, anche l'altra distinzione kantiana fra piaceri interessati e piacere estetico disinteressato non è senza confusione. Non potrei sentire un piacere estetico se non avessi un interesse estetico, chiamato appunto il "gusto". Essere o no interessato è un attributo, non dei sentimenti - de' quali dire che sono interessati è pleonastico e dire che sono disinteressati è improprio - ma dell'attività, e riguarda quindi i fini del volere: è interessata l'attività che si pone per fine il mio piacere e non può dunque presumere (per le ragioni esposte dal Kant sul "mi piace") che la norma della sua condotta divenga norma universale; è disinteressato il volere che si propone un fine indipendente, ossia trascendente il piacere - il soggetto empirico come l'oggetto empirico -, anche se accompagnata dal piacere com'è per eccellenza il caso del pensiero puro. Ma se un giudizio puro è disinteressato perchè universale, non se ne deduce che un giudizio estetico sia universale perchè disinteressato. La definizione soggettivistica kantiana del bello lo escluderebbe: se quel palazzo è bello perchè mi piace disinteressatamente - se la bellezza è un "dono" che gli uomini fanno al mondo -, posso sperare che piaccia anche agli altri, non trattandosi d'un mio particolare egoismo; ma che importa questa totalità numerica? un intero teatro applaudirà a un'opera d'arte mentre che un comizio finirà a bastonate; tuttavia, qui si combattono degli imperativi morali, là si combina un consenso di sentimenti individuali. . D'altra parte, la contemplazione estetica, essendo piacere già raggiunto, pago di sè, che non si trascende, è senza finalità: se non la possiamo chiamare interessata, perchè non ha un fine subiettivo, non la dovremmo neppur chiamare disinteressata non avendo fine obbiettivo. Resta che disinteressato sia, proprio, il piacere... Ma un piacere disinteressato non è più nemmeno piacere; e infatti il Kant esclude dall'estetico, non soltanto il piacere che ci vien dall'utilità d'una cosa o dalla praticità in genere, ma anche il piacere sensibile, il piacere che una sensazione produce come tale, per es, il sapore d'un frutto, e perfino il colore; quasi che ogni qualità sensibile non potesse entrare in un rapporto estetico per un uomo di gusto. Ciò conduce il Kant a intendere la bellezza come un piacere, non del senso (come "Mi piace il vino delle Canarie") ma della pura intuizione visiva (come il disegno) e uditiva (come la figura musicale), escludendo i sensi più organici e più caldi: il che lo trascina a dividere, oltre che a distinguere, la bellezza dagli altri valori, considerando bella la pura linea (bellezza libera) che fa piacere per sè stessa, salvo ad aggiungersi, per così dire, dal di fuori (come bellezza "aderente") agli oggetti che hanno altri valori (e quindi puramente ornamentale). . Sulla stessa via di un'errata divisione dell'oggetto estetico, il romanticismo lo limitò alla "fantasia" e lo escluse dalla sensibilità, come se quegli alberi laggiù non fossero sensibilmente belli, e come se il bello fosse soltanto invenzione per mezzo d'immagini riprodotte e nuovamente combinate, e non fosse la sensibilità quella che le realizza. ... . ... 5. . Frattanto, però; il discorso è passato dalla discussione sulla pura soggettività del bello come piacere estetico alla inevitabile ricerca d'un oggetto bello; il che ci riporta sul vero terreno del valore estetico che, se fosse solo sentimento, non sarebbe un valore - e il giudizio "è bello" sarebbe una constatazione psicologica come il giudizio e mi piace" -, e se è un valore, dev'essere il valore di un rapporto cosciente, di un rapporto di soggetto a oggetto. Noi qui attendevamo il Kant, perchè sentivamo tutta la novità e l'importanza metafisica dei concetti esposti nelle brevi linee sopra citate in nota: prima di porre qualunque rapporto fra noi e il mondo sensibile (dice in sostanza il Kant), e indipendentemente dalla realtà del mondo e dalle idealità in antinomia pratica con esso (antinomia mai del tutto placata nelle sintesi approssimative della conoscenza), il pensiero trova, nella semplice intuizione dello stesso sensibile, un valore che giudica universalmente, benchè senza concetto, perchè piacere senza interesse. Ma (torniamo a chiedere), poi che "senza interesse" non è ormai che un ripetere, che tal sentimento è senza rapporto ai fini pratici e all'essere reale - condizione negativa, distinzione (ma non divisione) dell'estetico dal pratico e dal teoretico -, perchè, a che condizione positiva ci piace dunque l'estetico? . Anche noi siamo convinti che il giudizio "è bello" sia un giudizio di valore alla pari di "è buono", e tuttavia distinto da questo come dal giudizio di realtà "è vero". Nel contempo, siamo anche noi convinti che il primo, nella sua forma spontanea, si basi di fatto sul sentimento piacevole della contemplazione estetica, senza derivare il proprio criterio da alcun principio; ma ciò non toglie che un tal principio ci debba essere (e che la filosofia lo debba cercare). Infatti, il medesimo si potrebbe dire di tutti i giudizi di valore, presi nella lor forma empirica: anche il giudizio "è buono", sulla bocca di tutti, s'ispira al sentimento suscitato alla vista d'una buona azione, appunto in quanto che questo sentimento basta a rappresentarmi spontaneamente il valore morale: ma non definisce il bene; come pure, nelle conoscenze percettive, il sensibile basta a rappresentarmi una "cosa" in una sintesi spontanea. Ciò non autorizza la critica a concludere, che il principio e il fondamento d'un giudizio morale o teoretico siano il sentimento o il sensibile; anzi, per non cadere nello scetticismo empirista, la critica è obbligata a ricercare le condizioni a priori per le quali sia possibile il valore pratico o teoretico di quei giudizi sentimentali o percettivi. . Piuttosto osserviamo che la critica della ragion pura e della ragion pratica non sarebbero mai state scritte, se il vero e il bene fosser cose già date e bastasse aprir gli occhi per contemplarle; e chi crede di posseder quei valori sol perchè percepisce e agisce, chi non dubita e non ha crisi morali, può fare a meno d'indagare che cosa debbano essere in sè. Sol in quanto il vero e il bene sono la faticosa e dolorosa ricerca degli uomini, l'inappagata loro aspirazione suprema, sol in quanto cioè sono attività e pensiero, sopravviene la filosofia per offrire ad essi un fondamento e un criterio. . Ebbene, anche per il bello, non è mica detto che sia solamente contemplazione, valore già dato, bellezza "di natura"; nè che si tratti soltanto d'intuizione o sentimento, immediatezza e spontaneità (vita) che non divenga poi altro. Noi non crediamo a tutto ciò: e pur mentre distingueremo ancora la cosiddetta bellezza di natura dall'arte, intendiamo quest'ultima come pensiero e attività tesi a un proprio fine; e questo fine ha bisogno che la filosofia lo ponga in forma pura, per apparire all'autocoscienza come principio del bello e come finalità dell'arte: come valore. È ciò che ora ci proponiamo. . Intanto, dicevo, lo stesso Kant è costretto a dare un oggetto al soggetto estetico, al piacere, e tal oggetto è l'"immagine" come forma (sensibile), come "figura": l'immagine in quanto presente nella sintesi a posteriori (spieghiamo noi) indipendentemente da ciò che rappresenta e che vale praticamente. Il bello dunque, se non è il fenomeno, ossia quell'empirica oggettività che chiamiamo "sensazione", non è nemmeno il solo sentimento, empirica soggettività. Ma forse fu il timore di confondere - facile confusione, trattandosi della medesima esistenza immediata - fra real sensazione, presa in senso astratto e psicologico (o meglio, fisiologico, trattandosi d'un concetto di natura), e forma sensibile, qualità o rapporto fra le qualità sensibili, ciò che spinse il Kant a rifiutare ogni obbiettività dell'estetico (e quindi ogni ragione di questo valore) per rifugiarsi nel mero piacere soggettivo. Egli forse dubitava che, dicendo che l'estetico appartiene al sensibile, si dovesse inferire che dipenda dal concetto reale, dal "fuori di me" rappresentato dal sensibile. . Mai come qui il timore fu figlio della colpa! La confusione c'era già infatti nello stesso Kant (è l'ultima che gl'imputeremo) laddove spiega la ragione del piacere estetico come una causalità naturale interposta fra l'immagine, che "produce in me" un piacere (e dunque dovrebb'esser qualcosa fuori di me), e il mio piacere che ne sarebbe il "prodotto" soggettivo. Kantianamente, il "produrre in me" è un concetto causale che serve benissimo (purchè sia meglio precisato) se riguarda il rapporto tutto quanto oggettivo fra l'oggetto collocato nello spazio esterno al mio corpo, per es. quel palazzo percepito solido e rappresentato dal sensibile, e l'eccitazione sentita la quale, come sensazione "interna" (per le risonanze organiche e per i richiami mnemonici d'ogni eccitazione) rappresenta, parimenti, la realtà obbiettiva dell'io, il corpo (la vita). Qui però la sensazione fa da contenuto del conoscere: è il contenuto dell'idea semplice del sensibile (per es. "rosso" astratto per analisi) e dei concetti sui sensibili ottenuti per sintesi causale (come quello in discussione). Diverso è il discorso sulla sensazione in quanto è forma, attuale esistenza: ivi compresa la forma dei detti concetti, attuale almeno come linguaggio. Forma, in tutto e per tutto, d'ogni (implicito) valore: il presentarsi (intuitivo) di questo e il suo attuale farsi (pratico) in una figura sensibile, che ne diviene la contingente individualità. ... . ... 6. . Fin che la sensazione fa da contenuto del pensiero, essa non è che un dato, un punto di partenza, un limite e una condizione del conoscere. Il Kant, in sede gnoseologica, la chiamò - provvisoriamente - "sintesi a posteriori" perchè pensava all'analisi, ch'è l'operazione conoscitiva (attività pratico teoretica, almeno come guardare, fissare, osservare e quindi distinguere) che vi òpera sopra, sia ch'io mi contenti di rilevare e distinguere nel complesso della mia presente sensibilità questo acuto fischio di sirena che mi lacera l'udito, sia che di proposito adoperi i più perfetti mezzi e strumenti d'indagine scientifica per risalire alle cause, e cioè a quelle sintesi che su l'analisi costruiscono i concetti reali, sostituendo alla sintesi empirica ed extrarazionale (contingenza qualitativa del fatto) l'identità e universalità dell'idea. . Però, anche per il Kant, la sintesi a posteriori esiste così come si presenta nella sua contiguità di qualità diverse e qualunque sia l'essenza a cui si voglia e si possa risalire per spiegare la diversità qualitativa e la contiguità contingente. Invero, le "qualità" di cui discorriamo sono già idee - il primo farsi dell'idea: l'idea elementare -, ma si tratta di generalizzazioni d'analisi, che non contengono (e i loro termini, come "rosso" e "diverso" non rappresentano) altra realtà oltre l'esistenza attuale o possibile di sensibili. In una data sintesi a posteriori noi possiamo sempre fare (con l'attenzione) un'analisi astraente che conduce a un'idea di rapporto, ossia a una sintesi conoscitiva; ma, per ora, questa è una generalizzazione (universalità, possibilità all'infinito) dell'esperienza: per es., rapporto (o idea) di diversità del colore dal suono, del suono "do" dal suono "mi" ecc., che diviene molteplicità in genere; rapporto di estensione (per es. di quel rosso nella contiguità d'altri colori); e rapporto di continuità o durata (per es. di questo suono rispetto ad altri sensibili contigui che variano mentr'esso dura o durano mentr'esso varia), che divengon rapporti spazio temporali in genere; ecc. ecc. Anzi, nella medesima superfice rossa possiamo distinguere un'infinità di punti e linee, nella medesima durata un'infinità di momenti, e concepir poi quel rosso e questo suono come l'unità d'elementi in uno spazio e in un tempo puramente nominali che li contengano, convenendo questa scomposizione e ricomposizione al bisogno di misurare. Ma se, per misurarlo, io dico che quel rosso è il risultato di 50 per 30 cmq. di rosso, non ne muto minimamente il valore reale, che coincide con l'attuale o la possibile esistenza d'un rosso. . Anche considerando la forma più pura (più vera) del sapere teoretico, la matematica, ch'è l'ultimo grado astraente del conoscere per analisi dei semplici contenuti intuitivi, essa, certo, vale come sintesi a priori costruita su l'analisi - basterebbero, per convincerne, le idee di unità, (ossia di quantità), di x più 1 (ossia d'infinito) e di x = 1 (ossia d'identità) costruite sulla molteplicità qualitativa -; ma queste sintesi sono formali e la loro realtà coincide con l'applicabilità delle formule (nessuno esige che un'equazione matematica, per essere vera, si debba realizzare in sè, fuori dell'esperienza): sono verità trascendentali ma non trascendenti le esistenze. Ora, dello stesso tipo, come sappiamo, sono tutte le sintesi puramente a priori, che sono valori in quanto fini obbiettivati in giudizi sintetici a priori, norme e regole per conoscere e per agire. E noi sappiamo che tutti i concetti "reali" s'intercalano fra quei contenuti astratti della pura analisi e queste idee pure a priori che divengono valori logici proprio in quanto si applicano a giudicare per analisi o a unificare (spiegare) per sintesi le qualità e i rapporti qualitativi dell'esperienza. Il che è come dire che le esistenze non sono intelligibili che nel dover essere ideale, ma questo non è realizzabile che nell'esistere o attualità dell'essere. . Perciò, conclude la gnoseologia, in quanto il sensibile è contenuto dell'analisi (per diventare oggetto della sintesi), essa lo può impoverire e spogliare di tutte le sue qualità - al solo isolarlo lo impoverisce! -, fin a ridurlo a semplice rapporto quantitativo spazio temporale: di tutte, ma non dell'esistenza, nè quindi della certezza che accompagna la presenza o, in proporzione, la "possibilità" del sensibile. E in quanto poi questo diviene oggetto nella sintesi a priori, essa può sostituire alle qualità sensibili, per antinomia pratica o per opposizione dialettica, tutti i valori puri, che chiamiamo "spirito", dettati dal volere che dirige l'attività stessa e glie li pone come fini (trascendentali): ma questi valori, rappresentabili in sè come veri, diverranno reali in rapporto all'esistere, che pertanto è l'attuarsi dello "spirito", nel quale rientra la "natura" come finalità obbiettiva del conoscere. . Allora, in sede metafisica, dobbiamo seguire il cammino inverso a quello della gnoseologia, ritornando dalla dialettica all'estetica, che ci definisca l'esperienza pura, la pura esistenza sensibile. Orbene: in quanto il sensibile non è più o non è ancora un astratto contenuto (a posteriori) di concetti (per es. il concetto stesso di "sensazione"); nè quindi più vale soltanto come rappresentazione di cose e di fatti (di sostanze e cause) posti fuori ed oltre di esso, che cos'è, se non pura forma, la forma di tutto? Come "esiste", tutto, e quindi anche ogni "valore", reale o ideale che sia, oggettivo o soggettivo, se non in un contingente rapporto di qualità, sensibilmente? Questo rapporto, noi lo chiameremo per antonomasia "immagine" (o "idea" da "video") allorchè di nuovo lo riferiremo a un oggetto in sè (per es. l'immagine di quel palazzo); oppure lo chiameremo "espressione" (o "figura", da "fingo") allorchè lo riferiremo a una finalità o soggetto in sè (per es. l'espressione di questo pensiero): ma quell'oggetto e questo soggetto, che antinomizzati ed esplicati (nel pensarli) divengono gli a priori dei contenuti sensibili, sono sempre, inversamente, contenuti d'una forma estetica (almeno verbale) che implicitamente li "presenta" uniti, e perciò appunto li può rappresentare in sè: può diventare, come vide il Kant, condizione esistenziale del giudizio reale (condizione della facoltà di giudicare obbiettivamente, veracemente). Basta ricomporre la sintesi a posteriori e considerarla per sè medesima (vale a dire, non più a posteriori), per trovare la sua propria forma, il suo immanente valore. . Il ripiegarsi della filosofia dalla dialettica trascendentale all'estetica ond'era partita, segna l'esito naturale del criticismo verso una metafisica dell'esperienza pura, nella quale infatti s'aggira il pensiero nuovo di questi ultimi cinquant'anni, dalla "filosofia dell'immanenza" alla "metafisica del finito": nominalista e prammatista, contingentista e intuizionista, soggettivista e attualista. L'insidia mortale che vi si nasconde sta nel pericolo di adeguare tutto il Valore alla mera esistenza: di prendere l'intuizione sensibile, l'estetico, come conoscenza, o a dirittura possesso dell'assoluto reale; e di prender l'attualità come eticità, spirito tutto in atto. Il che è rinunciare all'a priori scoperto dal criticismo, al trascendentale stesso logico e pratico; e ritornare al nominalismo medievale, salvo, come allora, il rifugiarsi nella mistica intuizionistica(22). ... . ... 7. . Evitiàmo d'incedere fra sì dolose ceneri e ritorniàmo al Kant, nel quale almeno appar chiara l'intenzione di distinguere criticamente il valore estetico dagli altri valori, definendo al tempo stesso i loro rapporti. Per il Kant infatti, l'intuizione estetica, quantunque sia condizione della conoscenza - non solamente come dato e limite a posteriori, ma anche in quanto la contemplazione disinteressata condiziona psicologicamente il giudizio obbiettivo riflettente -, non è una conoscenza, mancando di concettualità (il bello non è il vero); e il piacere estetico, quantunque preluda e introduca alla coscienza etica, con la quale lo sentiamo affine, non è un sentimento morale (il bello non è il bene), mancando di normatività come di finalità pratica. . Però, egli aggiunge (e ciò segna il momento metafisico della sua estetica), la forma sensibile, tal quale si presenta immediatamente nell'intuizione di un "bello di natura" (dato cioè nella sintesi a posteriori), rivela un misterioso accordo fra il mondo sensibile e il mondo intelligibile, per i quali la forma estetica fa, per così dire, da terreno d'incontro; come, psicologicamente, l'immaginazione diviene la facoltà media fra il sentire e il pensare. Infatti il Kant chiama anche "idee dell'immaginazione" i valori estetici, per dire che sono idee senza concetto, valori dati nell'immagine o forma fenomenica della sensazione, sentita in accordo con l'intelletto ma non dipendente da questo. . L'accordo kantiano fra sensibile e sovrasensibile, sentito come piacere della pura contemplazione dell'immagine, sarebbe dunque esso il principio del bello e del sublime, com'è la ragione del piacere estetico. Voglio dire che, criticamente, il fondamento del giudizio di gusto non è, nemmeno per il Kant, il piacere, ma la sua ragione, l'accordo intuitivo di sensibile e intelligibile; o meglio, la soggettività o finalità implicita nella semplice "apprehensio" del dato, e quella, aggiungerei, che noi stessi implichiamo nell'arte ("exibitio") quando appunto adoperiamo una forma o immagine sensibile per esprimere quei valori, che il pensiero invece esplica ne' suoi giudizi conoscitivi. . Adunque, per intanto, l'aver detto che il valore estetico è soggettivo perchè fondato sul sentimento estetico, era un malinteso. Ogni valore appare psicologicamente condizionato dal sentimento perchè ogni giudizio, in quanto giudizio "di valore", è mosso dal sentire: perfino il più teoretico dei giudizi è pratico in quanto la sua modalità è ispirata dal dubbio o dalla certezza subiettiva. Ma da tal punto di vista (empirico) il Kant poteva concluder lo stesso per il valore morale, come ha fatto l'etica del sentimento (dagli inglesi al Brentano), e per la realtà medesima riducibile a un sentimento di attesa, come fece l'empirismo (dallo Hume allo Schuppe)! La critica kantiana è fatta apposta per dimostrare, che un giudizio morale e un giudizio reale sono validi obbiettivamente e non soggettivamente, in quanto enunciano un principio obbiettivo (universale) totalmente a priori o in quanto ne dipendono; e la loro subiettività empirica non ci serve che a rappresentarci soggettivamente la finalità che si realizza in quell'atto o in quel giudizio. . Ma qui, o rinunciamo a servirci della critica kantiana, o dobbiam penetrarla meglio di quanto sia stato fatto. Siamo alle conclusioni del vecchio filosofo al suo lungo faticoso lavoro: il suo criticismo converge tutto verso le poche pagine introduttive alla terza Critica; verso questo arcano, sentito accordo fra il sensibile, su cui e per cui costruiremo i concetti reali, e il sovrasensibile, trascendentalità del valore, dover esser a priori che chiameremo spirito, e che per il Kant è una realtà assoluta, sì, ma puro-pratica (non teoretica, come la realtà di natura) proprio perchè non relativizzabile al sensibile, all'esperienza. . Ora, si potrebbe chiedere: l'accordo fra l'intelligibile noumenico e il fenomeno sensibile, non l'aveva già posto, il Kant, nella conoscenza fenomenica (teoretica)? che cos'è questa, se non il momento in cui il pensiero, che come finalità e libertà (come pura ragione) si antinomizza sempre al sensibile, incontrandosi con la molteplicità di quest'ultimo la prende a contenuto della categoria facendosi "intelletto"? non è, il concetto reale, l'accordo più vero fra i due mondi, il relativizzarsi del fenomeno al valore a priori e il costituirsi reale di questo in conformità all'esistenze oggettive, alla necessità fenomenica? . Giustissimo! risponderebbe il Kant. Ma, avanti tutto, la conoscenza non è un accordo come unità già data e certa in sè (un'esistenza, noi diremmo, come la sintesi a posteriori): è un processo di unificazione sempre più vasta dal particolare all'universale della categoria pura (l'essere è il dover essere dell'esistere). Inoltre, è unificazione dei contenuti per opera del pensiero, non unità di contenuto (oggettivo) e di pensiero (soggettivo), chè questo anzi si esclude dalla sintesi (si nega) per raggiungere l'obbiettività dell'oggetto dato, la necessità di natura; e quindi, di nuovo, si antinomizza ad essa come spiritualità, finalità puro pratica. Allora, da una parte la molteplicità del sensibile potrebbe sembrarci senz'alcun valore, senza trascendentalità, e non si capirebbe che ragione abbia il pensiero di oggettivarsi in essa come necessità e natura quando potrebbe liberamente obbiettivarsi come finalità e spirito; dall'altra parte, in quanto il pensiero è autore delle sintesi conoscitive, il suo mondo potrebb'essere nient'altro che il sogno d'un visionario, e la stessa facoltà di conoscere e di giudicare non avrebbe alcun fondamento. . Il fatto, dunque, che nel sensibile, così come si presenta alla semplice contemplazione della sua forma unitaria, troviamo (sentiamo) un valore (il bello) dato dall'accordo con la finalità in genere - soggettività del fenomeno indipendente dall'azione (oggettiva) che il fenomeno produce come causa naturale sulla natura del soggetto (il corpo, come noi abbiam corretto di sopra) -, risponde all'esigenza metafisica, che la "cosa in sè", il dover essere dalla parte del fenomeno, nell'incontro estetico si unifichi con la libertà noumenica o finalità pura; e si possa pensare che la natura in sè abbia conformità con lo spirito: il che (aggiunge il Kant) ci può anche servire di canone nell'indagine sulla natura, mentre ci autorizza a pensarla come intelligibile, a giudicarla anche in sè. . Queste le conclusioni metafisiche dell'estetica kantiana, alla quale riallacceremo la nostra. Se ci riesce di epurare il criticismo dai residui del realismo psicologista - chiamo così il dualismo, cioè il credere che una realtà fuori di me divenga o produca un realtà in me, oppure il viceversa spiritualista -, codesta vaga premonizione kantiana d'un arcano accordo di soggetto e oggetto sospesa a un sentimento estetico di valore puramente subiettivo, uscirà, mi pare, dalle nebbie così care ai posteriori romantici, e acquisterà consistenza filosofica, ossia razionale. ... . ... 8. . Rifacciàmoci un istante a quella finestra che aprimmo all'inizio del presente capitolo: quel rosso è la casa d'un mio buon amico, quel blù è il mare dove desidero andare; qui passa un'automobile, là una prudente mamma prende in braccio il suo bambino per attraversare la strada. Tutti questi son giudizi "determinanti", già impliciti nella percezione dove quel rosso rappresenta una casa o l'atto di questa donna rappresenta l'amor materno. Queste determinazioni deduttive presuppongono, si capisce, un precedente processo "riflettente" che, su l'analisi comparativa dell'esperienza, raggruppando alcune qualità più stabili e inferendone alcuni rapporti più costanti, abbia formato i concetti, come casa e mare, o come amicizia e prudenza; e si capisce del pari che ciascuno li avrà formati, non per illuminazione divina e per scienza innata, ma diversamente scegliendo e valutando, e poi generalizzando, fra gl'infiniti aspetti dell'esperienza sol limitata dalle capacità sensibili - limiti che gli strumenti e i mezzi d'osservazione posson allargare -, secondo il proprio interesse e sforzo conoscitivo: quella casa non sarà la stessa "cosa" per un ingegnere e per la mia domestica, questo amor materno non avrà lo stesso "valore" per me e per quel bimbo. Se poi ci fosse qui un osservatore più esatto, quel rosso diventa l'area ottenuta moltiplicandone la base per l'altezza e la velocità di questa macchina diventa lo spazio percorso diviso per il tempo; ossia, trattandosi di concetti astraenti, ci vorrà un linguaggio (un artificio sensibile) per rappresentarceli. . Tutto ciò riguarda l'operazione conoscitiva, la genesi della conoscenza. Ma, determinante o riflettente che sia il nostro pensiero, particolare o generale, concreto o astratto - riduciàmoci, se vi piace, a pensare soltanto: "quel rosso è rosso", idest "è vero quel rosso" (in sè) -, un tal giudizio, implicito e spontaneo nella percezione o esplicito e voluto in una proposizione, pone un valore (che nel nostro esempio è "reale") sempre trascendentale rispetto all'esistenza o presenza del dato e all'attualità della parola. È la constatazione dell'a priori kantiano. Se ne inferisce, per ora, che ogni cosa vale oltre il sensibile, oltre l'esistenza e presenza attuale. . Il termine "valore" che adoperiamo in filosofia corrisponde perfettamente al termine psicologico "coscienza". La critica o riflessione filosofica sui valori diviene perciò analisi della coscienza. Criticamente, valore è il detto rapporto dell'a priori (universalità del valore) con l'a posteriori dato sensibilmente: non rapporto (causale) fra enti, ma dislivello, antinomia sentita come finalità (pratica), e conosciuta come opposizione (dialettica) del dover essere all'esistere. Nell'analisi della coscienza, ciò diventa il "rapporto di soggetto a oggetto"; ma diremo oggetto prima di tutto il sensibile, e poi, di conseguenza, tutto il resto in quanto si adegua e relativizza all'esistere sensibile nella conoscenza teoretica: la percezione già realizzata nel sensibile, e la stessa ragione come concetto del sensibile, scienza e sapere "reale". E diremo soggetto della coscienza la finalità: il sentimento avanti tutto, non come esistenza e sensibile organico (che ritorna fra gli oggetti dati), ma in quanto praticità, antinomismo sentito nell'esistenza medesima; quindi, il volere come dislivello fra l'esistere e il fine sentito (e poi rappresentato conoscitivamente). Il rapporto tra la finalità e l'oggetto costituisce il valore di questo: pratico in quanto dover essere soggettivo (obbiettivato in norme e principii), teoretico in quanto oggettivo, legge e dover essere dell'oggetto, "inseità". . Allora, chiameremo "verità" l'obbiettività o universalità del valore: la conoscenza pura. Tutti diranno ch'è vero Dio, che son veri una legge morale, o un principio di giustizia, o una norma d'utile, o anche una formula matematica pura: tutti i fini, obbiettivabili nel pensiero - attività (reale) di cui il volere si serve per esplicare le finalità implicite nel suo esistere come sentimento e per universalizzarle superandolo - si posson dire veri "in sè", assolutamente. Ma questa, chiamiàmola così, teoreticità del valore pratico (l'"idea" kantiana), questa verità, per la critica non è sinonimo di "realtà"; ne costituisce soltanto la condizione a priori. Per la critica, come per la coscienza, reale non può esser che l'"accordo" del vero universale - che divien categoria, dover essere della "cosa in sè" - con l'esistere: l'essere. Tale accordo è la sintesi teoretica, il "concetto" kantiano, percepito, o appercepito col pensiero. . E qui, dalle conclusioni tratte dal criticismo passiàmo a quelle che vorremmo trarre dall'hegelismo. Come l'antinomismo pratico di soggetto a oggetto non è divisione di due cose o nature, ma opposizione, voluta perchè sentita, della finalità o libertà subiettiva all'esistenza sensibile o necessità obbiettiva, così il loro accordo non è che il processo, il "divenire" per cui l'una si "attua" nell'altra. . Che significa il termine "atto"? Noi tutti chiamiamo così quella parte del mondo sensibile (per es, il movimento di ritrarre la mano dal fuoco) in accordo, appunto, con le nostre finalità, perchè attua, realizza, fa esistere il fine in una successione sensibile. Si può dire che in un atto pratico il fine è "immanente", proprio in quanto la soggettività esiste oggettivamente, è reale di fatto, è vita. Ma l'atto pratico non è che una parte del mondo esistente obbiettivamente come necessità (una parte della "natura"); e il fine pratico non è che un momento della finalità (dello "spirito"), la quale si sente impedita dall'esistere che ne limita la libertà, e non si può attuare mai tutta in esso. Perciò l'atto pratico si converte in processo e atto conoscitivo (pensiero e giudizio). Da una parte ci rappresentiamo il fine stesso preso in sè, universalmente - in opposizione all'oggetto dato -; e così il soggetto sensibile (il sentimento) si trascende: ma la rappresentazione obbiettiva del valore, nella sua forma pura, non può esser dunque che una norma, un modello, un archetipo, che ci serve per dare giudizi di valore e non per "fare", per attuare la finalità nel sensibile (modificando il mondo) e, insomma, non immanentizza il valore. Dall'altra parte ci rappresentiamo l'essere reale - per mediazione di soggetto e oggetto -, come natura e nostra stessa natura, riflettendo su l'analisi dell'esperienza e determinando (in giudizi esistenziali) il sensibile come essere in sè; e non è che una parentesi conoscitiva, un mezzo per reagire sul mondo sensibile e per modificarlo. Il più certo de' nostri giudizi sarà: "Quel rosso è rosso", obbiettivazione dell'oggetto ottenuta per sola analisi dell'unità sensibile già data; il più vero sarà: "A = A", obbiettivazione della finalità teoretica ottenuta per sola sintesi (a priori), e che chiameremo concetto formale in quanto s'attua in un mero simbolo, in un sensibile ch'è un atto destinato a rappresentare un principio universale, che nessun dato a posteriori bastava a reggere distintamente. Fra quei due estremi del concetto e giudizio esistenziale e del concetto e giudizio puro si formano i concetti reali in cui verità ed esistenza si mediano, graduandosi nelle rappresentazioni probabili, dai concetti storici al naturalismo scientifico. ... . ... 9. . Se il giudizio a sua volta si realizza percettivamente e si attua praticamente; se l'attività pensante, e la parola in cui si esprime, sono mezzi transitori per ritornare alla cosa e alla vita, è esatto dire che il pensiero "diviene" il suo oggetto; o meglio, che nel sensibile si attuano quei valori intelligibili che ormai gli resteranno immanenti. Immanenti, in quanto il sensibile esiste e li rappresenta: in tal senso, l'esistere (come s'è enunciato di sopra) è l'attuarsi dello spirito (nel quale rientra la natura come finalità teoretica del conoscere). Infatti, ad ogni istante, nel dato a posteriori troviamo dei valori già prima pensati. . Tuttavia, la conoscenza - la s'intenda criticamente come sintesi formale a priori su l'analisi dei contenuti dati, o la s'intenda hegelianamente come spirito (finalità) che si attua in una forma (sensibile) - non realizza che in parte l'antinomismo kantiano di soggetto a oggetto, di finalità a esistenza, di valore come dover essere a priori e di attualità e contingenza a posteriori. Proprio per questo c'è sviluppo, c'è divenire della conoscenza: perchè in ogni conoscenza c'è un valore trascendentale che non s'immanentizza ancor del tutto nell'oggetto e nell'atto. In modo più semplice basta dire, che la conoscenza è rappresentazione obbiettiva del valore soggettivamente sentito: siccome ormai l'esistenza che rappresenta i valori è la forma sensibile, il sovrasensibile è ciò che la supera, non soltanto praticamente (dalla parte del soggetto) come finalità, ma anche teoreticamente (dalla parte dell'oggetto) come verità. . Infatti, per rappresentarci un valore, e tanto più quanto è più puro, noi dobbiamo, come s'è visto, scegliere (per analisi) o a dirittura inventare una particolar forma sensibile, che nell'un caso per semplice somiglianza (per es. un'esperienza scientifica), nell'altro per semplice contiguità (per es, una proposizione verbale) ci rappresenti e sostenga i valori del pensiero. . Allora, nella riflessione filosofica, che riflette l'antinomismo conoscitivo, si riapre il dualismo come antitesi tra forme (o atti) "puri" e forme (o esistenze) "reali", che la contemplazione estetica, secondo Kant, dovrebbe placare, e il superamento dialettico, secondo Hegel, dovrebbe comporre nella sintesi idealistica. L'importante era giungere su questo terreno, e porsi avanti le forme sensibili come il vero e unico "concreto" esistente, su cui esercitare la critica. Fintanto che noi consideravamo il sensibile come contenuto e punto di partenza della conoscenza, e gli atti come strumenti de' nostri fini, li dovevamo trascendere per raggiungere il valore puro: la cosa in sè del contenuto fenomenico, il principio a priori dell'atto volontario. Ma se ormai riguardiamo (contempliamo) il sensibile - perchè ci rappresenta e conserva quei valori - come esistenza e attualità del pensiero (o, in termini hegeliani, come realizzazione dello spirito), è il sensibile medesimo che ci appare in sè (di fronte alle finalità soggettive), appunto in quanto esistenza e presenza attuale. Se poi ci chiediamo, a che questo esistere si riduca, col prescindere dai valori rappresentati, ecco ch'esso appare sola forma e non più contenuto (salvo a divenirlo d'un nuovo pensiero). . Difatti il termine "forma" altro non indica che l'unità del puro sensibile: il rapporto, potremmo dire, fra gli (astratti) sensibili presi per sè. Quel rapporto che, come contenuto, è la sintesi a posteriori, si presenta formalmente come un'immagine esistente, prima dell'analisi conoscitiva e della scelta pratica, e perciò cede poi l'esistenzialità ai valori che rappresenta e li fa reali. Li fa reali in quanto vi s'accordano, e si accordano in quanto sono concetti probabili, ossia provati appunto dall'esperienza scelta a rappresentarli (come accade nella scienza). In quanto invece i valori si antinomizzano, il pensiero "forma" le "idee": però, che altro sono queste forme pure, se non atti e parole, ossia ancor esse dei sensibili, scelti e, per così dire, dematerializzati dalle contiguità sensibili empiriche per rappresentar meglio un valore universale, ma pur sempre immagini e figure esistenti, almeno come linguaggio? . Perciò, in conclusione, tutto, ripeto, esiste in una forma e ogni valore si attua formalmente: il corpo è la forma dell'anima, e il mondo in sè ha una forma, o meglio infinite forme, fra le quali scegliamo analiticamente le più rappresentative del suo dover essere e del nostro particolar essere, come s'è detto nell'esempio di più persone affacciate alla stessa finestra, ossia di fronte alla stessa sintesi a posteriori. . Orbene: diverso è l'atteggiamento del gusto e dell'interesse estetico; chiamo così l'interesse diretto alla forma sensibile, il gusto del puro sensibile. Non più "operazioni" conoscitive, non più analisi, non più rappresentazione di "altro" oltre il "contenuto" sensibile. Il sensibile vale per sè, come forma, rapporto (dicevo sopra) fra gli astratti (dall'analisi) elementi della sintesi a posteriori, la quale è presa in sè, a priori. So benissimo, s'intende, che quei rettangoli di colore sono case, quel blù è il mare ecc.; so anche che queste "qualità" delle "cose" sono al tempo stesso sensazioni (eccitazioni visive ecc.) unificate per mezzo della memoria: ma se riesco a guardarle e a sentirle, non come case o mare, visioni e ricordi ecc., ma come figure - per es. macchie di colore in reciproco accordo o disaccordo, accordo o disaccordo di suoni fra loro, ecc. - io sono artista (oltre che uomo pratico e conoscenza teoretica). . Qui il termine "accordo" (o "disaccordo") acquista il suo preciso significato (estetico), che per metafora trasportammo al rapporto conoscitivo posto fra il sensibile e il valore rappresentato (che dev'essere invece assoluto, identità teoretica o antinomismo pratico). . L'intuizione estetica è l'apprezzamento o valutazione del sensibile "senza concetto", il valore del sensibile per sè medesimo, o, tout court, il valore sensibile, che ormai si potrebbe chiamare formale, ma coincide perfettamente col valore esistenziale. La coscienza estetica, attualità di questo valore, si distingue dalla conoscenza perchè non supera il sentimento in un soggetto assoluto nè come "io" nè come Spirito. Errato è l'intender l'estetico come una natura soggettiva, perchè l'esistere è del soggetto come dell'oggetto e l'analisi della stessa sensazione può astrattamente risalire all'uno come all'altro nei concetti reali. Ma del pari errato è il dirlo soggettivo in quanto il giudizio estetico è un giudizio di valore basato sul sentimento di piacere che accompagna l'accordo sensibile, già che in tale "accordo"; anche per il Kant, sta il valore estetico, e il piacere n'è un risultato. . In tal caso possiamo soltanto concludere che il giudizio estetico non può risalire (nemmeno filosoficamente) a un principio puro a priori: non può, perchè il sensibile diviene il fine e l'oggetto assoluto (e non relativizzato ad "altro ") di tale attività o giudizio. Ma ciò non implica che quel valore - che, in luogo di antinomizzarsi al sensibile, si attua tutto in esso, vi si trova immanente - sia soltanto soggettivo, sia senza esistenza, chè anzi è il valore del puro esistere preso per sè. Perciò dunque il giudizio estetico esplica un valore trascendentale (universale) e al tempo stesso immanente nei contenuti: il bello è l'universalità del concreto. ... . ... 10. . Se il bello è il rapporto di valore immanente al sensibile nella forma data, tutto ciò ch'io vedo, odo o comunque gùsto, è bello o no, prima di tutto, in quanto si presenta attualmente, senz'altra condizione che d'esser un sensibile sentito in quanto tale. Perciò i rapporti estetici tendono a raggrupparsi secondo le sfere della sensibilità, e quindi anche le arti si distinguono poi con lo stesso criterio (dei suoni, colori ecc.); non v'ha sensibilità senza esteticità. Se i sensibili organici, e via via quelli tattili o termici, olfattivi o gustativi, presentano minor esteticità della vista o dell'udito, ciò dipende dalla più intensa praticità dei primi che, per esser più sentiti, vengon immediatamente trascesi dal volere; e sopratutto dipende dalla minor possibilità di rapporti esistenziali, ossia di forme e configurazioni di tali sensazioni(23). . L'estetica oggi nega che esista un bello sensibile, e quindi in natura; e lo riporta all'arte sperando di ridurlo tutto a spirito: sì, perchè l'arte sarebbe creatrice del bello, e ne sarebbe creatrice perchè fantastica. Ritorneremo su questa "fantasia creatrice", misteriosa facoltà occulta dell'arte. Osserviamo però che, se è vero che un letterato lavora con delle immagini (riprodotte), un pittore invece lavora co' suoi tubetti di colore e un musicista con le note del suo piano. Anzi, di più, un regista adopera uomini e cose reali per comporre le sue scene, una danzatrice forma le sue figure col suo stesso corpo. Del resto, il letterato medesimo è tale in quanto evoca immagini percepibili in parole, e la sensibilizzazione dell'immagine è il fine artistico della letteratura e si chiama poesia (come meglio vedremo). . L'arte è un fare e implica un fine, il fine estetico; come lo distingueremo dagli altri? Semplice artiere chiunque produce, fa un "oggetto", per un qualunque fine pratico (per es. farà un coltello). Sarebbe invece artista chi per es. esprimesse la stessa utilità, o magari la stessa materialità, o un qualsiasi altro valore nella forma di quell'oggetto medesimo: il nostro coltellinaio, divenuto artista, snellirà la lama, allungherà la punta, irrobustirà la costola e affilerà il taglio del suo coltello per imprimervi il senso d'un bel coltello di buon acciaio pronto a colpire e a penetrare, inesorabile e sicuro... Arte è prima di tutto questo artificio sensibile; e la fantasia dell'artista non è la facoltà fabulatrice comune ai sognanti mortali, sufficiente per il giuoco, contenuto e materia (come il resto) dell'arte; ma è disciplina che sceglie e inventa forme che rendano sensibilmente i fini; realistici o idealistici che siano. . A rigore, l'arte non è nemmeno obbligata a proporsi "il bello", se con questo termine intendiamo la forma sensibile che fa piacere (come tale). In questo senso, il bello è un risultato, è il valore estetico raggiunto, contemplato, conclamato: l'esistere di un bello (nel tempo), il "fatto" e non il "fare" dell'arte. Un buon artista rifugge anzi dal proporsi un bello esistente, qual'è quello contemplato in natura o in un'opera d'arte (in uno stile raggiunto), perchè il valore estetico è definitivo nella sua attualità sensibile e il riprodurlo lo indebolisce, il proporselo induce al calligrafico o al decorativo, all'arte (appunto) "piacevole". Lo "stile" è la forma esprimente la finalità artistica; piaccia o non piaccia, lo diranno i secoli. È soggettivo? Sì, in quanto vien riferito alla natura dell'artista; ma è valore proprio perchè immanentizza il sentimento nell'esistere in sè della forma. Nell'opera d'arte l'analisi trova sempre l'artista e il suo oggetto, ma l'opera supera l'artista: ecco il miracolo dell'arte, la ragione per cui qualche pezzo di calcinaccio colorato, un rapporto spaziale fra balcone e portale sottoposto, una frase di suoni o una semplice parola, ci possono riempire di sgomento e di stupore; e niuna ricerca sulla vita e sulle fonti di un artista adegua minimamente i motivi e i precedenti dell'opera alla grandezza terribile di quell'accordo di colori o di suoni. Perchè? Per ora cerchiamone il come. . "Esprimere un valore" è diverso dal fare una cosa, come dal rappresentarsela (conoscitivamente). L'arte può, come nell'arte applicata o nell'architettura, fare un oggetto per un fine, per es. pratico, che lo trascende, ma non è questo che la caratterizza; infatti può esser anche arte libera, come la pittura o la poesia, e il suo fare reale consisterà solo nel costruire delle forme sensibili. Del pari, l'arte può rappresentare, imitando o simboleggiando, un oggetto o un soggetto, ma può anche non rappresentar nulla - non trascendersi nella rappresentazione di qualcosa oltre il sensibile -, come nella pura musica o nella pura danza. Esprimere un valore significa dunque attuare formalmente una finalità, accordare il puro sensibile al fine (al valore subiettivo, l'inverso della conoscenza). . Pertanto sarebbe fonte di malintesi anche il definir l'arte come spontaneità del sentimento (vita) oppur dell'immaginazione (fantasia), senza interporre una vera e propria finalità artistica, consistente nella ricerca di quell'accordo tra la finalità in genere e l'espressione. L'arte è pensiero dell'arte. Non è artista chi esprime gesticolando un dolore, sì bene l'attore che trova un gesto espressivo di quel dolore, bello o brutto che sia in sè; non è artista il bimbo che scarabocchia un'immagine (che piacerà o no esteticamente a "noi"), ma il disegnatore - sia pure un "primitivo" - che vuol rendere in una forma (spesso, perciò, esagerando) ciò ch'egli vede e sa di vedere. . Qui appare il criterio di unità e distinzione fra bello di natura e arte. Tutto è bello o brutto in natura, nella sintesi a posteriori (cioè, di fronte a un contemplante), perchè ogni "cosa" ha una forma sensibile, quel cielo di nuvole bianche come questo palazzo, il gorgheggio d'un usignuolo come l'uccellino del Siegfried(24). Parimenti, ogni "atto" (natura, ossia vita umana) esprime una finalità, il gesto di quella madre come il Laocoonte, più o meno esteticamente. Ma se lo stile dell'arte, quand'è raggiunto, contemplato, ritorna a esistere come il bello di natura - con la sola differenza che il giudizio d'arte tien sempre conto di quel rapporto fra l'intenzione o finalità dell'artista e la sua attuazione sensibile(25) -, il giudizio intuitivo "è bello" riguarda, in quanto estetico, unicamente quest'ultima. Intendo dire, che il bello non è un volere, un dover essere: è l'unico valore ch'è tale in quanto esiste, in quanto è raggiunto, immanente al dato - e quindi l'unico piacere che appaghi il volere, che sia solo piacere -; pertanto ciò che conta, anche nell'arte, è questo esistere e il modo com'è espresso nella realtà in sè di un'opera d'arte. . Insomma, la mia tesi va in senso opposto a quello dell'estetica corrente: non esiste realmente altro valore che il bello, che vale in quanto sensibile, e perciò pròva empiricamente la possibilità dei valori trascendentali e ce li "presenta"; l'arte è quell'attività che si pone per fine la stessa forma sensibile, e sensibilmente si attua, diviene esistenza: fa esistere il soggetto spirituale in una presenza, che riman poi nello spazio e nel tempo a rappresentare i valori umani in una forma esistenziale. Il pensiero estetico è quel pensiero che non riferisce ad "altro" il valore dell'esistere intuitivo fuorchè alla sua forma sensibile: la chiama bella se vale per sè, in natura, anche se son io che la contemplo e fu l'artista che la volle a quel modo. Allora, la filosofia dell'arte ci deve svelare il segreto del come un valore, esplicito e antinomizzato nel pensiero, si attua, si fa sensibile, "diviene" realmente e non per sola mediazione conoscitiva; infatti, tutto il pensiero può passar nell'arte. E la riflessione sul fondamento del criterio artistico apre la via a risolvere il problema del bello in natura: voglio dire, a comprendere l'immanenza d'un valore riferibile alla cosa in sè, all'essere universale, e non solamente alla soggettività di un fine umano. ... . ... CAPO 7. L'ARTE. ... . ... 1. . Abbiamo così messo il piede sopra la soglia dell'estetica, intesa questa come critica del bello in particolare e teoria dell'arte. Questa arte della critica filosofica riflette su l'attività estetica allo scopo di cercare il fondamento al criterio valido per ogni giudizio estetico. Se io affermo ch'è bello un paesaggio o un quadro, e se implicitamente un giudizio analogo guidava la mano del pittore, ci dev'essere un principio a cui farne risalire la ragione o il torto, ci dev'essere un valore in cui consista il fine e quindi la norma dell'opera d'arte e da cui dipenda il piacere della contemplazione del bello. Perchè asserire a priori che l'estetica non debba servire all'arte e alla critica d'arte, sol perchè è filosofia? Anzi, a priori, gli artisti e i critici di letteratura e d'arte hanno tutto il diritto d'aspettarsi dagli estetisti l'orientamento per i loro giudizi e di dichiararsi poi insoddisfatti di quella filosofia, che non sia riuscita a dargliene uno convincente. . Certo, l'estetica filosofica non può "servire" al criterio d'arte nel significato comune di quel termine: vale a dire che non può sostituire l'attività o anche la sensibilità estetica quando manchino; non può essa fornire i fini e i mezzi attuali dell'arte creando le capacità e il gusto estetico. Allo stesso modo che la logica non serve a ragionare e l'etica a operar bene: in tal senso, la filosofia non serve a niente... Ma come queste due parti della filosofia dànno al pensiero teoretico e pratico la consapevolezza dei fini e dei mezzi, dei limiti e delle condizioni, delle distinzioni e dell'unità de' suoi valori, e appunto servono a illuminarci circa il principio formale di quei contenuti e atti, sul quale fondare il criterio per giudicare della lor realtà o bontà, così l'estetica è chiamata a illuminare e dirigere l'attività estetica come una norma può e deve dirigere una qualsiasi attività, universalmente e non particolarmente. Laddove invece una filosofia che non sia applicabile al concreto e non si possa trasformare in norma di vita, ritorna ad essere essa medesima un fatto della vita (per es. il piacere di ragionare per ragionare, magari in correttissima terminologia filosofica, visibile nel dilettantismo filosofeggiante o in certi libri di paranoici), distaccato dagli altri e accanto agli altri. . La filosofia spesso ha deluso le esigenze estetiche per altre ragioni. Di solito considerò questo problema come secondario e subordinato a quello teoretico e a quello pratico, e violentemente lo trascinò a seguir le sorti delle soluzioni di questi altri problemi e quasi a venir riassorbito in essi: ora travolto dal rigorismo etico sotto le onde dell'iconoclastia, ora ridotto dall'intellettualismo teoretico a formar quasi una gnoseologia minore: il valore estetico si perdeva durante la stessa ricerca. Basta che il filosofo continui, per tradizione o per abito mentale (raramente egli è "artista"; più spesso è soltanto un po' "letterato"), a riguardare l'estetico dal punto di vista d'un altro valore - per esempio, logico -, perchè gli diventi impossibile giunger più a una positiva conclusione estetica: sia che svaluti la bellezza e l'arte chiamandole illusione, imitazione, fantasia, soggettività; sia che ponga l'arte in cima a tutte le umane potenze, quasi il fiore dello spirito, dichiarando che il bello è rivelatore del mondo assoluto, o anzi ch'esso è l'assoluto e che l'artista è in contatto diretto con la realtà più vera, più essenziale, più religiosa; nell'uno e nell'altro caso sapremo, se mai, che valore noetico ha l'arte, non sapremo che cos'è o dev'essere l'arte come tale. . Spettacolo interessante! la filosofia è ancor oggi a questo bivio, dovuto al suo persistente realismo logico ed etico. È costretta a convenire nella distinzione del valore estetico, a convenire che il bello non stia nè nella realtà d'un oggetto, condizionata dalla nostra attività teoretica, perchè un oggetto non è bello in quanto oggettivamente reale e la verità d'un contenuto non aumenta nè diminuisce la sua bellezza; nè che d'altra parte possiam porre tal bellezza nei valori morali, che può implicare ma non è obbligata a farlo per esser bellezza, e anzi ne vien menomata quando si lasci dirigere da fini pratici invece che estetici. In tal caso la filosofia, pur se filosofia idealista, per mantenere la distinzione si getta all'empirismo, e nega che si possa ricondurre l'estetico a un fondamento e a una norma che superi il fatto individuale d'esser volta per volta quello che è o si fa: il bello non è che il piacere del bello; l'arte non è che attività spontanea, assolutamente arbitraria e creativa, e ogni opera d'arte è affatto individuale, imparagonabile con le altre e indeducibile da un criterio che la superi; l'estetico è soggettività pura, immediatezza prima del sentimento, mera intuitività, ecc. ecc. Ma esteticamente parlando, questa conclusione, che il bello e l'arte non sono nulla, non son neppure pensiero, perchè immediatezza e spontaneità, e, infine, sentimento, rimanendo empirica, è scettica. . Allora, per superarla, la filosofia ritorna all'opposta tesi, cancellando la distinzione e immedesimando il bello nel pensiero conoscitivo e nel volere pratico, e cercando di far rientrare l'attività estetica in quella logica e morale come un lor grado minore, come una conoscenza dell'individuale ma non ancora logica, come un sentire non ancora volere; o come semplice "momento" soggettivo dello spirito, astrattamente immediato e irreale, ma che si concretizza e realizza annullandosi (in quanto arte) nei successivi momenti della conoscenza oggettiva (scienza e religione) e dell'autocoscienza del pensiero (storia e filosofia). Ma così il bello ritorna a valere realmente sol in quanto abbia dei contenuti veri, e idealmente sol in quanto sia ispirazione etica. E l'estetica filosofica è filosofia sol in quanto riconduce l'estetico ad altri valori, e non può più offrire alcuna norma all'artista o al critico d'arte in quanto tali: è quella filosofia estetica che non è più estetica, ma filosofia senza aggettivi. . Non questo ci chiede il lettore non appena, fatto esperto delle aporie e contraddizioni alle quali va incontro il giudizio empirico che si suol dare in materia estetica quando anche i più intelligenti (e gli stessi artisti) cercan di giustificare il perchè di tal giudizio e il perchè del loro piacere e dispiacere estetico, si rivolge a noi sperando di trovare qualcosa di analogo a ciò che gli dice l'etica circa le sue esigenze morali, o la noetica circa le sue conoscenze; e fosse pure, s'intende, nel contrasto dialettico delle scuole e degli indirizzi filosofici. Il lettore non crede che un suo giudizio, "Il tal quadro è bello", sia da considerarsi assoluto e valga per sè stesso, empiricamente (arbitrariamente); crede che la validità di tal giudizio empirico dipenda da "qualcosa", ch'egli deve presupporre affinchè ciò che gli sembra bello lo sia veramente, sia bello anche in sè, sebbene questo in sè non riguardi un trascendente, un oggetto rappresentato in parole, ma quell'esistere, e magari le parole stesse in quanto valgono esteticamente. E giustamente pretende che la filosofia glie lo definisca. ... . ... 2. . La filosofia odierna (ripeto) sbarra questa via alla critica con una pregiudiziale: soggettivo è il bello, soggettivissima l'arte e ancor più soggettivo è il giudizio o criterio estetico. Non vi troveremo sotto altra natura che quella dell'io, il sentimento(26). Ma per chi si pone dentro l'estetico, la questione della soggettività di questo valore diventa, semplicemente, una questione naturalistica, riguardante le cause naturali del sentimento e dell'attività estetica; o storica, rispetto al loro divenire nel tempo. Non avremmo difficoltà a consentire circa la natura soggettiva, e anzi umana, di questo (come d'ogni altro) valore! . Ma qui prima urge definire l'estetico esteticamente, non obbiettivamente (nelle sue cause naturali e circostanze storiche), perchè tanto ciò che nella coscienza estetica apparirà la soggettività del bello (l'"animazione del mondo", la "liricità"), quanto ciò che ne apparirà l'oggettività (il bello stesso, come forma), sono ormai in funzione di questo valore sensibile e non viceversa. Sotto tale aspetto critico, l'estetico, come abbiam visto, non è deducibile nè da un concetto obbiettivo (nemmeno del "soggetto"), nè da una norma di tipo pratico, ossia trascendente l'esistenza. Dove lo porremo noi dunque? Io risponderei: Dove lo posero sempre gli artisti che fecero l'arte! quell'arte che diventa, poi, per il contemplante, il bello artistico, e che c'insegna anche a cercare, e ci aiuta a trovare il bello in natura, giacchè dai poeti abbiamo imparato a godere il gorgheggio dell'usignuolo, da Giorgione a incantarci d'un umido fondo verde, dal Perugino a commuoverci d'un esile volto, da Leonardo a sentire la spiritualità e dal Caravaggio la corporeità degli oggetti fra ombra e luce. (Del resto, basta uscire da un cinematografo per sorprenderci a cercare negli aspetti di persone e cose prima del tutto indifferenti la lor espressività). È dunque buona norma di prudenza, oltre che di modestia, interrogare prima di tutto la coscienza artistica, per sapere in che cosa essa faccia consistere l'arte. . Non è necessario indagar questa coscienza istituendo l'analisi di supposte facoltà creatrici dell'arte dal subconscio di un'"ispirazione", che ne sarebbe la misteriosa essenza, quasi che l'arte si compia, o anche soltanto s'inizi "nello spirito" prima del suo attuarsi nella real forma sensibile, anche il tentativo, l'abbozzo, lo "studio" sono arte, ma incominciano ad esserlo sulla carta, sulla tela, nella creta e, breve, in quella "materia" di cui l'arte è formata: non se ne cura lo spettatore mancante di sensibilità - che nell'arte cercherà i contenuti (le cose rappresentate, le idee) e salterà la forma -, ma essa è la delizia e il fine (estetico) dell'artista. Il quale, per lo più, è un serio e buon operaio che lavora le sue tante ore della giornata molto pacatamente, senz'altra ispirazione che il tema da svolgere o quella che gli deriva da' suoi stessi mezzi, facendo; ma si trattasse anche dell'artista che piace ai romantici, frenetico e dionisiaco, ispirato e immaginoso, tutto questo tumulto di sentimenti e di fantasmi, utilissimo per le dispute dei cenacoli, può naufragare nei più deplorevoli saggi, se non è accompagnato da una "facoltà" molto più modesta, ch'è la sensibilità estetica, la capacità (e l'abilità!) di accordare la forma sensibile a quelle vaste elucubrazioni e profondità spirituali. . Conosciamo troppo bene gli artisti e la loro vita per credere una parola di quell'esoterismo sul divino afflato dell'arte, che a sua volta è un'invenzione della letteratura romantica, su reminiscenze platoniche. Le buone intenzioni, son tutto in etica, ma nulla valgono in arte, dov'è questione di formare in concreto, fosse pure il più umile oggetto ("In arte, non s'è padroni del pensiero che quando s'è padroni della forma", diceva anche il più romantico dei musicisti romantici, lo Schumann). E l'ispirazione, che è tanto nella vita religiosa, in arte conta meno della pazienza: perfino al poeta, fu detto, il primo verso viene da Dio, ma gli altri se li deve trovare col suo faticoso lavoro (vedere, per credere, come il Leopardi elaborava i suoi canti più "sinceri"); la "spontaneità" e la "semplicità" dell'arte non sono invece che le forme raggiunte dal gusto più squisito e dalla tecnica così perfettamente conquistata, da sparire come tecnica ("l'arte che tutto fa, nulla si scopre") e sembrare natura, immediatezza - fare come la natura, consigliava il Kant all'artista (il che è diverso dall'esserlo!) -: debbo citare Manzoni e Flaubert? Omero, non fu il fiore estremo (e quasi unico superstite) di un'intera, scomparsa civiltà precedente? . La psicologia dell'artista non è diversa dalla psicologia dei comuni mortali (e quindi non spiega l'arte). La vita dell'artista può passare nell'arte, può divenire arte, ma non è ancor arte; e ci sono artisti che prendono i contenuti completamente fuori della loro vita e della lor esperienza umana, e che traggono ispirazione fuori della loro stessa eticità, magari da nient'altro che dalla stessa forma artistica ("l'arte per l'arte"); basta pensare, per es., a tutto il Seicento, dal Bernini e dal Borromini al Caravaggio e al Rosa, artisti dalla vita torbida e passionale e dall'arte purissima. Poco monta che Bartolomeo della Porta fosse stato un fanatico savonaroliano e Lorenzo di Credi uno scettico: l'arte di questo è soavemente religiosa, l'arte di quello materialistica e superficiale. . Il problema non è psicologico. Morale o immorale che sia l'artista, sapiente o ignorante, freddo o sentimentale, non se ne deducono affatto gli stessi caratteri per l'opera sua (nè, viceversa, si può risalire, come la simpatia e l'ammirazione c'inducono spesso a fare, dall'opera alla personalità umana dell'artista). E abbia o non abbia egli una propria ispirazione e un proprio contenuto, o li prenda d'accatto e "di maniera", è unicamente nel rapporto alla forma espressiva, chiamata "stile", che gli stessi termini psicologici assumon un significato estetico, diversissimo da quello che avrebbero in psicologia generale: per es., un carattere, un'intenzione realistica possono condurre a un "idealismo" artistico, e viceversa. Se l'artista è un'anima, essa è un'anima alla ricerca del corpo, uno spirito che si attua nell'esistenza, e i suoi valori sono estetici in quanto sono presentativi e non rappresentativi. L'artista, lo giudico con l'occhio e con l'orecchio. . Il fare l'arte (l'attività artistica), non lo chiamerei "creare" (ch'è di Dio), ma, più semplicemente, lo chiamerei "tecnica". È qui, nella tecnica, che un artista è o si fa quell'artista, grande o piccolo, originale o imitatore, iniziatore o interprete: è questa la "virtù" dell'artista (che, quando non è che questo, è un "virtuoso"). La tecnica non è al di fuori dell'arte, "aggiunta" al momento artistico, come materia aggiunta allo spirito: è quel momento, quell'atto concreto. Se un metallurgico vuol incidere il passo d'una vite, se un medico vuol diagnosticare un malato, o un chimico vuol analizzare i componenti d'un corpo, per costoro, sì, la tecnica non è che lo strumento aggiunto al fine per meglio conseguirlo: il tornio, lo stetoscopio, i reagenti e i modi di usarli son tutte cose subordinate allo scopo da raggiungere. La scienza e la morale superano i loro mezzi; non condanneremo il medico se non può oggi guarire il cancro nè l'artigiano che non possiede l'ordigno del suo lavoro. Ma un pittore senza colori, un musico senza suoni, un oratore senza parola che cosa "valgono"? Se il primo non ha tubetti di colore bell'e pronti, se il secondo non ha un piano di grande marca, se l'ultimo non ha memoria, se la sbrighino loro e inventino i loro mezzi ("Datemi del fango, diceva il pittore Delacroix, e ne farò carne di donna d'una tinta deliziosa"); proprio perchè i cosiddetti mezzi tecnici non sono più che gli elementi astratti della composizione artistica, della tecnica in senso artistico. ... . ... 3. . Quando il valore consiste tutto nella forma sensibile, la ricerca del sensibile come tale, del suono, del colore, dell'immagine, diventa essa il fine. Se chiamiamo "tecnica" questa ricerca, la tecnica è l'atto stesso artistico, l'attuarsi del valore, prima di cui non c'è valore. Infatti ogni vero artista appronta la sua tecnica: tutti i mezzi, in quanto "mezzi" - in quanto "oggetti" dati - son buoni e di tutti (magari dei mezzi meccanici) l'artista si può servire; ma è il modo d'usarli, il rapporto sensibile in cui li pone, ciò che fòrma lo stile, inscindibile dunque dalla tecnica. Perciò biasimeremmo l'artista che, per es., sostituisca una fotografia alla propria composizione, ma non il cineasta che componga con fotografie; come biasimeremmo lo scultore che trattasse il marmo pario come la terracotta e non quello che, avendo l'una o l'altra materia, accordasse il suo stile alle loro qualità particolari. . La coscienza artistica si sveglia e si rende autonoma come coscienza tecnica: ciò è ben chiaro nella storia dell'arte; e ancor più nell'abbondantissima trattatistica che gli stessi artisti ci han lasciato dal Rinascimento in poi. Quand'è un artista che scrive d'arte, il suo problema centrale diventa quello tecnico e la soluzione si riduce a una precettistica del comporre. Soltanto i letterati soglion divagare su l'essenza spirituale dell'arte, perchè in letteratura la questione del valore estetico è deviata verso il valore rappresentativo del linguaggio; ma un puro artista, foss'anche un umanista come L. B. Alberti, o un ingegno speculativo come Leonardo, non s'inganna e non c'inganna. Che l'arte sia "cosa mentale", frase citata spesso a rovescio, per Leonardo voleva dire che si debba intender l'arte come intelligenza (e non manualità) tecnica - intelligenza di forme, non d'idee -; tanto che (erratamente) egli ne deduceva che la pittura sia più mentale della scultura perchè richiede un più sottile artificio tecnico, dovendo comporre coi soli colori in superficie. . Se teniamo ben presente questa essenzialità della tecnica nell'arte (e quindi nel giudizio d'arte), per la quale nell'atto artistico (e non prima) s'instaura e si celebra il valore estetico, a differenza degli altri valori trascendentali - il santo può peccare sette volte al giorno, e il sapiente errare, ma non perdoneremo al musico (se non per indulgenza morale) di sbagliare d'un semitono! -, tutti i vecchi problemi d'estetica si troveranno nel loro giusto foco, e non rischieremo di porre l'estetico in un'oggettività teoretica (nell'imitazione) o in una soggettività pratica (il sentimento). Ma naturalmente l'estetista deve partire di là dove invece termina un genere artistico - per es., il "bel canto" è il momento in cui il canto si disinteressa (si purifica) così de' suoi contenuti letterarii come dei fini sacri o profani (dell'ispirazione religiosa o amorosa), per diventar fine a sè stesso -; o dove termina un periodo d'arte - per es., il romanticismo finisce col sensibilizzarsi del tutto nell'impressionismo coloristico di Corot in pittura, di Verlaine in poesia, di Debussy in musica, diventando "arte per l'arte" senza ancor perdere il carattere romantico (soggettivizzante, al quale si oppone poi l'espressionismo immediatista e oggettivante) -: in una parola, dobbiamo partire dall'arte "pura". . Questa è la forma che il non artista ha in fastidio o in disprezzo, preferendo Dante a Petrarca o Beethoven a Mozart - e, in generale, il genio al gusto -; al punto che qualcuno giunge a defenestrare dall'arte quella squisitezza sensibile (per es. il "barocco" o i "decadenti") ch'è l'arte stessa. Ciò perchè noi le domandiamo di esaltare gli altri valori, il sovrasensibile: ma non potremo capire perchè l'arte esalti (e renda eterni, attuali e in sè) i valori umani se prima non ci chiediamo in che consista il suo proprio valore. . Questione dunque d'intenderci. Io chiamo "arte", per es. in musica, la pura musicalità, che incomincia con la nota uscente dal suo alone tonale e diviene figura musicale e incontro di figure nel ritmo e nel complesso armonico dei temi sonori; in pittura, il colore, a seconda, chiaro e distinto e per sè valente nell'unificazione della "linea" presso i fiorentini, o tonalizzato con gli altri nelle velature del colorismo veneto, o dissolto, come mosso n'è il disegno, nello "sfumato" leonardesco, o drammatizzato nel chiaroscurismo di Renbrandt o nel luminismo del Caravaggio; ecc. ecc. Per valutare musicalmente la musica e pittoricamente la pittura, non ho alcun bisogno di "tradurre" i suoni in altro: per es. in sentimenti particolari miei o, tanto meno, nelle disgrazie domestiche dell'autore che avrebbero ispirato la tal sonata o il tale notturno; e di riferire un ritratto al modello, un paesaggio al paese, una battaglia alla storia. Tutto questo può essere il contenuto prima dell'arte, perchè l'artista prende i contenuti da qualunque parte, dal mondo e da sè medesimo, dalla natura e dalla vita (o anche da niente, inventando); e fu detto giustamente che la natura (e l'esperienza tutta quanta, propria ed altrui) è come un immenso vocabolario dal quale l'artista può attingere le sue ispirazioni, i suoi temi, i suoi motivi - la "materia" stessa, un blocco di marmo o una tavolozza o la tastiera del piano, non sono, per così dire, serbatoi di "temi giacenti" per l'artista? -; ma, sia egli poi fedele e obbiettivo oppure libero e fantastico di fronte ai contenuti, essi divengono ispirazione, motivo, tema in senso proprio, ossia artistico, sol in quanto soggettività e oggettività del puro rapporto formale di suoni colori ecc. . La "realtà" dell'arte non va oltre questa sua forma esistenziale che si attua componendo suoni colori ecc. in un atto, chiamato "stile" proprio in quanto sensibilizza, e in tal senso realizza, l'artista. Il "valore" (artistico) di questa realtà estetica è, senza dubbio, sentimento, ma sentimento sensibile, sentimento della forma - per es. la drammaticità del tale incontro di suoni in Beethoven, il patetico di tale incontro di colori in Corot -, che, se è soggettività (o "ispirazione" in senso proprio), "è" in quanto massima oggettività, esistenzialità della forma stessa. L'autore si attua in quei suoni o colori, il contemplatore esiste, diviene, non è più altro che la sua unità sensibile. Tal'è l'emotività puramente estetica, che dunque ha la sua eticità, ben diversa dalla moralità pratica perchè non si obbiettiva in un fine trascendentale, ma nell'immanenza al sensibile trova quella spiritualità, quel trascendersi senza trascendere la forma sensibile, ch'è tutto proprio del mondo estetico. . Del pari, questo mondo estetico, che "è" in quanto "esiste", possiede la sua logicità, la legge della sua forma o rapporto sensibile; ma è una legge interna ad esso, che non lo trascende: legge propria d'ogni stile, e, a differenza dalla logica reale, in perfetto accordo con l'eticità estetica sopradetta (per es. il sentimento dell'architettura greca è il sentimento dell'armonia delle parti componenti l'unità visibile del tempio greco): appunto perciò concludiamo che l'arte è appagante (è piacere), felicità raggiunta, che non supera la sua esistenza. . Ma non appena vogliamo astrarre queste leggi logiche di uno stile, che cosa troviamo, se non leggi tecniche, regole del costruire, del comporre l'unità sensibile di quell'arte? A questo punto, si dica pure che l'arte è sintesi d'intuizione ed espressione, di sentimento ed immagine: però questa sintesi non rimane nel puro soggetto, nello spirito, perchè è medesimezza di soggetto e oggetto. Esiste. L'espressione è proprio espressione, atto; l'intuizione è proprio immagine, forma sensibile. ... . ... 4. . Siccome la forma artistica, oltre che valere per sè, esteticamente, come pura arte (e quindi nell'arte pura), può anche rappresentare al pensiero logico e pratico (come ogni sensibile) qualcos'altro che chiamano il suo contenuto - il "tema" oggettivo e l'"ispirazione" soggettiva -, nasce il problema del rapporto di forma e contenuto in arte, che ci deve introdurre a comprender l'unità dei valori nel sensibile, e ha dunque la più alta portata metafisica. . La soluzione sarebbe per tutti intuitiva, se non avessimo che le due grandi arti madri e adunatrici di tutte le altre nello spazio e nel tempo, l'architettura e la musica. Liberate dalle arti vicine - l'una dalla scultura e dalla pittura, l'altra dalla poesia, dalla danza e da ogni altra "rappresentazione" che la musica accompagna, commenta ecc., loro accordando il proprio accento soggettivo (come il tono della voce soggettivizza la parola parlata) -; e prese nel loro momento più tipico, l'una come architettura classica, l'altra come musica romantica (ossia nel significato storico di questi due termini: pensiamo per es. al Partenone e agli "Scherzi" di Chopin), nell'uno e nell'altro caso la forma è unicamente presenza, esistenza sensibile, che in tutto coincide con l'oggettività della cosa o con la soggettività del sentimento: essa non deve rappresentare o richiamare altre cose o immagini esterne all'arte, nè per somiglianza, come invece accade nelle arti figurative (per es. una statua di Atena), nè per associazione di contiguità, come accade nella letteratura (per es, la narrazione in parole del Messo nei "Persiani"). . Un tempio è per sè medesimo un contenuto, percepito e pensato come una "cosa" con quei tali scopi pratici e religiosi; ma l'artista stesso "fa" questa cosa, in cui trova anche la sua ispirazione. Per esempio, l'artista greco era psicologicamente realista, esteticamente idealista. Il tempio greco è logicissimo, essenzialmente spaziale e statico: non c'è un pezzo che non sia strettamente necessario all'edificio, dalla base all'architrave e da questo al frontone; e non c'è un elemento che non mostri anche la sua logica funzione, dal plinto al capitello e al fastigio, o che serva, come in altri stili, a mascherare la struttura e la sua ragione pratica. Tuttavia, quell'architettura interpreta la statica e l'uso pratico trovando in sè, ne' propri mezzi formali, lo stile che presenta e visualizza esteticamente quei valori secondo il gusto ellenico, in quella chiarezza e armonia che tutti sanno, e che costituisce un'idealizzazione del reale in quanto appunto, come già dicemmo, è un artificio tecnico, una ricerca di forma pura; come appar evidente anche nel suo esito dallo stile doricizzante al corinzio e da tutta l'arte ellenica a quella ellenistica. . Il "contenuto" del Partenone è il Partenone, la forma stessa in quanto esiste o può esistere sensibilmente; un'altra forma, per es. l'Erettèo, sarebbe un altro tempio. La realtà in sè di questa cosa non è più che la finalità realistica dell'architetto, il quale l'ha interpretata, tradotta, attuata in quella forma. In altri termini, un valore logico, una finalità obbiettiva - ciò che si può chiamare l'"intellettualismo" greco, l'intenzione di costruire un tempio statico, equilibrato ecc. - s'è attuata in una forma estetica, ch'è il "bello" artistico in quanto piace per sè stesso, ma che realizza quel fine come armonia semplicità chiarezza ecc., caratteri della forma visibile; lo realizza per tutti, in un'esistenza. Prima di questa esistenza non v'ha nè arte, nè oggetto o contenuto artistico: ci sono dei fini, del valori concettuali, rappresentati per es. dalle parole con le quali Pericle dà un'ordinazione; soltanto nell'opera d'arte quei valori si rendono presenti, valorizzati esteticamente perchè interpretati dallo stile che ne attua l'esistenza. . E d'ora in poi potremo chiamare classicità dell'arte, in senso più largo, la ricerca della forma estetica (del bello artistico), ossia la forma raggiunta, il valore (qualunque esso sia come finalità trascendentale) interpretato sensibilmente, secondo il gusto. Perciò ogni stile diventa classico, e tale apparisce alle età successive; ogni artista, almeno, tende a raggiungere una classicità, una forma definitiva. Classica è per noi anche la cattedrale gotica, sebbene la si definisca romantica perchè soggettivante e trascendentale di fronte all'intellettualismo greco e al naturalismo romanico, di cui rompe l'equilibrio e la staticità nello stile verticale, instabile e dinamico, del sesto acuto, e ne màschera la schiettezza murale nelle sovrastrutture ornamentali. E classica diverrà a suo tempo quell'odierna architettura detta (psicologicamente) "razionalista", perchè anche il fine utilitario deve trovare la sua forma, che pur nella valorizzazione del nudo utile sia uno stile, una sintesi formale, una suggestione sensibile. Il medesimo si dica d'ogni arte, e della stessa musica, l'arte romantica per eccellenza. Infatti già chiamammo "classica" la musica pura settecentesca: ma se Mozart o Cherubini sono musica pura (fine a sè stessa), Chopin e Schumann son anch'essi pura musica (forma); quindi, per es., Beethoven è un romantico rispetto ai primi e un classico rispetto ai secondi, come questi lo sono rispetto a noi. . Insomma, "classico" e "romantico", quando non usiamo questi vocaboli in senso storico, non designano due opposti stili, Apollo e Dioniso, ma l'oggettività (forma) e la soggettività (liricità) di ogni stile, il carattere estetico e il carattere poetico d'ogni arte. Se noi scegliamo i due momenti storici in cui prevalse l'uno o l'altro carattere e le due arti in cui meglio si attuarono, non è per opporli od escluderli reciprocamente, ma per distinguere il valore logico e il valore etico dai corrispondenti stili delle due arti che ce li realizzano artisticamente, ossia per dimostrare che la realtà logica del Partenone è tutta passata nella forma esistenziale dell'arte (tutto il mondo classico, che cos'"è" più se non arte?), come or ora vedremo che il sentimento o soggetto artistico passa tutto nell'interpretazione musicale, nei sensibili che si chiamano suoni (una sinfonia di Brahms che cos'è, se non un artificio tutto sensibile, e io che l'ascolto che cosa più sono, se non queste vibrazioni?) per ora, nell'arte, non c'è un contenuto sotto la forma, un valore sopra il sensibile... ... . ... 5. . Avviciniàmoci meglio al secondo esempio. L'Andante della "Patetica" è già musica romantica e l'Allegro dell'"Appassionata" si può considerare a dirittura appartenente allo "Sturm und Drang" (con quel cantabile gridato nel tumulto ritmico del tempo), sebbene non siano infrante le regole della sonata settecentesca. Che cosa dunque indichiamo storicamente con la parola "romantico"? Null'altro che la soggettività (il sentimento), o meglio la soggettivazione del sensibile, l'accordo di questo alla finalità, alla trascendentalità dello spirito. Si può dire che il romantico è l'etico dell'estetico. Pertanto si può anche in generale chiamar romantico l'artista che psicologicamente è "idealista", pur se tecnicamente fosse "realista" (come Masaccio) o "sensista" (come Wagner); e romanticismo in particolare furon la letteratura e l'arte religiosa, patriottica, moraleggiante ecc., quantunque si debbano considerar come tali anche i contrari (il verismo, l'immoralismo, l'indifferentismo ecc.), ch'erano in germe nell'ironia romantica e nel concetto di "arte liberatrice" non solo dal mondo esterno, ma anche dal sentimento. . Ciò intanto implica aver essi romantici compreso un po' meglio di certi loro epigoni, che la soggettività dell'arte non è la soggettività psicologica, la vita: se i sentimenti e i fini umani sono, secondo loro, contenuti e motivi d'ispirazione preferibili a quelli descrittivi e oggettivi tradizionali del classicismo; se parve loro necessario (per i fini umani e storici assegnati all'arte) riaccostarla alla vita e alla natura e renderla più "spontanea" e "sincera", la subiettività artistica è però anche per essi la soggettività della forma estetica inconfondibile con quella dei contenuti spirituali presi a parte e ad essa confrontati dalla critica di letteratura e d'arte. Voglio dire che anche ai romantici apparve essenziale definire in che modo un contenuto, sia pur scelto di preferenza fra i valori attuali, storici ed etici, nei quali vive l'artista (per es., l'atmosfera napoleonica per l'"Eroica" di Beethoven, la morte cristiana per l'Ermengarda manzoniana), divenga subiettività artistica, e, possiamo oggi dire in una parola, dopo il Croce, "liricità". (Napoleone non è mai poeta anche se vuol rivoluzionare il mondo; Beethoven è un gran lirico anche se privatamente gli stesser più a cuore le scappatelle del nipote che le vicende dell'aquila napoleonica). . Infatti, per l'estetica romantica, il mondo della natura viene sostituito nell'arte da un mondo fantastico creato per accordarlo con la soggettivazione lirica (o meglio "Einfühlung") in cui consiste il soggetto propriamente artistico. Concezione profonda, benchè parziale (perchè la fantasia non basta per essere artista, tutt'altro! nè tutta l'arte è fantastica e animistica) e ambigua (perchè induce a credere che l'arte stia nel fantasma mentale, come il sogno, mentre che l'immagine estetica è concretezza sensibile, realtà del fantasma); ma giusta se pensiamo specialmente a quella letteratura, che il romanticismo metteva al sommo di tutte le arti, perchè più ideale (Hegel), e al centro, perchè tutte la debbono servire (Wagner). . Però la letteratura romantica, da Schiller a Byron e a Victor Hugo, artisticamente è assai inferiore alla sua musica, oppur si converte in poesia musicale (dalle liriche di Goethe allo "Stundenbuch" del Rilke). La musica è l'arte che nel romanticismo raggiunge le sue più alte vette perchè è l'arte più soggettivante; insomma, l'arte più lirica. Ora, la musica è unicamente musica: è tutta forma, fatta tutta e soltanto di suoni; se qualcosa ne resta fuori - un'intenzione dell'artista, un pensiero indotto, e infine quell'alone affettivo che circonda quest'arte - fin che se ne distingue e non vien tradotto nelle leggi tecniche dello stile (sian esse armoniche come in Bach o dissonantiche come in Bloch; siano diatoniche, cromatiche, semitonali o comunque imponga lo stile), non appartiene all'estetico, e il giudizio estetico non riguarda tale soggettività più che non riguardi la natura oggettiva dei suoni (non attende di "capire" un'armonia dal rapporto matematico fra le vibrazioni meccaniche, o il ritmo musicale dal metronomo). E anche se un richiamo obbiettivo (per es. nel titolo "La Pastorale") giova ad orientare l'uditore profano, per semplice associazione d'idee, verso la sorgente ispiratrice dell'autore, non è mai costitutivo del valore musicale. . Tutto ciò che vi poteva essere prima dell'arte, e che si chiama ispirazione dal punto di vista della sua eticità, passa nella musica, diviene musica, e scompare (artisticamente) come contenuto; tanto che alcuni lo chiamano forma (perchè spirito). Ma la forma artistica è lo stile, l'attuazione sensibile! Il soggetto si attua completamente e non parzialmente, assolutamente e non relativamente (a differenza dell'atto pratico, "espressione" naturale e non artificio espressivo del volere) in quell'atto ch'è una traduzione sensibile dello spirito - una stilizzazione dello spirito - realizzante un universo più largo del sentimento, di cui cancella i limiti e fini particolari accordandolo con la forma di un esistere, che la sola sensibilità (appartenente all'io come al non io) gli suggerisce. La liricità non è l'io pratico, che vale nella finalità, nel dover essere del suo esistere sensibile in antinomia con questo; è una trascendentalità senza trascendenza (e infatti senza concetto), una trascendentalità nel sensibile, immanente alla forma. . Il che va poi ripetuto per tutte le arti: la "dolcezza" di Raffaello o la "terribilità" di Michelangelo, non riguardano nè i contenuti obbiettivi (p. es., agli Uffizi, il tondo di Michelangelo rappresenta una Madonna come un'altra Madonna è quella raffaellesca del cardellino), nè i contenuti subiettivi (un presunto temperamento dolce e religioso di Raffaello e una presunta fierezza di Michelangelo!), ma unicamente lo stile, di cui quei sentimenti sono la risultante, non la causa. La dolcezza dell'uno sta tutta nell'armoniosa coerenza della linea curva, la terribilità dell'altro è nel contrasto inerente al suo stile fra dinamismo della linea e staticità del rilievo plastico: queste invenzioni tecniche sono il loro valore lirico. . In altri termini, la "materia" diventa "spirito" (soggettività del valore) nella forma, senza cangiar di realtà (senza passare dal sensibile al sovrasensibile); e questo è il prodigio e il fascino dell'arte: di tutte le arti quindi, se prescindiamo dai lor contenuti, dal fatto cioè che vogliamo rappresentare ("illustrare") qualcosa di esterno ad esse (per es. un paesaggio, un accadimento ecc.), ciò che complica il problema. Una pennellata di bianco o di carminio, al pari di una nota isolata, non ha valore estetico: ne acquista uno grandissimo nello stile (ossia nell'unità formale) per es. dell'arte "barocca", quando diviene l'impasto robusto, la "pennellata" ribollente, il "tocco" rapido e sicuro di un Ribera; lo scatto di colore violento nel velame d'ombre di un Mattia Preti (con quei "toni" di rosso-vivo, di verde tenue, di giallo smagliante, mentre l'ombra annulla, come in Caravaggio, ciò che la luce non vivifica); le biacche luminose e vibranti, argentine, in quella saporosa ricchezza d'impasti dalle tonalità trasparenti e preziose di un Gius. Maria Crespi (per es. nella Fiera di Poggio a Caiano agli Uffizi o nella Confessione della Regina di Boemia a Gio. Nepomuceno a Torino). Quel colore che obbiettivamente e analiticamente è una materia chimica o un elemento di fatto che sfuggiva all'osservazione comune, nel rapporto stilistico del colorismo viene valorizzato e diventa l'intima bellezza, la succosa polpa, per così dire, della materia stessa, interpretata qualitativamente: la sua liricità. Infatti, si dice che allora il colore "canta". ... . ... 6. . Ma ora, tra una sinfonia romantica, finzione tutta formale di sentimenti, e un tempio classico, ch'è un reale oggetto co' suoi usi pratici, dovremo collocar l'arte che vuol rappresentare un contenuto a lei esterno, un percetto (mettiàmo, un tempio romano in un'acquaforte di Piranesi) o a dirittura un concetto (come nell'"Epipsychidion" di Shelley). Ciò conduce l'arte a imitare la conoscenza e la ragione. . Chi potrebbe negare che ogni arte, ciascuna co' propri mezzi, sia o possa esser imitatrice? Anche se non lo divenisse allo scopo oggettivo e ideologico ora detto, che raggiunge il suo massimo sviluppo in letteratura; anche se i contenuti rappresentati non fosser che un pretesto per comporre un "bel pezzo", come accade specialmente in pittura (p. es. una "Venezia" del Guardi o una "natura morta"), non c'è artista che non si serva di forme già esistenti in natura o nell'arte stessa: se ne serve appunto perchè forme, e in ciò consiste l'imitazione nel senso tecnico che c'interessa studiare. Per quanto s'inneggi all'arte "creatrice", essa non nasce dal nulla artistico e non crea dal nulla reale. Per esempio, anche senza uscir dalla musica, la più creatrice e la men contenutista di tutte le arti, prima di tutto non v'ha stile musicale che non derivi e sviluppi le sue forme da altre esistenti, spontaneamente (come Beethoven rispetto a Haydn) o volutamente (come Tzchaikowsky rispetto al primo); in secondo luogo, non soltanto, per il musicista, tutto diviene musica - le voci della natura e i canti del popolo, i cieli e gli orizzonti, i fiumi e i venti, come le vicende i riti le feste le parole degli umani -, ma egli si può anche proporre una musica "descrittiva", intenzionalmente imitativa di danze carnevali e baccanali, di mormoranti foreste e d'uccelli cinguettanti, in tutto simile alla pittura: l'odierno "espressionismo" musicale è per es. rivolto a descrivere l'immediato mondo sensibile, da Strawinsky a Honneger (per es., la gazzarra della fiera nel "Petruschka", con quel nostalgico organetto del vecchio tempo). . Riflettendo su questi esempi, sembra che si debba distinguere, una prima volta fra imitazione dall'arte, abborrita dai creativisti, e imitazione dalla natura, che ogni maestro consiglierà sempre (perchè l'arte rinasce "ritornando" all'osservazione della natura); una seconda volta, secondo che l'imitazione appare un mezzo tecnico a scopo artistico e formale, come nei classici, oppure sembri necessaria a rappresentare la natura e la vita, come presso i romantici. La discussione su tali quesiti è utile sol perchè ci riporta all'unico problema strettamente estetico, il problema dello stile. . La prima distinzione interessa anche la "originalità" dell'opera d'arte. Però, la più modesta cultura musicale ci farà riconoscere la stessa figura musicale cento volte in cento diversi autori senza che ciò diminuisca la loro originalità, perchè una variazione nel "tempo", una diversa armonizzazione, anzi, un diverso "accento" (per es. il "Corale e fuga" di Frank rispetto al corale "Auf Wasserflüssen Babylon" di Bach) bastano a costituire un nuovo inconfondibile stile: gli alunni di Leonardo sono di solito deboli artisti, non perchè imitano il maestro (anche il Sodoma e il Luino lo imiteranno), ma perchè lo impoveriscono. La critica analitica, sempre alla ricerca di elementi imitativi, non resterà mai senza frutto, perchè ne troverà sempre in tutti - lo stile si sviluppa dallo stile (p. es. Leonardo dal '400 fiorentino; le prime opere attribuitegli, non possiamo chiamarle che "bottega del Verrocchio") ma non frutterà mai per la definizione di uno stile. . Questo, prima di essere "l'uomo", è, io direi, "gli uomini", la razza e il tempo, la scuola e l'ambiente, onde la quantità di errate attribuzioni nei cataloghi delle gallerie d'arte. L'individualità dell'opera d'arte segna un grado del suo sviluppo: perciò l'originalità non è creatività assoluta, ma corrisponde soltanto a quel momento (dato a pochi e a pochissime delle loro opere) in cui lo stile appare "definitivo" (per es. il bozzetto dei Magi) perchè ha raggiunto o trovato la massima espressività stilistica, quella che non lascia più nulla fuori del valore formale, che parla e dice tutto con la sola sua forma, e diviene un assoluto, il "bello artistico" puro, universale nella sua singolarità, sovrasensibile (simbolico) nella sua esteticità. Allora non si tocca più, perchè non appartiene più nemmeno all'arte, ma è un "modello" di essere: non suscettibile di sviluppi, ma sol applicabile come "stilizzazione" (nel significato particolare al gergo artistico) adoperata per "abbellire" qualcosa, ossia retorica. La retorica non è tanto questione di sincerità (i retori sono spesso sincerissimi) quanto di gusto. Un artista di gusto, che voglia dar "carattere", ossia stile personale, all'opera propria, rifuggirà invece dall'imitare uno stile definitivo, un bello artistico (per es. Raffaello), a differenza dallo stile in formazione (p. es. i "primitivi"): adoperandolo, o lo indebolisce, facendo un bello senza stile (calligrafico od accademico), o lo esagera, rompendo quell'unità sensibile, quella "linea", che ne costituiva appunto il bello(27). . Ma proprio il medesimo si dovrebbe osservare anche circa l'imitazione della natura. Un "bello di natura" (per es. una "bella" donna, un tramonto a Capri) mal si presta perciò a venir "riprodotto" artisticamente, se non debolmente (da "cartolina illustrata"; un artista forte, una volta se ne serviva solo a sfoggio di virtuosismo pittorico, ora preferisce un carro di spazzatura che alzi le sue stanghe verso un cielo pallido sur una piazza desolata. Il precetto della originalità dell'arte non esclude dunque l'imitazione, ma la vuole "artistica"; si tratta di sapere come l'arte sia imitatrice. Ora, per intenderci subito, all'antitesi posta dall'estetica romantica fra l'arte "creatrice" a lei cara e l'arte "imitatrice" dell'estetica classica - mal posta, io direi, perchè il creare è una metafora che, se mai, riguarda la forma, e l'imitare degli antichi riguardava il rapporto ai contenuti(28) -, vorremmo sostituire il concetto di "interpretazione" già apparso di sopra, che ci sembra più proprio a comprendere in che modo uno stile imita una forma già data. . Invero, nè l'imitare (p. es. riproducendo un bastimentino o una scarpetta in piccolo), nè lo inventare (p. es. un uomo con dieci gambe o altra fantasticheria qualunque) sono per sè arte; la stessa fantasia non è che natura (dell'artista) ma non basta a nutrire l'originalità artistica, che riguarda lo stile e non i contenuti in sè: il Rembrandt, quantunque sia un ritrattista, è più originale del fantastico Rubens. D'altro canto, nessuno ha mai preso per arte una copia, un calco, una fotografia, o per artista un autopiano o un pantografo: ogni volta che una forma vien riprodotta come quella forma e uno stile come quello stile, il valore estetico che possono conservare appartiene evidentemente al modello. . Però, intanto, appunto perchè si tratta di forme, non è nemmeno da escludere che possan diventare o ridiventare artistiche se sono usate come mezzi artistici (anche se meccanici): la sola scelta di un "soggetto"; il "taglio" p. es. d'una fotografia e la ricerca di luci, prospettive ecc.; la semplice collocazione d'un quadro e magari il modo stesso in cui uno sa regolare il suo autopiano, ecc. ecc., sono un minimo di arte ma, in quel minimo, son già arte. Infatti, in questa medesima sfera d'attività finiamo con l'incontrare l'esecutore che, pur lavorando su un'opera d'arte già perfetta, conquista una propria originalità e un proprio valore artistico "interpretandola". Orbene, io dico che interpretazione era anche quella che il Caravaggio fa di un cesto di frutta, e, alla fine, quella che Michelangelo fa del Giudizio universale (il problema è uno solo, per tutti i casi elencati a pag. 292). ... . ... 7. . Consideriàmo alcuni semplicissimi esempi d'arte figurativa, o "imitativa" che dir si voglia. Poniàmo prima che uno scultore, per decorare un capitello (e dunque per un fine interno all'arte) prenda a imitare la foglia dell'acanto. Chiameremo questa, obbiettivamente, il "tema" da svolgere - il contenuto logico da interpretare esteticamente -; essa diviene pertanto il "motivo" stilistico dell'ornato: vale a dire che il nostro scultore, una volta scelto il tema, lo svolge con un'interpretazione più o meno libera lasciandosi guidare dalla sola forma per comporre una "linea" regolata unicamente dal gusto. Questa sarà la sintesi estetica, tutta forma, or semplice severa e geometrizzante, ora, secondo il gusto del tempo, fastosa tumultuosa e ridondante, ma sempre lontana dal "vero", anche se questo l'avesse ispirata. Non diversamente, una danzatrice, imitando le movenze dell'amore (ossia, non una cosa, ma un atto espressivo di finalità umane), comporrà una linea dinamica e musicale, un'arte nel tempo, sia che armonizzi i suoi gesti in quella semplice "grazia" propria dello stile classico, sia che si sbracci e si scosci nello stile burattinesco e grottesco, volutamente sgraziato e disarmonico che (come in musica) risponde al gusto odierno. . L'arte è sempre artificio sensibile, finalità estetica, benchè non apparisca perfetta se non quando sembri natura perchè non si scorge più lo sforzo che lega il mezzo al fine, sì che essa appare in sè ("come la natura"), regolata da leggi interne al sensibile stesso; tal che diremo artificiosa e (di nuovo!) retorica, non l'arte raggiunta, ma quella natura che non riesce a raggiungerla (p. es. una danzatrice stupida appare "affettata"). Ma se il primo decoratore, con paziente lavoro d'un tecnicismo soltanto logico, riproducesse esattamente il modello (come la famosa uva del classico esempio, che gli uccelli andavano a beccare), farebbe una cosa "senza stile", buona per illustrare un libro di botanica perchè analiticamente "vera" (come una fotografia), una "natura" forse bella in sè ma brutta in arte; e tanto varrebbe imbalsamare delle reali foglie d'acanto (come certe orribili applicazioni di conchiglie marine e simili). Per questa via s'arriva a identificare l'arte con la natura, col solo risultato d'impoverire quest'ultima invece di fare anche del (cosiddetto) brutto un bello artistico. . Infatti - è necessario avvertirlo? - il decoratore, per abbellire un capitello o una cornice, o anche per creare un oggetto, p. es. un ninnolo, che piaccia per sè stesso, non ha punto bisogno d'ispirarsi alle eleganti foglie del tradizionale acanto, o a un festone di fiori e frutta: la cosa più ripugnante si presta del pari alla stilizzazione estetica. "In natura, scrivevo altra volta(29), un rospo ci sembra brutto e una rosa bella, benchè il rospo formalmente possa esser bello quanto la rosa. Gli è che i valori estetici in natura son ancora impliciti in quelli pratici più urgenti (come la ripugnanza destata da un vero rospo) e in essi attratti e assorbiti; incominciano a emergere quando, come nel caso d'un fiore o d'un frutto, ne possiamo ricevere un piacere disinteressato. L'arte, cangiando in fini estetici i rapporti sensibili, che in natura eran mezzi rappresentativi, ed esplicando così il valore delle forme sensibili, permette a tutti di goderlo e apprezzarlo: un rospo in ceramica lucida smaltata, con le sue belle chiazze di verde vivido, col suo ventre bianco tenero quasi palpitasse, rivela, pur nella sua stilizzazione esagerativa, che un vero rospo non è senza bellezza, e insegna a cercarvela". Siamo ora padronissimi di chiamar "fantasia" la libertà dell'artista di fronte al modello, il libero modo con cui egli si serve di forme esistenti per comporne una nuova (per es, un mostro), che mette in valore rapporti di linee superfici e volumi, di luci e colori, di movimenti ed espressioni, ecc.; ma resta inteso che anche il fantastico è qui la raggiunta realtà sensibile (che "si fa" sotto le dita e nella materia artistica, non prima) obbediente alla sola ragione stilistica. Insomma, la fantasia artistica riguarda la forma, non i contenuti. Lo stile è la ricerca d'una forma capace di esprimere per sè stessa un valore, che nel caso fin qui contemplato è il puro valore estetico, il bello(30). . Opponiàmogli or dunque l'esempio apparentemente contrario, del ritrattista o del paesista, o di un'arte che comunque intenda descrivere o narrare il "vero", restando fedele al modello. Sia questo la natura o la vita umana, è un mondo, per ora, fuori dell'arte, che l'arte vuol imitare: esigenza che (a parte il ritratto, antichissimo, e il paesaggio che come fine a sè stesso dàta dal '600) è tutta contemporanea, coincidendo col nostro storicismo e attualismo, ossia con un realismo contingentista, di cui l'arte, come sempre avvenne, è l'interprete dalla parte del senso, come la filosofia lo è dalla parte della ragione(31). . Ma il vero dell'arte non è il vero della scienza e della pratica. Queste, ripeto, analizzano e accumulano gli "elementi" (p. es. i connotati d'una persona) utili alla sintesi logica (anche una fotografia non è che un'analisi che serve per riconoscere, per rappresentare una persona, ma non le somiglia che da un punto di vista); l'artista invece, con due soli tratti, può presentare l'oggetto, sostituire addirittura la cosa. Non nego che vi sia chi cerca la somiglianza "copiando" punto per punto, analiticamente, il modello; ma gli sarà più difficile raggiungere tanto la vita quanto l'arte. I ritratti di Giulio II° o dell'Inghirami agli Uffizi sono, invece, il tenace papa e il cardinale umanista; e sono anche belli, son arte. La "verità" di quei ritratti consiste nella loro stupenda individualità - individualità ch'è un esistere qualitativo, un concreto còlto dall'artista nella pura sintesi a posteriori: quel vero insomma che l'uomo comune non vede (lo vede analiticamente, astrattamente, perchè lo pensa rappresentativamente), e l'artista glielo fa vedere (gl'insegna che "esiste") -; ma nel ritratto artistico, com'è stato detto, son unitamente presenti l'artista e il modello, e la personalità dell'artista al pari dell'individualità del contenuto apparisce come stile, espressione formale, unificazione in quella linea e in quel rapporto coloristico, che al primo sguardo diciamo "Raffaello". Perciò il vecchio papa consunto nel fuoco del suo sguardo e il grasso cardinale dall'occhio strabico vivono d'una bellezza immortale, esprimente, ma esteticamente - cioè come presenza, non come rappresentazione logica - tutto il loro "essere" (il reale). ... . ... 8. . La "Madonna del cardellino" è invece "idealizzata", non soltanto rispetto ai citati ritratti, ma anche in confronto, p. es., della più realistica e alquanto volgare "Madonna della seggiola". Adunque, con quel primo termine si suol alludere al fatto che il pittore, per interpretare l'oggetto preso a tema, "crea" (e qui la parola ha un senso ancor più ristretto) un tipo di bellezza, un modello di ciò che l'oggetto dovrebb'essere se esistesse in natura - perciò appunto egli fu chiamato "figliuolo" o "nipote" di Dio -, il che avvenne specialmente in accordo con le finalità etiche e religiose (deontologiche) quando il pensiero stesso si volgeva ai valori in sè, al razionale e all'ideale. Come il realismo empirista mette in valore artistico (sensibile) l'esistere (la "natura") - presente al contemplatore come individualità del contenuto artistico -, così l'idealismo realistico avrà messo in valore, ma sempre sensibilmente, il dover essere, il fine obbiettivato (lo "spirito"), idealizzando i suoi contenuti in un bello che tale sarebbe - ossia, "piacerebbe" - anche in natura; però, la "verità" degli uni non è men bella, se artistica, dell'"idealità" degli altri, e quest'ultima lo divenne alla medesima condizione, di avere uno stile. Una Madonna dipinta non è bella o brutta perchè così ci apparirebbe se l'incontrassimo per via, ma perchè esprime o no il valore dell'oggetto (sia pur oggetto inventato invece che visto) in un valore tutto visivo di rapporti coloristici o luminosi somma soggettività, onde si può dire che l'arte è soggettivazione del mondo e del soggetto stesso (della finalità dell'artista), a condizione di esser anche assoluta oggettività, esistenza sensibile; onde si può dire che la sola arte attua totalmente un valore. . Se il fine obbiettivo dell'artista (l'"imitazione" o "finzione", il tema da interpretare) sono gli oggetti, reali o ideali, ch'egli vuol rappresentare, il fine artistico riman sempre quello di presentarli come valori intuibili nella forma stessa: come "espressione", si può ben dire, del valore in sè, soggettivato perchè umanizzato e realizzato perchè sensibilizzato. Tale valorizzazione sensibile si chiama stile; e in quanto raggiunge una forma definitiva, senza residuo rappresentativo - senza rinviare a un concetto e a un'aspirazione di altro, oltre il sensibile, che esprima meglio il valore -, si chiama il bello artistico. Il problema artistico è pertanto sempre il problema dell'immanenza del valore nei rapporti sensibili, della risoluzione di tutti i contenuti nella forma estetica. . Se dunque facciam confluire nell'arte tutti gli altri valori che le sono storicamente impliciti - tanto che lo stile d'un fittile o d'una seggiola, nonchè d'una statua e d'un tempio, basterebbe a renderci intuibile e attuale l'intiera mentalità d'un popolo e d'un tempo -, potremmo collocare a' due lati di quel sensismo (o estetismo) artistico del primo esempio, sul quale insistemmo per chiarire l'essenza del bello, l'idealismo (o meglio, spiritualismo) e il realismo (o meglio, naturalismo) della grande arte: i due poli di questa, come di tutto il pensiero. Ma in primo luogo, anche qui bisogna poi intender questi termini tecnicamente, in concreto, rispetto allo stile, e non in astratto rispetto ai fini psicologici: un artista ellenico idealizza anche il reale, mentre che un tirrenio (etrusco o romano) interpreta realisticamente anche le divinità, gli eroi e le anime dei morti. La moralità dell'arte non è che l'eticità della sua tecnica; quindi, p. es., oggi "serietà" e "onestà" artistica son come a dire "verità": sincerità e naturalismo tecnico. . Inoltre, que' due poli che si antinomizzan nel pensiero esplicito, s'implicano nella sintesi estetica, che li dirige ugualmente verso la linea comune della pura arte, del valore formale. Se per es. il trascendentismo conduce spesso all'arte "piacevole" (al cosiddetto "edonismo"), ossia ad esprimere il nostro ideale in una forma bella in sè, come se fosse in natura, il realismo conduce del pari all'arte per l'arte che tratta la natura come se fosse bella, ossia esprime il valore formale(32) anche del disvalore ideale. Voglio dire che il naturalismo, non pieno dell'eticismo, pur quando intende raggiungere il nudo e arido "vero", si spiritualizza proprio nella valorizzazione che la ricerca stilistica compie anche dei disvalori - dell'empirico individuale e contingente, del male e del dolore, e, insomma, del "brutto" in natura -, e, com'è stato ripetuto, ce ne libera: non perchè l'arte faccia diventar piacevole il doloroso, bene il male e vero il falso, chè anzi questi disvalori verranno evidenziati ed esagerati nell'artificio estetico (un letterato ci farà piangere su ciò che nella vita ci passa con indifferenza sotto gli occhi): ma perchè risolve in un valore esistenziale - in un'espressione "definitiva", abbiam detto, ossia in accordo con la finalità che qui è obbiettiva - ciò che rimaneva un disvalore fin che veniva rifiutato o negato per altro, in cui ponevamo il dover essere e il piacere. . Infine (e per conseguenza) le opposte finalità del pensiero logico e pratico s'appàgan l'una l'altra incrociandosi, per così dire, sul terreno estetico: come l'arte classica, per es., unifica il fine oggettivo e reale (intellettuale) con la forma soggettiva e ideale, così quella romantica attua il fine etico in una forma realistica, in un'espressione ch'è o vuol essere "naturale". Però, tal naturalezza sarà sempre quella d'una tecnica e d'uno stile. Inventi od interpreti forme esistenti (espressioni di sentimenti o rappresentazioni di oggetti), il sentimento artistico (liricità) come la cosa figurata dall'arte (contenuto) saranno sempre invenzione o interpretazione stilistica di suoni colori chiaroscuri rilievi ecc, che potenziano quei valori nel sensibile divenuto fine a sè stesso; come l'amore, stretto parente dell'arte, può risolver nell'amplesso i più profondi bisogni della specie, le più alte e platoniche aspirazioni della persona. Ne consegue, come osservammo, che il lirismo romantico non è nè lirismo nè romantico se non quando trova la sua espressione formale, il suo "classicismo". . Il giudizio e la critica d'arte implicanti sempre l'opera e l'autore (senza di che sarebber giudizi sul bello in natura), e astrazion fatta dai giudizi puramente storici o in quanto storici s'avviano nelle stesse due direzioni, e dovrebbero incontrarsi nel medesimo punto, costituente il fondamento del criterio artistico. Di solito (presso i profani, sempre) il giudizio d'arte va alla forma raggiunta, alla definitività espressiva, da cui riceve il valore; e di qui risale all'artista, prestandogli anche i valori morali dell'opera sua (egli sarà un angelo se sa far gli angeli e un "maledetto" se è un pessimista). Ciò che allora conta è l'"opera" e il "monumento": chiamo così quella forma artistica che vive ormai in sè, staccata dall'artista, perchè appunto definitiva, com'è dei "capolavori" che costituiranno, nell'opinione comune, l'arte "classica" d'un dato periodo. Presso gl'iniziati invece, presso i raffinati e gli aristocratici dell'arte, il giudizio si rivolge di preferenza all'intenzione dell'artista, all'ispirazione, alla ricerca e al tentativo del nuovo; e allora si preferiscono i "primitivi" ai grandi maestri, l'abbozzo e il non finito al "quadro" e all'opera definitiva e non proseguibile se non per imitazione pedestre. Trattandosi di temperamenti artistici, coloro godono l'arte in quanto si sentono all'unisono con l'artista, che lasci loro il modo di collaborare all'interpretazione e quasi di sostenerlo e incoraggiarlo. . Questo secondo modo di giudicare va incontro al pericolo di scambiar per arte gli sgorbi d'un ragazzo sui muri e per stile i fregacci a colore su tela da sacco d'un artistoide improvvisato a Montmartre. Se ci mettiamo a lambiccare sui significati che noi stessi possiamo dar loro, la più supina imperizia e la balbuzie più idiota diverranno "simboli" d'infiniti valori, perchè tutto possiamo far dire a ciò che non dice niente. Ma l'arte è arte se costruisce, se impone sensibilmente, se attua il valore. Sì, anche il frammento, il "particolare" è artistico (un frammento di Saffo, un pezzetto di Michelangelo), e anzi piace più dell'insieme; ma quando in quel pezzetto c'è, inconfondibile, lo stile dell'opera intiera cui esso ci spinge a risalire con l'immaginazione, perchè l'espressione d'un vero artista è compiuta, senza parti neutre, in ogni punto. Sì, il bozzetto è arte (i "Re Magi" di Leonardo...), ma perchè c'è già tutto l'autore in quanto stile, anche se il contenuto vien sol accennato. E il "non finito" è, sì, una qualità artistica, specialmente in poesia, dove il verso è piuttosto evocazione che descrizione, e una parola scelta e collocata a quel modo, diffonde quell'arcana trascendente infinitezza, che diciamo liricità: ma proprio quella parola ci vuole, definitiva, insostituibile, stile raggiunto e, insomma (lo ripetiamo fin alla sazietà) esistenza, in cui consiste il valore esteticamente attuato. ... . ... 9. . Anche la prima, più comune maniera di giudicare l'arte non va esente da errori e pericoli. Un capolavoro, già lo dicemmo, verrà apprezzato dal pubblico per i suoi contenuti, saltando la forma, proprio perchè non c'è più che la forma in cui quelli venner tutti risolti; lo spettatore o il lettore gode e soffre del tema svolto senz'addarsi ch'è l'arte quella che gli fa amare e odiare ciò che nemmen lo sfiorerebbe se soltanto conosciuto (rappresentato logicamente, saputo). Ne deriva questo curioso paradosso il loggione applaude, per mediocre gusto artistico, un Jago ampolloso e declamatorio, perchè ancor sente l'artificio, ossia il dislivello fra il contenuto e la forma; ma getterà tòrsi di broccolo all'attore perfetto, come se fosse un reale odioso Jago; reale Jago ch'egli poi, viceversa, saluterebbe affabilmente se abitasse di casa accanto a lui. Ma non si creda che la critica dei competenti eviti lo stesso errore quando confonde lo stile con la natura psicologica dell'artista, e dice per es. che Manzoni scrive "come si parla" (perchè stilizza la parlata toscana) o che Dante "va significando" quel che Amore gli ditta dentro (perchè interpreta dei contenuti vivi e non convenzionali)... Anche di qui nasce il paradosso, di riconvertire i valori stilistici (realtà sensibili) in realtà psichiche, e Michelangelo diventa il "ribelle" per antonomasia (la sua arte, ripeto, è tutta stile e perfin maniera: si confrontino i due "prigioni" del Louvre!), Manzoni il più paterno e buonsensaio degli uomini, ecc. ecc., salvo le amare delusioni della ricerca biografica! . Per gli uni e per gli altri c'è poi anche il pericolo di farsi, d'una forma e d'uno stile, sol perchè piace universalmente e tradizionalmente, un modello, e quindi un fondamento del giudizio estetico. Noi per es. siamo ancora sotto l'influenza del modello romantico, onde gran disprezzo di ciò che s'era fatto prima (si rifiuta perfino la grande arte "barocca") e che si fece dopo. Se unica poesia sono "I Sepolcri" e "La Sera del di' di festa", D'Annunzio e Pascoli diverranno oreficeria senza poeticità (ma anche Orazio e Petrarca, nonchè: Ovidio e Catullo). . Ma "poesia", in senso letterario, non è che il linguaggio in quanto si fa arte. Nel momento in cui la parola parlata e scritta prende per fine diretto la forma e poi per suo mezzo cerca d'attuare quei valori e quei fini, logici ed etici, che il linguaggio, in quanto espressione naturale della vita associata, rappresentava soltanto, in quel momento istesso (e non prima) acquista liricità, poeticità; che sarà per lo meno quella soggettività inerente all'accento indovinato, alla frase trovata, che, consapevolmente, almeno aggiunge valore alla cosa detta e al sentimento espresso, come l'accompagnamento musicale, fin dalle origini della poesia, potenzia e mette in valore i contenuti recitati. E come un artista mimico, non è artista in quanto si muove e gestisce come tutti, esprimendo naturalmente bisogni ed affetti o comunicandoli agli altri interessatamente e praticamente, ma in quanto imita gesti e movimenti - li interpreta, li stilizza -, così il linguaggio per sè stesso non è arte, ma è la materia dell'arte letteraria, che cercherà la propria forma, più o men imitativa del vero, comunque espressiva d'un "meglio" estetico (sensibile) che culmina nella poesia. . Pertanto la linguistica non appartiene necessariamente all'estetica, o vi appartiene come tutte le scienze che han per oggetto un fatto di espressione, un mezzo dell'arte, che sarà anche estetico, mentre che per noi il linguaggio è sopratutto logico(33). Tuttavia, la nota tesi del Croce era suggerita da un concetto più profondo, chiarendo il quale muoveremo l'ultimo passo verso la definizione del rapporto fra il valore sensibile e il dover essere spirituale, di cui la definizione del bello artistico non è che il termine medio. . Invero, c'è una gran differenza fra la "materia" delle arti (i colori del pittore, le note del musico ecc.) e le parole, materia letteraria: la parola era già formale (è la "forma del pensiero"), sintesi volutamente prodotta come "espressione", atto umano, per sostenere e rappresentare l'obbiettività d'un valore qualsiasi (anche pratico) preso logicamente, ossia "fuori di me" (fuori dell'io attuale) e comunicabile quindi agli altri. In che, questa forma logica, va a coincidere con la forma estetica? questa espressione va a coincidere con lo stile artistico? . Quel cubo rosso mi rappresenta percettivamente una casa; ma le parole "rosso" e "cubo" sono l'aggettivo e il sostantivo destinati a rappresentare una qualità e una sostanza in sè; e ancor più i termini "causa" e "cosa" che connotano il valore reale, presente in tutte le percezioni (come sentimento del conoscere e del riconoscere), ma preso ormai obbiettivamente. Se dunque formiamo un discorso di tali "concetti" in parole, in quanto ha un fine obbiettivo e utilitario esso è un atto che esprime, come ogni atto, il fine e vi si accorda, ma vi s'accorda nel dover essere rappresentato dai contenuti (nel valore obbiettivo del giudizio), non nell'esistere della forma (nell'atto stesso) che per ora resta un semplice mezzo e non ha un proprio valore. . Il linguaggio tecnico e scientifico, cioè la forma del linguaggio teoretico - e quindi, poi, tutto il linguaggio in quanto logico (in quanto pone il valore nell'obbiettività delle rappresentazioni) - è "prosa". Per farsi letteraria e oratoria, la prosa si deve dirigere invece all'arte, alla poesia: si deve soggettivare. Ma soggettivare a mo' dell'arte (tipo, la musica) che subiettiva i suoi contenuti (o almeno, la sua materia, le note, i colori) sensibilmente, facendo esistere la finalità (o almeno il sentimento) in una sintesi attuale, reale per sè (tipica, l'architettura) ma non in sè (fuori di noi); chè anzi questa forma sensibile è l'essere dell'io, la forma del sentimento (o il fine sensibilizzato). . Infatti l'arte letteraria costruisce per immagini, come le arti figurative, con la differenza che si deve accontentare di evocarle per mezzo di parole: inferiorità largamente compensata dalla possibilità che han le parole di immaginare qualsiasi contenuto. Tutto il pensiero, anche la scienza (come nei dialoghi di Galilei), anche la filosofia (da Platone a Schopenhauer e a Nietzche), può acquistare stile letterario: ma bisogna che concretizzi l'astratto logico, che attui il valore spirituale e rappresentativo (il dover essere) in una presenza, in un'evidenza attuale e sensibile (l'esistere come "immagine"), ch'è la pietra di paragone del valore artistico del linguaggio (Napoleone dev'essere esistito, Madame Bovary esiste)(34). . Ora, la tecnica artistica di quest'arte letteraria è di nuovo tutta rivolta al mezzo estetico, alla parola (confrontare l'epistolario del Flaubert), che di materia diviene spirito, di strumento diviene fine. L'immagine cerca la sua forma: il suono, l'accento, l'inflessione, il timbro; i ritmi, le pause, le coincidenze e le rime; gli accordi e i contrasti, di suono, di colorito e chiaroscuro; i tropi e i traslati e tutte le figure e i modi della composizione stilistica; ma sopratutto l'unità assoluta, definitiva, di senso e di espressione, la icasticità della parola e la sua capacità evocativa (potete concepire i "Sepolcri" fuor della loro forma?). . Di solito, la poesia viene invece distinta dall'arte, e poi aggiunta, ora a un particolar genere letterario, dando così luogo ai canoni dell'arte poetica, ora a tutte le arti come la lor comune liricità. Quella distinzione non chiarisce le idee se prima non si sdoppia il problema del rapporto di forma a contenuto, che in estetica non è che il problema dell'unità o coerenza stilistica, mentre che in teoretica s'allarga nel problema della unità o immanenza dei valori, in quanto trascendentali (questa si può dire la liricità dello spirito), nella forma sensibile, unità estetica che si attua particolarmente in letteratura. . Infatti per un pittore, il contenuto può essere nient'altro che un pretesto per ottenere un rapporto di colori; ma se questa è l'arte, tutti sentiamo che la letteratura è qualcosa di più dell'arte e ci obbliga ad allargare il problema. Anche se ci limitassimo a chiamar "arte poetica" la tecnica de' suoni accenti e ritmi d'un particolar genere letterario detto per antonomasia "poesia", l'elemento sonoro del verso conta meno come musica in sè che come accordo della forma sonora al senso e al contenuto: una pausa, una rima, un'arsi e una tesi sono ben povera bellezza formale se non riguardano il significato. Dato il carattere obbiettivo e logico (cioè grammaticale) del linguaggio, inscindibile pur dal valore espressivo ed emotivo del fonèma - anche una semplice interiezione o il tono della voce divengono linguaggio sol in quanto servono a rappresentare altrui i nostri sentimenti -, allorchè da mezzo pratico di comunicazione qual era il linguaggio naturale passa in fine artistico, vi trasporta i propri valori rappresentativi de' quali non si può mai spogliare del tutto essendo fatto per essi. . Non soltanto dunque la linguistica, ma neppur la filologia si esaurisce nell'estetica in senso stretto. La letteratura esigerebbe un'estetica allargata, connessa al problema metafisico dell'immanenza del pensiero più alto alla sua più semplice forma. ... . ... 10. . Ma ritorniàmo un istante indietro, e concludiàmo prima circa gli stessi problemi nelle arti figurative (imitative) come la pittura. Che cosa intendiamo noi per "contenuto" d'un quadro, se non ciò che il quadro ci presenta? È contenuto per noi che guardiamo, ma per se, è la forma istessa, il dipinto. In che stava dunque l'interesse del porre questa forma pittorica in rapporto con un altro contenuto, con un oggetto esterno e anteriore ad essa (il modello)? Stava nel bisogno teoretico di distinguere arte e natura, stile (presentativo) e realtà (rappresentata), bello e vero. . Confrontando queste due cose, dicemmo che l'arte imita la natura e la storia (e tanto più se vuole rappresentare, "illustrare" il tal contenuto esterno); ma che, in quanto è forma e figura, ne risulta sempre un'interpretazione, ottenuta con la scelta di questo o quel mezzo tecnico (come la plasticità dei romani, il cromatismo dei bisantini, la linea o "contorno" dei gotici ecc.) che serve a tradurre il contenuto (esterno) analitico e molteplice - poi che in natura linee e colori luci e ombre piani e volumi ecc. son lì semplicemente vicini e per caso e ci servono unicamente per rappresentarci gli oggetti fuori di noi - a tradurli, dico, in una forma sintetica e unificante, la quale poi ci aiuterà a trovare i valori formali anche in natura. . Il valore di quella forma - si chiami esso oggettivo perchè si tratta d'una figura più o men "verisimile" ma pur sempre stilisticamente coerente (p. es. in Raffaello, benchè le figure aderiscano al vero, sono però la melodiosità dei contorni, la subordinazione delle superfici colorate, la "composizione" ecc. quelle che lo interpretano con la serena grazia e l'armonica dolcezza distintive dell'Urbinate); o lo si chiami soggettivo perchè sentimento "espresso" dall'opera d'arte (l'umido tenero d'un fondo giorgionesco, la vibrazione lenta della penombra leornardesca, il solido e profondo del luminismo caravaggesco ecc.) - sta tutto quanto compreso nei puri rapporti sensibili, che nel contempo formano la figura obbiettiva, ma con la espressività o "carattere" dello stile: rapporti che hanno in sè la loro legge interna, ch'è la detta coerenza stilistica, unificante il contenuto alla forma, e non viceversa(35). . Questa considerazione, che vero contenuto artistico non siano i contenuti esterni richiamati o rappresentati dall'arte - sotto il quale aspetto, l'arte ha relativamente ad essi soltanto un valore "illustrativo" e vale in sè come arte "decorativa": in tale rapporto, il problema dell'arte si circoscrive come problema della pura forma (della forma bella), per distinguere e non per unificare i valori -, ma che il contenuto divenga interno all'arte nell'interpretazione stilistica, consistente nel rendere ogni valore presente e unificato nella forma, è implicita, se non erro, nell'odierna teoria fondamentalmente giusta della "pura visibilità" delle arti figurative (le arti che fingono un oggetto). Paragonata col modello esterno, l'arte appare loro astraente e deformante, e queste divengono le leggi dello stile contrapposte ai criteri del verismo (o meglio, "verisimilismo"). . Certo, la stessa unilateralità del mezzo artistico, tanto più necessaria quanto più esso serve a unificare i contenuti nella forma (p. es. colla luce nel luminismo pittorico, col disegno nel bianco e nero, col rapporto dei piani in scultura ecc.), rende l'arte "astraente" di fronte al modello; ma questa astrazione o scelta tecnica condiziona la concretezza medesima dell'arte, la sua potenza d'attuare un valore nella forma d'un rapporto sensibile: dipingete al vero la Venere di Milo e turberete l'effetto estetico della "linea". Perciò (d'accordo!) sarebbe fuori dell'arte chi giudicasse che nei bisantini fu un "difetto" trascurare il chiaroscuro, o nei gotici la prospettiva. Tanto varrebbe il dire che un fantoccio meccanico, perchè cammina davvero, è più bello della Nike Samotracia che corre sol per effetto del modellato: di qui si giungerebbe a porre il massimo dell'arte nella natura, che in tal senso è l'opposto (l'estremo dell'arte nel senso dell'obbiettività è l'architettura). La prospettiva dei fiorentini o il rapporto tonale dei veneti diverranno a lor volta due mezzi d'interpretazione artistica sullo stesso piede della purità dei colori dei bisantini e del semplice contorno dei gotici. . Del pari è giusto affermare, che l'arte "deforma" il vero perchè modifica e storce, più o meno, le forme della natura, se pur non ne prescinde del tutto lor sostituendo figure fantastiche, come in tanta storia dell'arte orientale ed egizia, prefidiaca e romanza; ma deforma il reale esistente per costruire la propria realtà, l'espressività della forma artistica. Anche qui, pertanto, sarebbe fuori dell'arte il ripetere per es. che l'arte dei "primitivi" era "scorretta" o "infantile" (perchè deformatrice): essi non dovevano affatto correggere le loro anatomie e prospettive o scorci per la semplice ragione che vedevano e sentivano a quel modo, che quella era l'espressione adeguata alla lor ispirazione. Tanto varrebbe imputare a un musicista di esprimersi musicalmente invece che con parole naturali. . Così, l'odierna critica e storia dell'arte - parlo di quella che guarda l'arte non soltanto da erudito (ossia col documento) o da letterato (ossia con l'immaginazione), ma la guarda proprio da artista: la guarda con gli occhi - è venuta sempre più orientandosi verso un espressionismo estetico(36) che, intendendo lo stile come espressione dell'impressione soggettiva, trasporta il contenuto artistico tutt'affatto dentro il soggetto, e respinge ogni contenutismo oggettivo, ogni "verismo". L'artista trova sempre in sè medesimo, nel proprio modo di sentire, e quindi di vedere, il suo vero contenuto. . Appunto perciò (aggiungono) egli deforma il modello la deformazione del vero obbiettivo diventa anzi l'indice della soggettività o liricità dell'arte, e si potrebbe dire, della sua romanticità. Ogni volta che l'arte cerca il proprio contenuto nell'ispirazione, sia essa mistica oppur lirica, o anche soltanto impressionista, s'allontana dall'imitazione del vero e costruisce le sue figure liberamente, obbedendo al bisogno di esprimere, come avvenne nell'arte medievale e, in genere, nell'arte dei "primitivi". Se dunque oggi, di nuovo, un "novecentista" (un Matisse, un Picasso, un Utrillo) deforma la natura, per es, figurando una Vergine senza rispettare le proporzioni e tanto meno la regolarità dei lineamenti (ossia, come direbbe uno del pubblico, facendola "brutta"), egli, concludono, ne avrebbe il diritto in quanto lo faccia unicamente per cercare una forma più espressiva. . Ma eccoci di nuovo sul ciglio d'un abisso, se non ci tratteniamo in tempo, prima che qualche pseudo pittore o scultore approfitti di un tal criterio per gabellare come arte qualunque "composizione" (o scomposizione) la sua imperizia tecnica e la sua vanità ci vogliano ammannire, col pretesto che l'arte è espressione d'un contenuto tutto soggettivo, e anzi pura creazione del libero spirito umano. Prolungando questa tesi, l'arte per eccellenza è senza forma, ossia deformatrice al punto da negare ogni forma (per non cadere nè nell'"illustrazione" nè nel "decorativo"); lo stile è l'espressione immediata, naturale come la parola, e il gesto, anzi lo stesso fare umano e pratico (futuristicamente!): la vita (la natura dalla parte del soggetto), ossia, di nuovo, l'opposto dell'arte, che nel senso dell'espressività culmina invece nella musica. . Ma come il contenuto artistico, se esiste, incomincia ad esistere in quella figura che lo attua stilisticamente (lo esprime artisticamente), e la sua soggettività non l'esime certo dal dovere d'obbiettivarsi nell'arte(37), così la libertà o creatività dell'artista non viene dispensata dall'obbligo di cercare la forma estetica (anche se non l'intende edonisticamente, come imitazione di un bello già dato e convenzionale), ch'è poi estetica appunto in quanto è più espressiva (che la natura) di quel valore. Se no, in che l'arte supera la natura?(38). ... . ... 11. . Per noi è ormai facile rettificare il soggettivismo estetico, affinchè non divenga un contenutismo come quello oggettivo. L'oggettivismo era presto corretto. Non possiamo porre il bello artistico in un contenuto oggettivo della conoscenza, in una cosa o causa trascendente la forma che ce le rappresenti soltanto. P. es. il contenuto di questo rettangolo bianco è la sua materia (è un rettangolo di carta) rispetto a quest'oggetto, l'arte non consisterà nel presentarmi un nuovo foglio di carta, ma, o nell'ornare decorando quest'oggetto, nel qual caso si rende autonoma come pura arte, rètta unicamente dal gusto della forma divenuta fine a sè medesima; oppure nel realismo artistico, dove "realtà" non è un oggetto trascendente la forma, ma la finalità realistica, che l'artista esprime ed attua nello stile. Superfluo qui ripetere, che l'artista lo può fare scegliendo e inventando forme più espressive di quelle naturali per interpretare la realtà della natura (e di noi stessi come natura), superandola(39): il contenuto, da oggetto s'è mutato in finalità oggettiva, e da "natura" in "spirito". . Ma neppure lo spirito è mai un contenuto in senso proprio, se non per lo psicologismo che lo obbiettìva in una sostanza o causa su l'analogia degli oggetti della conoscenza. Per noi, lo spirito - lo s'intenda empiricamente come "io" ("io esisto" non è che la posizione pratica della sensazione), o filosoficamente come finalità rivolta al più che l'io (dover essere trascendentale), e quindi anche all'essere, al non io (presente come stimolo e opposto come limite nell'esistenza stessa dell'io) - è sempre valore e non è mai uno de' suoi contenuti. . Il mondo, lo sappiamo, è un mondo di forme, ed il valore si attua nella forma(40). Tra le forme distinguiamo gli atti (forme del corpo), perchè non soltanto ci rappresentano obbiettivamente noi stessi e il nostro rapporto col mondo, ma anche perchè attuano subiettivamente la finalità (appagando il sentimento), e così la esprimono (per gli altri). Esprimere, non è rappresentare conoscitivamente, ma comunicare per partecipazione la subiettività di un valore (se uno scoppia in una risata tutti ridono con lui, e non solamente se ne rappresentano la gioia). In natura, l'espressività d'un atto non è che la subiettività d'una forma. E in arte? . Uno che arrossisca di vergogna o se la dia a gambe per la paura, sebbene "esprima" benissimo questi sentimenti e fini subiettivi, non è per nessuno un artista: artista è, p. es., l'attore che "imita" il pudore o la paura, ossia prende per suo fine quei gesti che nella vita erano spontanei oppur pratici e, condivida o no quei sentimenti, li rende tragici o comici o farseschi nello stile. Di nuovo parrebbe, che dei contenuti, questa volta soggettivi, passino con la loro espressività nell'arte a renderla espressiva. . Ma no: l'artista che semplicemente trasporta in arte un vero riso e un vero pianto, è l'ultimo degli artisti, il più povero e inespressivo(41). Di nuovo, l'arte, o "aderisce", come pura arte, al contenuto che prende a pretesto o che vuol illustrare, e ci darà un riso e un pianto stilizzati, resi belli per sè, divenuti elementi della pura forma; e pertanto si può dire, "idealizzati"; ovvero l'eticità di quel dolore o di quella gioia arde l'anima dell'artista, strabocca oltre il contenuto nell'idea morale per farne un simbolo tragico o comico di dolore o di gioia (e magari il riso diverrà tragico e il pianto, comico), e allora il "carattere" o espressività dello stile interpreterà in tal senso la figura ridente o piangente: ma sempre con gli elementi stilistici, attuali nella forma, inesistenti prima di questa nel contenuto soggettivo, nell'ispirazione. Infatti, a un pittore basta un chiaroscuro movimentato (anzi, a un fotografo, il giuoco delle luci) per rendere espressivo anche il vero, per dar "carattere" (soggettività) alla figura. . Ma dal momento che i sentimenti e le finalità dell'artista, divenendo finalità del gusto, debbono risultare come valori sensibili dal loro esistere in quella forma (chiamata poi, perciò, "bella", a modello di nuove stilizzazioni e a guida della contemplazione estetica), la continua diatriba dell'espressivismo contro l'estetismo(42), che quasi oppone lo stile alla forma, la subiettività dinamica dell'espressione all'obbiettività statica del "bello", la liricità romantica alla purità classica ecc. ecc., si riduce a una questione tecnica riguardante la libertà dell'artista di fronte al tema. Ora, l'artista in quanto fa della pura arte (come nella pura musica) è padronissimo de' suoi mezzi, diretti sol dal gusto; ma è proprio in quanto egli si proponga d'interpretare con essi un altro valore (come l'architetto che intende costruire un'abitazione o una chiesa), che vi deve accordare la forma, se non vuol appunto ch'esso resti un contenuto esterno a cui l'arte s'aggiunge, ma non lo attua. . Perciò, quando un valoroso critico e storico dell'arte (il Marangoni nel libro citato) chiede perchè, se un letterato può dire che una donna ha "un collo di cigno", non si concederebbe a un pittore di disegnarla in tal guisa, risponderei subito che il "collo di cigno" in letteratura è una metafora, ossia un'immagine (di cattivo gusto) evocata accanto a quella dell'oggetto in questione; ma in pittura, o si figura una donna, o un cigno (o, se mai, l'una accanto all'altro), per la ragione che diceva Orazio dell'uomo cavallo, della donna pesce e del cipresso sulle onde. Il disegno è contorno di qualche cosa e ne deve interpretare la realtà. Per quanto subiettiva, un'arte figurativa finge le forme degli oggetti, e i suoi valori spirituali si debbon esprimere nella concretezza propria della figura, nel che sta appunto il bello artistico di tali arti: ci debbono far sembrar reale lo spirituale, ivi compresa la spiritualità del reale, la poesia della natura. . Poesia: ecco la soggettività estetica, l'eticità del bello. Ma chi la cercasse nella sola soggettività empirica d'un sentimento e pratica d'una finalità, non la troverebbe mai, così come il bello non s'incontra dalla sola parte dell'oggettività percepita o pensata. Lirico, non è l'amore, è il ramicello di fiori col quale l'amante "batte alle chiuse imposte". Il primo libro dell'Etica spinoziana, per quanto altri lo chiamerebbe "un poema d'idee", non è poesia; lo è l'ultimo canto del Paradiso, dove quelle idee sono vedute ("O somma Luce..."). . Fin che soggetto e oggetto si antinomizzano e si trascendono, per quanto l'uno salga all'eticità e libertà dello Spirito e l'altro alla Ragione e al determinismo della Natura; o fino a che il valore, ideale o reale, trascenda il sensibile, adoperandolo come strumento e ostacolo da superare, o come contenuto a posteriori delle forme a priori, avremo il pensiero e l'azione, non avremo la poesia. Essa scaturisce dall'incontro dei valori trascendentali e antinomici dentro la forma sensibile: subiettivazione del mondo (sentimento del finalismo immanente all'oggetto, come quando diciamo "riso della terra" o "lacrime delle cose"), a condizione che l'io si senta nel più che l'io che lo rasserena e lo concilia con l'Essere. Perciò appunto, e con licenza parlando! (preferisco dirla grossolanamente che riprender le noiose tiritere sulla "catarsi" artistica) è più lirico far pipì in piena campagna che sparare una revolverata al seduttore della propria sorella. ... . ... 12. . Psicologicamente, la poesia è sentimento? Si rinnova la questione fatta sul "bello" ed è questione d'intenderci. È sentimento in quanto è sensibilità pura: vale a dire, non sentimento dello stimolo sensibile (come un'emozione) - soggettività dell'oggettività antinomizzata, e pertanto valore pratico (volere) e conoscitivo (dover essere) rappresentati per mezzo, del sensibile e realizzati per mezzo dell'atto -, ma trascendentalità del sensibile senza trascendenza. Quel valore che si realizza nel pensiero pensato e perciò nell'atto voluto, è già in atto esteticamente; e con ciò dimostra (accerta) la possibilità della sua realtà, ideale, dell'accordo cioè di sovrasensibile e di sensibile. Poesia, allora, è il sentimento del trascendentale (dello "spirito") dalla parte del soggetto, indipendentemente dalla realtà in sè; bellezza è lo stesso sentimento dalla parte dell'oggetto, indipendentemente dalla praticità per noi, . Ma come son aride queste definizioni! Poesia e bellezza, quando si presentano in natura, sono unite come sentimento di un bello esistente, già dato, che accorda l'io col mondo e con la vita. Bello e poetico insieme è il fiore blù della genzianella, allorchè lo incontriamo sui pascoli d'alta montagna: tutto il mondo e noi stessi possiam essere o non essere; l'ieri e il dimani, la finalità e la causalità, ogni vero e ogni bene, ogni principio e ogni fine, che cosa "sono"? Tutto fugge, nello spazio e nel tempo, fuori di me, e Dio mi sembra infinitamente lontano e inaccessibile: ma quel fiore blù esiste, è attuale, infinitamente piccolo nella sua concretezza ma infinitamente poetico nel suo valore, simbolo del mondo, bello dell'esser sensibile, del sentirlo e dell'esser visto, dell'esser io lui e lui me. "Perchè" sia bello, non so: esso è puro anche del conoscere; so che testimonia di valori reali e spirituali insieme, senza che ce li dobbiam rappresentare per concetti inadeguati e schematici. . L'arte è lo stesso "sinolo", divenuto un fine dell'attività e del pensiero. Esplicando il valore sensibile in cui ora essa implica gli altri (inversamente al pensiero logico ed etico), attinge l'unità formale (il bello) per mezzo dello stile (l'espressività, la liricità). Per questo appunto - per la sua artificiosità, per esser voluta - l'arte oltrepassa la natura. O meglio, ne oltrepassa tutto ciò che questa ha d'analitico, di astratto, di rappresentativo, e che il buon gusto artistico inesorabilmente rigetta, per far esprimere le sole forme delle cose (arti figurative), anzi la materia stessa (come suoni e colori); s'allontana (intendo dire) dalla natura "contenuto" (conoscitivo) per ritornare a lei nel concreto sensibile, nell'espressività della forma. Se a un "brutto" di natura facciam esprimere la sua bruttezza, diventa artisticamente bello perchè esplica nella forma l'essenza di quella (prima creduta) bruttezza. Questa, che al puro gusto era un disvalore, può infatti venire valorizzata almeno in quanto realtà espressa nell'arte dal realismo artistico. . Si deve concludere, che le arti figurative, interpretando il reale logico, v'immanentizzano espressivamente i suoi valori subiettivi e obiettivi, attuati nella forma; e che qui l'accordo di soggetto e oggetto nel sensibile è concreto, perchè è un fare una cosa, "poieticamente". Ma come accordare nel concreto artistico i valori puri e assoluti? Essi eran già "forme", espressioni cercate col linguaggio, "atti puri" in cui esiste il pensiero puro, perciò detto formale; e spetta invece alla letteratura estetizzarle, farle valere anche per noi oltre che in sè; ridiscendere, direi, dalla poesia (o trascendentalità) del sensibile alla sensibilità (o immanenza) della poesia pura. . Perciò, come dicemmo, la letteratura è qualcosa di più di un'arte, o, se preferiamo dir così, non è mai pura arte. Vi s'accosta però due volte, al principio e alla fine d'ogni suo ciclo di sviluppo: in principio come "teatro", arte plebea imitatrice della vita, che sta al livello della mimica; in fine, come alessandrinismo o parnassianismo di raffinati della bella forma indifferente ai contenuti, "verso che suona e che non crea", che sta al livello della danza. L'una ascende alla poesia drammatica ed epica, l'altra discende ("decade"?) dalla lirica. Ne' due casi, la ricerca del principio dello stile letterario sarebbe la medesima riguardante, p, es., un'arte figurativa, in quanto per un verso è imitatrice, ossia illustra un contenuto, e per l'altro è un edonismo decorativo e formale. Ma proprio per questo in letteratura esse sono considerate forme "minori". . All'estremo opposto sta la prosa scientifica storica e filosofica, l'esposizione e la spiegazione teorica, l'enunciazione pratica e dialettica: prosa, linguaggio tecnico, mero artificio destinato a presentare il pensiero nella sua purezza. Una formula matematica, un giudizio sintetico a priori, un principio puro pratico o una legge universale, ecco dei valori puri, che esistono unicamente nella forma che li esprime, forma sensibile per sè pratica, artificio tutto subiettivo per attuare un dover essere totalmente obbiettivo nel valore. In questo caso non esiste che il soggetto pratico - esiste in un contingente sensibile, la parola, sempre sostituibile per convenzione con qualunque altra -; il valore obiettivo (universale e necessario) è tutto un dover essere. L'arte letteraria si proporrà invece di render sensibile - di far esistere, di presentare nella forma espressiva del valore - i contenuti ideali del linguaggio logico ed etico. Così la prosa diviene, almeno, eloquenza e arte del persuadere; così la letteratura diviene alla fine poesia letteraria. In questo momento, la parola (la forma espressiva) ha raggiunto la sua necessità e universalità ideale: è insostituibile. . Valorizzare, esteticamente, il linguaggio: dall'accento che intensifica e sottolinea la modalità d'un sostantivo, d'un aggettivo, d'un verbo, al canto che la estetizza formalmente(43); dalla scelta della parola più pura e più propria, ossia pregnante per tradizione ed uso di un più chiaro e distinto significato, alla costruzione d'immagini che traducano, ossia interpretino e provino sensibilmente i valori del pensiero. Allorquando il linguaggio ha raggiunto l'accordo perfetto della sua capacità emotiva o espressiva con la sua capacità evocativa o immaginativa - l'accordo, per così dire, di valori musicali e di valori figurativi -, siamo alla poesia nel significato più stretto della parola. Essa è l'arte della letteratura, e la letteratura è arte, ripeto, sol in quanto è poesia(44). . Conclusione: - Mentre su l'Acropoli biancheggia il Partenone, per le vicine pendici qualche povero ilota ancor oggi costruirà il suo abituro di pietre e fango. Il passante qui storce lo sguardo e mormora: "Che brutto!", non soltanto in confronto con quell'armoniosa chiarità, ma perchè la vista di questa catapecchia gli rappresenta la miseria fisica e morale. Egli del resto è pronto a chiamar brutto anche il tempo nuvolo, e bello il sereno. Ma un pittore troverà bellissima la desolata casupola, bellissime le nuvole cariche di pioggia; e forse preferirà impiantar qui il suo cavalletto anzichè presso i Propilei. E anche noi dovremmo dar tutti i torti al primo passante, il quale ci rappresenta l'ignoranza e la confusione di quei valori che abbiamo pazientemente distinto... Ma, prima di dichiarare in fallo la coscienza comune (il "senso comune"), conviene cercar di comprenderne le ragioni. . Le ragioni del pittore, le conosciamo. Esteticamente, il tempo sereno val quanto la pioggia. Se noi contempliamo il mondo sensibile così come si presenta; e se la forma sensibile divien l'unico criterio del nostro giudizio, non più basato sui valori morali e ideativi mediati dalle (astratte) sensazioni, tutto è parimenti estetico in quanto possiede qualità intuibili, appartengan esse, obbiettivamente, al delicato corpo d'un efebo, ispiratore del Cristo apollineo che Michelangelo ha posato sulle ginocchia della Vergine in S. Pietro, o al ripugnante cadavere che, con non minore bellezza, ispira il Cristo morto del Mantegna alla Brera. Allora, si dovrebbe concludere che in natura, o tutto è bello, o niente lo è e il bello ve l'aggiunge l'arte. . Ma l'arte non crea un valore inesistente. Lo stile, come pura arte, consiste sol nel prendere come fine dell'attività quel valore sensibile che di solito è mezzo ai fini intellettivi: nel porre in valore il sensibile (di un oggetto come d'una persona, d'un atto pratico come d'un gesto e d'una parola), mostrandoci che ogni valore esiste in quei rapporti di colori suoni ecc. che costituiscono la forma di quella cosa, di quella persona, di quel pensiero parlato o comunque espresso. La teoria dello stile introduce a comprendere che se in ogni atto umano (il piallare del falegname come lo scrivere del filosofo) si esprime la finalità subiettiva, questa però si attualizza come valore formale (del tavolo piallato come del trattato scritto) in quanto la finalità si accordi con l'esistenza; e la "bellezza" comprova, vorrei dire, la bontà obbiettiva dell'atto. Adunque, dal problema della pura arte - dal "momento" estetico distinto - si è ritornati al problema della realtà dei valori, della lor reale unità. . Ogni cosa vale sensibilmente in quanto esiste necessariamente in quella data forma; essa è così il nostro stesso esistere attuale ed immediato, dal quale il pensiero esplicito attuantesi nella forma logica della parola e del giudizio risale conoscitivamente al dover essere spirituale - al dover essere nominale a priori, voluto dal sentimento -, per ridiscendere al dover essere reale, all'Essere in sè del sensibile fuori dell'io attuale; senza però riuscir mai del tutto a colmare l'antinomia. A metà strada, per così dire, fra la "cosa in sè", realtà del pensiero puro ma tutta a priori e senza più alcuna certezza teoretica - siamo certi ch'essa sia necessaria per pensare (siamo certi del pensiero), ma non della sua esistenza assoluta -, e la nostra esistenza sensibile, realtà empirica a posteriori senza universalità, troviamo la "natura" come un accordo concettuale, sintesi di pensiero (come finalità e dover essere) ed esperienza percettiva (ossia, in fondo, sensibile). . Ma il criticismo, stringendo le somme, trova che questa sintesi non è che un compromesso fra i "contenuti" sensibili dati soggettivamente e il valore formale che li implica obbiettivandoli, e quindi li adopera come mezzi ma li nega come fini, Infatti, o l'accordo si attua praticamente, nell'atto pratico, nel "fare", e consiste nel conformarsi alle condizioni date dall'esperienza: ma questi rapporti di fatto vengon tuttavia subordinati al nostro fine che sempre li supera, e la natura, concepita come vita, appare concatenata teleologicamente. Oppure l'accordo si esplica teoreticamente, nelle forme del pensiero, che si rappresenta il mondo per mezzo di espressioni formali, di giudizi e leggi di natura; ma se qui la ragione si conforma al dato empirico, lo fa sempre provvisoriamente, per una specie d'analogia induttiva: la convenienza ai contenuti non è che il metodo per aggiunger certezza all'ipotesi e garantirne l'applicabilità pratica, ma la sintesi è a priori, è dalla parte del dover essere obbiettivo. . Ebbene, l'arte è un accordo come la natura, ma, si potrebbe dire, arrovesciato, perchè la sintesi avviene dalla parte dei sensibili. In questo arrovesciamento - ch'è il suo artificio, la sua "finzione" -, il valore, come finalità e dover essere (e solo in tal senso) divien contenuto implicito della forma sensibile, pensata e voluta in quanto tale, ed esplicata nello stile. L'arte è anch'essa pensiero e attività (non è sol intuizione e dato); ma è pensiero senza concetto, perchè non cerca le rappresentazioni - non è conoscenza, di nessun grado -, bensì l'immanenza del loro valore obbiettivo all'immagine percettiva, e subiettivo all'espressione istessa (p. es. al linguaggio, in letteratura). Ed è attività - non è contemplazione e fantasia -, che si dà per fine l'atto medesimo, il fare sensibilmente, sia che fingendo imiti, sia che inventi formando una presenza o figura che attualizza i valori senza trascendersi. . Se dunque chiamiamo bello artistico il grado di tal accordo dei valori reali e ideali, ispiratori dei temi e motivi dell'arte, alla forma che li interpreta - grado misurato dal piacere estetico che ne risulta, come in generale il piacere misura l'accordo dell'atto al fine -, il bello artistico è quella forma definitiva, quella sensibilità tutta raggiunta, la quale ci dimostra con l'esperienza, quantunque sembri miracolo, che un valore, per quanto universale e assoluto, si può attuare in un particolar sensibile senza residuo; e che l'unità di soggetto e oggetto, antinomizzati nei concetti opposti di spirito e natura, è lì sotto i nostri occhi, in quei materialissimi suoni colori ecc. ne' quali il divenire dello spirito ormai esiste per tutti, reale realtà del soggetto nell'oggetto divenuto tutto forma (universalità dell'arte). . Qui volevamo noi giungere, chè il miracolo dell'arte c'insegna a scoprire il miracolo della natura, l'inseità, per così dire, dei valori soggettivamente sentiti nei sensibili obbiettivamente conosciuti. L'arte c'insegna a contemplare, primo e ultimo "momento" del pensiero; ci educa questa coscienza della forma, dove l'io fa da contenuto, materia che aspira a una forma, sentimento (si può dire "anima" o "inconscio") che si attua nella esistenza, finalismo che si realizza causalmente(45). . La contemplazione estetica giudica nella forma sensibile i valore spirituali, che in tal rapporto chiama "bello di natura". Lasciandoci guidare dal solo gusto, giudichiamo il fine dalla forma dell'atto, l'anima dalla forma del corpo, Dio e l'Essere dalla forma del mondo, il pensiero dalla parola. È un giudizio per partecipazione, in quanto nell'unità sensibile la soggettività resta un contenuto della sua oggettività o presenza. Di qui la parentela, ugualmente notata dal Kant, fra eticità ed esteticità d'una forma bella. Aveva dunque la sua ragione quel passante che giudicava brutto l'abituro dell'ilota. Tal giudizio è estetico, perchè disinteressato (senza finalità nostra) e aconcettuale (senza rappresentazioni); tuttavia l'esteticità viene attratta nella sfera pratica dalla partecipazione del nostro sentimento al sensibile, simpateticamente sentito come espressione d'una finalità fuori di noi. . Ma basta che la contemplazione si affini e divenga gusto essenziale della pura forma, di cui senta l'assoluto valore nel mero rapporto qualitativo (p. es. coloristico), adeguandovisi in tutto il sentimento (p. es. come liricità di rapporti tonali alla Corot, o drammaticità di chiaroscuri ecc.); basta che l'occhio spazi per una sintesi più larga (p. es. guardando quella casupola di contro al vasto cielo), e che il senso incontri un rapporto, una forma nuova, ed ecco che l'io a sua volta si sentirà nel "più di me", che al tempo stesso è presenza del suo esistere al suo volere. Sotto questo punto di vista, la "natura", concettualizzata come "io" e "non io", è la forma della lor essenziale identità, e quindi anche della lor coincidenza pratica. Infatti acquistiamo quel senso concreto della forma, che si dice anche senso tecnico, e che dirige l'atto pratico senza regole nè concetti, avendo negli occhi e sotto i polpastrelli la premonizione del modo in cui si debbon incontrare la finalità soggettiva e la sua obbiettiva attualità; mentre che, in quanto è meditazione contemplativa, vòlta alla metafisica unità del Bene col Vero, giudica il vero dal bello, arazionalmente, formandone un simbolo e un mito. . Con ciò non intendo concludere à un pancalismo o a un misticismo estetico: "ancor più preziosa della filosofia è la prudenza!" scriveva Epicuro a Meneceo. La critica del bello qui ha giovato unicamente a dimostrare, che il mondo sensibile, oltre che contenuto teoretico e mezzo pratico di concetti e di fini che lo trascendono, è pensabile per sè stesso come forma dell'esistenza, e perciò anche esistenza e prova (l'unica!) di quei medesimi valori detti formali: "momento" della coscienza in cui la realtà del valore subiettivo e il valore della realtà obbiettiva coincidono assolutamente (metafisicamente); e a conciliare così l'antinomia sui sensibili. ... FINE. ... . ... NOTE AL TESTO: . (1) Il giudizio "riflettente" è il giudizio sul dato in sè stesso, e, come vide il Kant, condiziona i processi induttivi; esso non vuole ancor "determinare" nulla deduttivamente, ossia non applica al dato categorie e valori a priori. (2) S'intende che le "scoperte" filosofiche non sono come la scoperta dell'America, son piuttosto come... l'uovo di Colombo. Voglio dire, che un filosofo non deve scoprire qualche cosa, un oggetto; non arricchisce la quantità del nostro sapere aumentandone i contenuti: si contenta di modificare la nostra posizione mentale, la forma del pensare; e quindi il modo istesso di considerare l'esperienza e la scienza. In compenso, è proprio tale nuova posizione mentale quella che poi dirige anche lo scienziato nelle sue proprie scoperte, che gl'indica i valori del "vero" cercato e il senso in cui lo deve cercare. Perciò, come dicevamo sopra, quando la filosofia era razionalista, lo era del pari la scienza della natura, dove forza e materia, spazio e moto ecc. venivano considerati come reali in sè, mentre che oggi, dopo Hegel, essi non son più che rapporti d'idee entro cui si costruisce la realtà naturale in un razionalismo divenuto tutto relativista. S'intende che le "scoperte" filosofiche non sono come la scoperta dell'America, son piuttosto come... l'uovo di Colombo. Voglio dire, che un filosofo non deve scoprire qualche cosa, un oggetto; non arricchisce la quantità del nostro sapere aumentandone i contenuti: si contenta di modificare la nostra posizione mentale, la forma del pensare; e quindi il modo istesso di considerare l'esperienza e la scienza. In compenso, è proprio tale nuova posizione mentale quella che poi dirige anche lo scienziato nelle sue proprie scoperte, che gl'indica i valori del "vero" cercato e il senso in cui lo deve cercare. Perciò, come dicevamo sopra, quando la filosofia era razionalista, lo era del pari la scienza della natura, dove forza e materia, spazio e moto ecc. venivano considerati come reali in sè, mentre che oggi, dopo Hegel, essi non son più che rapporti d'idee entro cui si costruisce la realtà naturale in un razionalismo divenuto tutto relativista. (3) "Ritornare a Kant" è un precetto didattico prima d'esser un indirizzo filosofico. Del resto, la filosofia del Nord Italia trova in Kant le maggiori affinità con la propria forma mentis, aliena così dal panteismo orientale e dalla metafisica dell'assolutamente assoluto, come dall'empirismo occidentale e dal mero prammatismo; sebbene accesa dalle aspirazioni dell'uno e rispettosa della positività dell'altro. (4) Cfr. particolarmente l'Introd, alla "Critica del Giudizio". Per non ripetermi rinvio al mio saggio "Il pensiero come attività estetica e l'Introd. kantiana alla Cr. d. Giud." nel volume "Filosofia in margine", ed. Albrighi e Segati, 1929. (5) Cfr. spec. l'Introduzione alla "Critica del Giudizio", paragr. 4. (6) Per questi apprezzamenti storici rinvio al cit. vol. "Filosofia in margine". (7) Perciò mi sembra errato il concetto hegeliano, che la religione si risolva nella filosofia; per cui la filosofia religiosa non sarebbe che il passaggio dalla religione obbiettivante il soggetto in Dio alla filosofia che ritorna al soggetto, all'autocoscienza, sintesi dell'antitesi fra arte soggettivante e religione obbiettivante. Vorrei persuadermene anch'io ma non ci riesco. Veggo il passaggio per autodistinzione dalla filosofia religiosa alla filosofia pura (per es. dalla scolastica al razionalismo e da questo all'idealismo); ma non riesco a scorgere nell'ultima il superamento, la sintesi anche religiosa, che invece se mai resterebbe nel termine medio, nella filosofia religiosa. Questa non è un passaggio dalla religione alla filosofia: è la filosofia di una data religione, che quindi deduce dai principii religiosi e li applica alla sistemazione etico religiosa del sapere; e della quale la critica filosofica rimane "ancella" o alleata fin che non si urtino. Di conseguenza, la lotta così frequente ed aspra fra religione e filosofia non è, come tanti pensano, un disaccordo fra scuole o correnti filosofiche, dove la filosofia dovrebbe alla fine vincere e includere in sè la filosofia religiosa, prima mitologica e irrazionale. Io rovescerei questa posizione hegeliana: è la filosofia che, in quanto aspira a superarsi, a negare e a trascendere la conoscenza empirica, si fa religiosa, metafisica (o soltanto teosofica). In tal caso, l'urto fra religione e filosofia è, sì, un divario di scuole in quanto è un divario di metodi, l'uno dommatico e fideistico, l'altro critico e razionale: ma in quanto anche la filosofia afferma un Assoluto, intuitivamente, e fonda una metafisica trascendente, diventa il contrasto fra due religioni (per es. fra monoteismo e panteismo), che ce ne spiega storicamente la violenza. (8) Sopra un altro piano e in tutt'altro senso, che qui dunque non c'interessa direttamente (e ne parliamo sol per evitare confusioni), si potrebbe ammettere una introspezione come metodo di ricerca scientifica vera e propria, per analisi e sintesi delle nostre proprie esperienze; quando cioè si tratti delle parti descrittive delle scienze psicologiche e morali, come sarebbe un'autobiografia o una psicologia individuale. È chiaro che qui il metodo introspettivo si contrappone all'estrospezione non come metodo soggettivo opposto a quello (unico) oggettivo, ma come osservazione personale contrapposta a quella storica obbiettivamente documentata; del resto, anche in psicologia individuale e descrittiva, l'autoosservazione resta il metodo più fallace appunto per gli interessi soggettivi che ci dominano nella considerazione di noi stessi, per la mutevolezza e complessità di tali esperienze, rispetto alle quali il miglior psicologo è il romanziere perchè non ha bisogno d'oggettivarsi e d'astrarre, ossia d'uccidere la vita soggettiva per esaminarla (quando pur è possibile farlo, data la ignoranza di tanta parte, quella detta inconscia e subconscia, di essa vita e dei nessi fra gli stati d'animo). Tanto più in psicologia generale l'estrospezione deve intervenire per rendere "scientifici" i risultati dell'indagine, contentandosi dell'esperienza interna come riferimento necessario, ma vie più riducibile e convertibile nelle formule obbiettive, che ci dian degli schemi teoricamente sufficienti per prevenire i fatti e per fondarvi le applicazioni pratiche (per es. in psicometria, in psicopatologia, in pedagogia ecc.). Insomma, l'autoosservazione in psicologia come l'osservazione in ogni scienza, è sol il primo piano, descrittivo e narrativo, dell'edificio che culmina nelle scienze generali, ossia nei concetti di natura, ai quali ogni scienza vuol arrivare. Il problema verte dunque sulla natura del "soggetto"; la psicologia sarebbe introspettiva in senso proprio solo nel caso che la natura sia soggetto; ma in questo caso tutte le scienze sarebbero ugualmente introspettive, e si chiamerebbe lo stesso estrospettivo (oggettivo) il loro metodo comune di ricerca, di conoscenza teoretica universale, che in ciò si distinguerebbe ancora dalla esperienza come vita individuale. (9) Gli esperimenti ormai classici sulle immagini suggerite nel dormiveglia o a soggetti allucinabili dimostrano che l'immagine esiste in quanto si attua in un sensibile, "interpretato" secondo la memoria. Anche l'allucinazione si attua in elementi sensibili (un chiodo può apparire un topo sul muro, un suono una voce malvagia, un cartoncino a superfice granulosa permette la visione d'un ritratto di persona suggerita; ma un cartoncino liscio, no nel nulla sensorio non c'è nulla immaginabile); essa non è che un'illusione esagerata. Ma chiunque ricompone meglio un'immagine se si può servire di elementi d'una realtà vaga e indistinta che vi si prestino, come il rumore del treno per fantasticarvi sopra dei suoni (o anche il rombo della circolazione del sangue nel silenzio perfetto), le nuvole (o anche le luci entottiche nell'oscurità) per le immagini visive, ecc. Normalmente, più che con immagini, noi pensiamo o con le percezioni, a cui diamo un valore generico (adopero questa seggiola come una seggiola in genere, deduttivamente), o con parole, che sono immagini come innervazioni motorie (debolmente visive e uditive), e si prestan meglio al fenomeno del "trasferto", ossia a portare in sè, sensibilmente, i valori degli oggetti che rappresentano. Ma di ciò più sotto. Qui bastava fondare positivamente il concetto, che ogni oggetto, reale o irreale secondo le posteriori valutazioni del pensiero, esiste sensibilmente, è rappresentato sempre da un'esistenza, che non implica una causalità spirituale, ossia creativa e miracolosa. (10) Non si confonda più la soggettività pratica del sentire colla presunta soggettività teoretica, per es. d'un errore conoscitivo (come quando si apprezza storto un bastone immerso nell'acqua, che al tatto è diritto), perchè qui "soggettivo" riguarda soltanto il rapporto sensitivo e le particolari contingenze fra sensibili, non i fini soggettivi e i valori che per quel rapporto se ne posson derivare. (11) Dire, con lo Herbart, che il sentimento non è che un'idea confusa, precosciente, organica insomma, ossia che non è che la sensazione sentita, include un errore intellettualistico, del credere che un'idea esista in sè e non sia invece la possibilità teoretica e pratica d'una sensazione, il suo potere rappresentativo; ma è giusto nel senso che tutti i sentimenti, in fondo, sono come tali di contenuto corporeo, sono il corpo che sente, anche se sente i valori detti spirituali. (12) Gli stessi sentimenti sono dei sensibili in quanto organici, rappresentativi dell'io concreto, della realtà naturale dell'io. (13) Prendo dunque questo nome, non nel senso d'una particolare corrente, ma per alludere a tutto l'atteggiamento della filosofia contemporanea, dai prammatisti americani alla "filosofia dei valori" germanica, in quanto afferma che il conoscere teoretico non è che un modo e un mezzo dell'attività e, infine, del volere. (14) Analogamente, la geometria euclidea è vera in sè (logica) e anche reale, perchè costruisce delle sintesi a priori su l'analisi intuitiva; la geometria non euclidea può esser vera in sè, come pensabile, ma è irreale, almeno fin che non se ne possa dedurre un rapporto che sia valido per le contiguità spaziotemporali dei sensibili. (15) Cfr. lo studio citato "Il pensiero come attività estetica e l'Introduzione kantiana alla Cr. d. Giud.". (16) È per analogia, ossia per poterne parlare obiettivamente, che noi attribuiamo la libertà a un'"anima"; e analogico è tutto lo spiritualismo, che si riduce a un materialismo rovesciato. Su questa contraddizione nei valori si fonda la critica alla metafisica prekantiana. Eppure vi si ritorna ogni giorno, come se Kant non fosse stato! (17) Come il volontarismo, da Schopenhauer a Nietzche, interpreta il Kant pratico. Lo smembramento è la conseguenza del dualismo ancora insito nella filosofia kantiana. (18) Perciò l'individualismo etico e politico kantiano si rovescia nello storicismo e nello statualismo hegeliano; il valore etico si universalizza (e quindi si attua come "spirito oggettivo"), non in quanto è utopia individuale od opinione di un libero pensiero, ma in quanto si realizza nella coscienza sociale e si attua in istituti positivi che superano l'individuo, dalla famiglia allo Stato etico. (19) Basta invece innestare l'hegelismo sul vecchio tronco del realismo ontologico per vederne sbocciare l'esigenza della prova estetica. - Alludo, per es., al discorso sul Bello del Gioberti: l'idea produce il divenire (e così, ciò ch'è razionale è reale); pertanto, cosmicamente, Dio produce il mondo sensibile; ma, nella nostra esperienza, il fare umano prende l'aspetto dell'arte, realizzando sensibilmente l'idea. (20) Mi sembra doveroso accennare, almeno in nota, all'unico autore italiano che si propone un'estetica antiromantica, tanto più che le sue critiche al romanticismo spesso coincidono con le mie. Adriano Tilgher, nella sua "Estetica", quasi contemporanea alla "Filosofia dell'Arte" del Gentile, come già da tempo, gli acuti psicologi francesi che si occupano dell'arte, porta dei formidabili argomenti di fatto contro le tesi romantiche. L'arte non è vita; nè ha bisogno di nascere dalla vita vissuta, nè questa, finchè è vita vissuta, genera l'arte. Non solo l'analisi psicologica, ma la testimonianza di artisti e letterati, dal Flaubert al Valéry, è lì a dimostrare quanto fosse giusto il paradosso di Diderot, che l'artista non ha punto bisogno di provare i sentimenti che rappresenta, e che anzi la realtà di questi nuocerebbe all'opera d'arte. La forma, artistica non è spontanea e immediata espressione d'un sentimento, ma è ricerca spesso lenta e faticosa in cui è impegnato tutto il pensiero. "Si pensa con la penna in mano", diceva Fichte; ma questo vale anche per il letterato, come per ogni arte se alla penna sostituiamo il pennello o lo scalpello. La vita vissuta è sentimento rivolto ai fini pratici, che perciò cerca il piacere in qualcosa che ancora non è, in qualcosa che lo trascende (giustissimo!). L'esperienza estetica è invece sufficiente a sè stessa, si appaga in quello che è, anche se ha per contenuto il dolore. Anzi, aggiunge il Tilgher, tutta la vita può passare nell'arte, divenendo contenuto artistico, proprio a condizione che l'arte non sia vita. E, aveva detto prima, tutto può divenir arte, perfino l'utilità d'un oggetto (nelle cosiddette arti applicate), se diviene motivo ispiratore. Un'interna autocritica guida sempre la mano dell'artista in quest'opera di costruzione e di pensiero, ai limiti estremi della quale troviamo, da una parte l'arte "spontanea" fanciullesca e popolare, ancor inconscia; dall'altra, "l'arte per l'arte", l'estetismo decadente nell'artificio tecnico. In una parola, dice giustamente il Tilgher, l'arte non è solo romanticismo e spontaneità, è anche, e anch'oggi tende a ritornare, classicismo e costruzione. Questi ed altri incisivi rilievi conducono il Tilgher a sciogliere il "nodo" dantesco del rapporto fra arte e vita, ossia fra arte e sentimento, in quest'altra formula: l'arte è "amore della vita". Quando una vibrazione di vita fa di sè l'oggetto del suo amore, diviene arte. Non è necessario che un artista provi un dato sentimento, che Shakespeare soffra l'avidità di Schylock o il dubbio d'Amleto; un dolore piace esteticamente quando non ne partecipiamo il fine esterno e lo penetriamo in sè, semplicemente, vagheggiandolo, per così dire, come quel dolore. Il canto di Saffo non esprime l'amore di Saffo (come intenderebbe il romanticismo): "è" questo amore amato come sentimento (e morto come vita pratica). Però, la soluzione del Tilgher, per quanto abbiamo cercato di renderla evidente con gli esempi, o rimane nel vago di un "amor vitae" mille volte affermato e non mai ben definito. o non s'allontana da quel soggettivismo dell'estetica romantica ch'egli voleva superare. Se l'"amor vitae" è amore nel senso di desiderio che si pone un fine, che va ad un oggetto, l'arte sarà quella vita, quel sentimento, quel desiderio che desidera esser quello che è, ossia vita: ma in che cosa questa vita dell'arte è arte e non è solo vita e sentimento? Se poi amare significa, come altre volte sembra, oggettivare un sentimento, una "vibrazione di vita", o magari, giustamente, tutta la vita nostra ed altrui, reale o immaginaria, noi e il mondo, allora si tratta appunto di quella "contemplazione" serena in cui tanta parte del romanticismo fa consister l'estetico, perciò appunto destinato a liberarci dalla vita pratica. Nel primo caso l'"amor vitae" del Tilgher non è che lo stesso "amore", lo stesso soggetto puro di cui parla il Gentile: nel secondo caso siamo più vicini a Schopenhauer, ma non ci allontaniamo dal romanticismo. E tant'è vero che il Tilgher non s'allontana dalla corrente di pensiero a cui intendeva opporsi, che egli asserisce l'identità perfetta della personalità morale dell'artista col valore della sua arte; su questa corrispondenza crede anzi di poter stabilire la gerarchia delle opere d'arte: il grande artista coincide con l'uomo grande, che ha molta esperienza di vita, e la bellezza non è che moralità. Se il Tilgher, come il Gentile, riguarda l'amore come principio, indipendente dai fini pratici, ciò non toglie che questo sia l'unico principio tanto della vita morale quanto di quella artistica. E anche per il Tilgher l'espressione, in quanto espressione estetica, è spontaneità e immediatezza, pur se tutto lo spirito sia impegnato a raggiunger tale sincerità, ad aiutarla a penetrare la vera vita del sentimento. Del resto, nessuno aveva mai detto che uno che gema d'un qualche dolore faccia dell'arte: anche la spontaneità romantica, è sempre la spontaneità dell'arte, non quella della vita. Anche per i romantici, l'artista possiede il suo dolore, non n'è posseduto. Il problema da risolvere non stava dunque nella psicologia dell'artista di fronte all'uomo comune, ma proprio nel criterio artistico, per cui un'opera, d'arte, per quanto prodotto della vita, non sia vita ma arte. Questo problema, a mio avviso, non si risolve con la psicologia, ma, come tutti i problemi del valore, con una critica fatta stando dentro il valore, senza perderlo per correr dietro a' suoi contenuti. Fin che indagheremo quali sian i contenuti dell'arte - l'ispirazione o contenuto soggettivo (sentimento, lirismo romantico), e il "motivo" oppure il "tema", contenuti oggettivi del classicismo - invece di fermare l'attenzione sulla forma sensibile ch'è l'essenza dell'arte in quanto arte, resteremo sempre alla soglia dell'estetica. Non è il rapporto fra vita e arte che importi all'estetica: è il rapporto tra forma e contenuto. Tra i contenuti ci può essere o non essere la vita, proprio perchè tutto può ispirare e fornire rappresentazioni all'artista, lo spirito come la natura, il reale logico come l'ideale morale; e l'arte tutto simboleggia e potenzia magicamente. Ma in che sta questa "magia" se non nella forma sensibile? Di un poeta, poco m'importa la poeticità o eticità, m'importa la poesia. Il problema estetico riguarda dunque la tecnica: qui è la vera opposizione al romanticismo ancor in auge, che nell'arte ignora ciò ch'è proprio quell'arte: il modo di sensibilizzare l'idea nella realtà sensibile. Può darsi benissimo che il soggetto artistico sia l'"amor vitae" del Tilgher: questo amor di vita non diverrà mai arte se non giunga l'istante in cui si traduca, per artificio tecnico, in realtà sensibile, fatta di suoni luci colori parole ecc., e in questo, solamente in questo, apprezzabile come bella o brutta. Proprio perchè l'arte si attua sensibilmente, l'arte supera la natura e l'opera d'arte supera l'artista! (21) Per una migliore comprensione della nostra critica, ecco l'intera pagina, chiave di vòlta di tutta l'estetica kantiana, e che del resto segna il più gran passo oltre l'intellettualismo del Baumgarten, il quale intendeva l'estetico come una conoscenza inferiore, una ragione indistinta. "Quando si tratta di giudicare se un oggetto è bello, non si domanda se a me o ad altri interessi o solo possa interessare la sua esistenza, ma come lo giudichiamo al solo guardarlo, per intuizione o contemplazione. Se mi chiedete se trovo bello quel palazzone là davanti, potrei anche rispondere che non mi piacciono queste cose fatte sol per meravigliare, o come quel capo irocchese a Parigi che preferiva le gargotte a tutto; oppur anche potrei, alla maniera di Rousseau, prender l'occasione per inveire contro il fasto dei grandi che spendono il sudore dei popoli in cose tanto inutili; concludendo infine che, se mi trovassi in un'isola deserta fuori d'ogni umana convivenza e potessi col mio solo desiderio far sorgere per incanto un palazzo consimile, non me ne darei la pena, bastandomi una comoda capanna: e voi forse mi concedereste tutto ciò e m'approvereste. Ma non di questo si trattava! Si voleva invece sapere se, per quanto io resti indifferente a ciò che quel palazzo è, la semplice sua rappresentazione sia accompagnata in me dal piacere. Si comprende subito che, per dire che un oggetto è bello e per provare che io ho del gusto, bisogna considerare ciò che la sua rappresentazione produce in me, e non ciò in cui io possa dipendere dall'esistenza dell'oggetto. Quel giudizio sul bello a cui si mescoli un altro interesse non è un giudizio estetico, ma un giudizio parziale: per giudicare in fatto di gusto bisogna, nonchè esser minimamente interessato all'esistenza d'un oggetto, restarvi al tutto indifferente". (22) Misticismo e nominalismo sono complementari negli occamisti, e si risolvono nell'ammissione antifilosofica di una "doppia verità". (23) Il disprezzo kantiano per i sensibili più organici, creduti inestetici perchè corporei, non è teoretico ma etico, associandosi le forme più alte del bello ai valori morali. Molti rifiuteranno l'esteticità del buongustaio o della signora elegante e la negheranno alle morbidezze del tatto e alle armonie di profumi o di sapori alla Huysmann, perchè "materialiste". Ma qui si cerca il puro estetico, poi ritorneremo all'unità dei valori: c'è un bello puramente sensibile, come c'è un'arte puramente decorativa (la bellezza "libera" o soltanto "aderente" del Kant); e da questo puro valore sensibile deve partire l'estetica teoretica. (24) Riprova: se un ingegnere edifica una casa col solo criterio dell'utile, questa casa, avendo una forma, che in tempi di architettura "razionale" può anche piacere esteticamente, farà passare quell'ingegnere per un architetto... Viceversa, l'artista "razionalista" può cercare una forma così semplice nuda e aderente all'utile, da far sì che il contemplante non se n'accorga esteticamente e rivolga tutta la sua ammirazione a quell'utilità, ch'è merito dell'arte aver espresso visibilmente. (25) Riprova: infatti i grandi monumenti, le opere definitive, i capolavori dell'arte, ritornano (come fu osservato) ad essere come le bellezze della natura, come le montagne e i grandi paesaggi; e basta obliare ch'è opera umana perchè la bellezza artistica apparisca un'espressione della natura o di Dio. (26) E certamente, se per soggettività intendiamo la subiettività, la relatività a me d'un giudizio, io rincarerei ancora la dose: il giudizio estetico è il più fallace contingente volubile dei giudizi, e niuno più di questo è pronto a mutare con gli anni, con l'ambiente, con le circostanze di fatto, con la cultura. Riguardo all'arte noi siamo soggetti a tutti gli "idola" baconiani assai più che riguardo alla scienza. Tutta la nostra vita affettiva entra e si mescola nel giudizio estetico conformandolo a esigenze e sentimenti pratici: un'antipatica Teresa ci fa parer brutto il suo nome; se un romanziere ci parla di persone e cose che trovino rispondenza nella nostra vita, egli per qualche tempo diventa il nostro preferito; nell'adolescenza, per es., pur essendo vivo il senso d'arte, così strettamente connesso alla vita sensuale, incertissimo è il giudizio estetico: nove volte su dieci il giovinetto erra, non foss'altro per eccesso e per difetto dovuti alla suggestione di certi contenuti affettivi della forma artistica. Ma più d'ogni altro subiettivo e parziale è quasi sempre il criterio degli artisti medesimi, legati alla propria arte e ciechi su quella degli altri. Non basta. Oggi ci meravigliano e ci deludono i giudizi dati da artisti e da critici pure grandissimi (da Leonardo a Goethe!) nei loro scritti, ne' lor viaggi, nelle loro lettere; come ci stupisce la freddezza con cui venner accolti, mettiamo, i "Sepolcri" o i "Promessi sposi" (per es., questi, da un Leopardi!); o le alterne vicende della "Divina Commedia" ne' vari secoli. E se da una parte il giudizio estetico ne apparisce individualissimo e capricciosamente subiettivo, dall'altra ci appar influenzato dalle abitudini, dalle opinioni correnti, e non soltanto la fama, ma anche la gloria, dovute ad un consenso che si forma, rapidamente o lentamente, per ragioni occasionali o sociali che reagiscono sul giudizio soggettivo e che, per gran parte, creano esse il merito di un'opera d'arte. Il gusto muta, non solo perchè interpreta riassume e simboleggia i tempi - il che sarebbe il suo natural divenire, la storia del gusto estetico in quanto tale -, ma anche, visibilmente, perchè i tempi, le opinioni correnti e lo stesso tenor di vita reagiscon sopra di esso influenzandolo per circostanze estrinseche. Perfino la qualità dell'interesse estetico e il modo di giudicar l'arte cangiano nei tempi come negli uomini come nelle classi e negli ambienti. Ora l'estetico non è che un diletto e uno svago, un ozio concesso alle ore di riposo, ora è una profonda esigenza che informa di sè e dirige anche la vita pratica e religiosa; ora il giudizio riguarda la capacità e abilità dell'artista, la sua bravura e il suo virtuosismo, oppure la sua originalità, ora invece l'opera, spesso anonima, spesso collettiva, vale per sè; o gli autori trattano e si trasmettono gli stessi contenuti. Inoltre, nel gusto si determinano dei circoli chiusi, non solo di scuole e correnti, ma anche dei generi d'arte, per cui, mettiamo, il letterato o l'amico delle lettere è spesso sordo alla musica e cieco alla pittura e non apprezza queste arti che in una mentale traduzione in letteratura. Ancora. Nel giudicare un'opera d'arte, o ci mettiamo in una posizione, per così dire, passiva, attendendo che il valore si riveli al suo solo aspetto, e in tal caso mille contingenze posson ugualmente far variare il nostro giudizio sulla stessa opera, come per es. l'interpretazione (esecuzione musicale, recitazione ecc.) o la traduzione o la riproduzione che ce ne vengon fornite; o anche la semplice collocazione e qualunque altra causa puramente occasionale. Oppure andiamo incontro attivamente all'impressione artistica, e allora infinite ragioni subiettive culturali e ideologiche s'affollano a forzare il giudizio su quell'opera, che un intenditore tecnico valuterà ben diversamente da un dilettante, e la prima volta diversamente da una seconda. Del pari, un rudere di colonna, un frammento di poesia che ci giunga dal silenzio dei secoli, noi li giudichiamo secondo una fantasia e una ricostruzione tutta nostra. Del pari, le scorrettezze di artisti primitivi o gli sgorbi schematici dei ragazzi, noi volentieri li chiamiamo freschezza e ingenuità perchè tali sono per noi... Sì, queste e mille altre osservazioni su la variabilità del gusto e del criterio estetico autorizzerebbero a concludere che il giudizio estetico sia soggettivo. Ma in tal senso, della relatività, contingenza e quindi mutevolezza di un giudizio e d'una particolare esperienza, soggettivi sono tutti i giudizi, anche storici o morali, a' quali s'addice appunto il "tot capita tot sententiae"; e soggettivo è ogni nostro accadimento in quanto nostro. Si tratta della relatività psicologica e storica d'ogni valore, del modo con cui questo s'attua in concreto e l'universale s'individualizza; ma ciò non toglie, anzi presuppone l'universalità dei valori... E come un singolo giudizio di verità o di bene, quantunque nel fatto relativo a chi lo pronuncia, e psicologicamente e storicamente determinato nella sua contingenza, presuppone tuttavia che ci debban essere un vero e un bene in sè necessari, condizione a priori della validità d'un tal giudizio, così, se io dico che la tal cosa od opera è bella, o ch'è più bella di un'altra, giusto o errato che sia il mio giudizio, esso è possibile alla sola condizione che esista un bello (o almeno possa esistere); e sta appunto alla filosofia estetica definire questo valore in sè, anche se nel detto giudizio si relativizzi al mio modo di sentirlo e d'apprezzarlo. (27) Per es. l'ultima opera attribuita a Leonardo, la testa del Battista al Louvre, mostra esagerati tutti i caratteri leonardeschi: lo sfumato divien tenebroso, il tipo angelico divien bolsamente androgino, il famoso sorriso della Gioconda e della S. Anna è un'equivoca smorfia delle labbra curve in su, il gesto del dito di Tomaso nel Cenacelo qui è puramente retorico, e si aggiungon simboli religiosi ripugnanti al fine gusto del maestro (cfr. infatti la Vergine della Grotta al Louvre con la copia di Londra). Tutte queste esagerazioni farebbero concludere che si tratti di opera d'un alunno (lo stesso del Bacco, pure al Louvre) o di opera senile: ma il cattivo gusto dei letterati in fatto d'arte vi ha trovato un Leonardo più ambiguo, più arcano, più conforme al mito letterario da loro inventato, imponendosi anche alla critica artistica, che non sa rinunciare all'autenticità di questo pezzo. (28) Infatti si può, come diceva Orazio, dar nuova forma a un contenuto imitato. E per Aristotele il problema verteva appunto sul modo in cui l'arte imita la realtà (e il dramma imita la storia) per ottenere il "tipico" e il "verisimile" proprio dell'universalità dell'estetico. (29) "Natura ed Arte" in Riv. di Filos. A. XXI. N. 3. (1930). Per queste idee su l'arte, che qui è argomento sussidiario, cfr. anche "Novecentismo" in Glossa Perenne A. unico N. 2. (Bologna 1929). (30) Da ciò discende un interessante corollario. Le arti dette minori, perchè commercializzate e applicate all'industria, avendo il solo fine di ornare e di creare oggetti belli, son esse proprio le arti più "belle", che piacciono per la sola forma. Il vero artista originale arriccia il naso (per ragioni morali) davanti a una ceramica o a un vetro che oggi, p. es., presènti lo stile di un De Chirico (il sintetismo delle sue teste ovali, il surrealismo delle sue composizioni, i suoi "cavallucci" vaghi su sfondi silenziosi, ecc.) facendone una "maniera"; ma il profano, al contrario, farà le boccacce davanti a De Chirico e troverà delizioso il ninnolo divenuto pura bellezza formale. Esteticamente, ha ragione lui. (31) Dobbiamo ancora spiegarci su l'uso dei vocaboli? Noi chiamiamo "mondo" il concetto di sostanze e cause dei sensibili rappresentate da questi come indipendenti da noi: e questo "noi" è qui una parola che a sua volta rappresenta l'io pratico, il volere e non l'esistere. Chiamiamo poi "vita" il concetto sui medesimi sensibili in quanto dipendenti da noi; ma questo secondo "noi" è invece una parte del mondo, l'organismo come costituzione (sostanza) e funzione (causa) corporea e insomma l'essere dell'io. E chiamiamo infine "natura" l'unità di questi due esseri, il loro reciproco rapporto, l'interdipendenza delle lor azioni e reazioni, e quindi la causa obbiettiva delle sensazioni stesse. Ammesso tal concetto della natura del sensibile - perchè siamo costretti a risalire da questo a quella -, chiamiamo estetico il rapporto di valore immanente alla forma sensibile, coma unità, data (bello di natura) o artificialmente costruita a tal fine (arte), nella quale unità si attua a posteriori quell'altro, supposto, rapporto causale: ma si comprende che l'estetico non appartiene al concetto di natura ma alle esistenze che ce lo rappresentano logicamente mentre nel contempo si presentano esteticamente. Perciò la natura, in arte, diventa una finalità come lo spirito, un contenuto. (32) Sempre nell'estensione che diamo noi a questo termine, implicante qualsiasi rapporto di qualità sensibili (compreso quindi il colore, il volume ecc.) e non soltanto la linea o disegno com'era inteso dagli estetisti d'un tempo. (33) Cercai di dimostrarlo in "Estetica e Neo-linguistica", La Cultura, Vol. V, Fasc. 7. (1926). (34) Chiarii meglio queste idee in Civiltà Moderna, A. III, n. 6 (1931), "Il Fenomeno Joyce". (35) In natura, percepisco solido quel tavolo in quanto, date le due prime dimensioni (forma visiva), mi rappresento la terza (il contenuto, la materia). Se ne prendo una buona immagine fotografica, ecco una nuova forma: ma, in quanto còpia la natura, va ad identificarsi al contenuto rappresentativo: percepisco stereoscopicamente l'immagine del tavolo. Consideriàmo invece. p. es., il formidabile realismo artistico di un Caravaggio: la massiccia solidità, il sentimento della materia e del peso datomi da quel tavolo dipinto di sbieco sotto la luce radente, e in una parola, il valore della sua realtà, incominciano e finiscono qui, nella sua forma stilistica. Non si tratta di percepire un tavolo, chè non m'illudo un solo istante che ci sia un tavolo in quel luogo fuori di me; si tratta di sentirne il peso e il "profondo" (o, in genere, la qualità e il valore) interpretati nella forma, ossia, proprio, veduti. (36) Chiamo così questo secondo momento che si potrebbe anche dire "attualista", in prosecuzione del primo impressionismo (che si diceva "intuizionista"): si tratta dei due criteri paralleli ai due momenti dell'arte che da un neo romanticismo impressionista s'è andata volgendo ad un neo classicismo espressionista. Fra le opere più intelligenti e rappresentative, cui in queste pagine alludiamo, cito "Il Gusto dei Primitivi" di Leonello Venturi e "Saper vedere" di Matteo Marangoni. (37) La "deformazione" artistica si riduce a un'immagine "fantastica". Ebbene? non si può confondere la immaginazione psicologica con la fantasia artistica proprio per la concretezza di questa. Per es. non si può confondere il giuoco, per cui un bimbo immagina d'andare a cavallo avendo fra le gambe il manico della scopa, con la fantasia dell'artista che, per quanto voglia darci forme e figure immaginarie, le deve comporre, realizzare. (Quel parallelo fra giuoco e arte è stato possibile sol pensando alla letteratura, dove, come diremo, l'unità di forma e contenuto avviene per "accordo" nell'immagine, invece che per identificazione sensibile). (38) Il malinteso criterio che fa contrapporre lo stile come espressione dell'arte in quanto subiettiva, alla forma estetica reputata obbiettiva e imitativa, e fa anteporre l'espressività romantica al formalismo classico - invece di unificarli come momenti d'ogni arte e d'ogni artista, che versano l'uno nell'altro, immettendo gli altri valori e finalità umane nel valore estetico - appare più volte nelle discussioni su l'arte dei primitivi; e riaffiora anche a proposito dell'arte contemporanea, che viene, per la sua libertà e deformazione del vero, riaccostata alle espressioni di quei lontani maestri. Oggi infatti l'arte è esclusivamente espressiva delle proprie impressioni. Fu giustappunto l'"impressionismo" che, abbandonando tanto l'edonismo quanto il verismo prima imperanti, in arte come in letteratura aprì una nuova èra d'assoluta libertà artistica, col ritorno ("apparente", conviene il Marangoni!) alla semplicità e immediatezza di mezzi dei primitivi. Però, il parallelo è sol in parte accettabile. Troppo lungo sarebbe approfondire; qui osserviamo soltanto che - a parte il fatto, che un primitivismo voluto e consapevole sarebbe una "maniera" come quella degli odiati classicisti - mai come oggi l'arte fu spoglia di misticismo romantico, d'ideologie e perfin di concetti (tre pesci appesi per la coda valgono per un pittore odierno quanto la Sacra Famiglia); mai come oggi, la sincerità, e l'onestà dell'artista son poste nello sdegno delle idealizzazioni e amplificazioni e nell'ardente brama del nudo vero. L'"impressionismo", da cui discende questo "espressionismo", non fu, secondo me, che un contingentismo (in accordo con tutto lo spirito dei tempi) e divenne a dirittura sensismo, da Rénoir a Verlaine ed a Proust. Scontento delle forme fisse ed esteriori del precedente realismo, polverizzò il reale penetrandolo ne' suoi elementi sensibili, e di queste sensazioni ricompose le sue forme, il suo stile: l'atmosfera coloristica del "plein air", la pennellata dei macchiaiuoli, la vibrazione cromatica del divisionismo in pittura come in musica (Debussy), lo "sfocato" perfino in scultura (Medardo Rosso), ecc. ecc. Di conseguenza, mai come oggi l'arte cercò unicamente e affannosamente la forma corrispondente al suo immediatismo (ma non immediata!), non avendo altro fine che l'arte, l'espressività del mezzo adoperato. Si dovrebbe dunque dire piuttosto che oggi l'arte non è che ansiosa, commovente ricerca di una forma più "vera"; e che quando la raggiunge (cito fra i nostri migliori l'Andreotti e il Carena), il nuovo romanticismo rifiorisce di tutte le classiche grazie! (39) Siamo pertanto ben lontani dall'escludere dall'arte il realismo (di cui il "verismo" non fu che il momento corrispondente al positivismo); tanto meno dalle arti figurative che sono perciò orientate verso l'oggettività della figura, salvo a darle un significato allegorico (che le diminuisce) e in tal senso ideale. Masaccio o Caravaggio furon potenti realisti: chiamarli ora idealisti perchè usano uno stile fortemente caustico e sintetico, è uno spostare il problema dal valore estetico alla causalità psicologica; come, per opposto errore, si chiama idealista quel naturalismo, proprio in particolare della letteratura (il romanzo), che prende a contenuti i sentimenti e la vita umana. (40) Nè credo necessaria per meglio spiegare di ricorrere al "dasein" dello Heidegger e a tutto lo schematismo eidetico e tipologico che aduggia l'odierna filosofia tedesca, dallo Husserl allo Spranger. Esso però è un sintomo significativo dell'esigenza di definire i valori come valori formali e attuali al tempo stesso, indipendentemente dalle rappresentazioni trascendenti la forma del loro esistere, delle quali li spoglia appunto la "epochè" o riduzione fenomenologica dello Husserl. (41) La "naturalezza" subiettiva e obiettiva di un'espressione sarà, già lo dicemmo, una conseguenza e non una premessa dell'arte, una forma e non un contenuto. Al sommo del buon gusto, il mezzo estetico si fa così semplice e trasparente da parere natura. A questo punto, la deformazione degli espressivisti, invece che "ingenua" o "fresca" (com'è quella dell'arte dei fanciulli e dei barbari, vista da noi, che in sè è ancor troppo natura), ci appare retorica (fra qualche anno. p. es., i lunghi colli alla Modigliani ci sembreranno quanto mai enfatici e pretenziosi). (42) Per es., oggi è di prammatica, per rivalutare i caravaggeschi, dir corna dei Carraci, come se Lodovico non fosse l'autore della Madonna con Putto e Santi della pinacoteca di Bologna, e Agostino della Comunione di S. Gerolamo; e come se Annibale, a palazzo Farnese, non aprisse la schiera di quei fastosi decoratori, che dal Cortonese e da Luca Giordano giungeranno fino al Tiepolo, gioia degli occhi, bellezza della vita? Del resto, la protesta ascetica contro il bello, se è artistica (e non soltanto moralista), metterà sempre capo a un nuovo estetismo, inevitabilmente: la storia del prerafaelismo insegni. (43) Nella musica, il canto è infatti canto e non soltanto musica. Esso vi pòrta sempre quell'accento umano insostituibile con lo strumento, ossia con l'intensità del timbro. Quei musicisti che se ne dimenticano e che adoperano il canto come un semplice strumento (p, es. Beethoven nella Nona e nella Missa solemnis) producono perciò un effetto sgradevole (come d'incompiutezza e insoddisfazione) sugli orecchi esercitati. I cantanti stessi senton benissimo se la musica è fatta per il canto (come in Verdi, sensibilissimo al valore umano del canto), nel qual caso si "sentono portare" dalle note, o se viceversa il canto è conformato a musica (come in Wagner, che col recitativo cantato voleva "illustrare" musicalmente i contenuti poetici). (44) Pertanto è superficiale il dire, p. es., che oggi non c'è più poesia, che siamo in tempi di prosa. In letteratura, s'è già detto, non c'è la prosa da una parte e la poesia dall'altra: la letteratura aspira alla poesia come alla sua "arte", alla sua forma. Si chiama prosa quella che corrisponde a un contenuto più reale, a un'ispirazione più obbiettiva; ma se la prosa fosse soltanto realtà e obbiettività, non sarebbe più nemmen letteratura, non sarebbe più arte. Ora, a mio modesto avviso, quel che distingue la nuova dalla vecchia letteratura, ossia la vecchia dalla nuova poesia, sta in ciò: prima, la poesia, per così dire, discendeva alla prosa; anche se si doveva fare il conto della serva, o scriver una lettera d'affari, si rivestivan d'un certo paludamento poetico, di sonorità esteriori, di "bello eloquio" che nobilitasse il più povero dei contenuti. Lo storico, il giurista, il naturalista, quando si mettevan a scrivere, gonfiavan le gote al bel periodare, ch'era poi il modo di poetizzare la loro materia nel senso d'una bellezza aderente e ornamentale, sopra detto "idealistico". Oggi invece la letteratura deve percorrere il cammino inverso, e salire dalla prosa alla poesia. Oggi, è vero, sentiamo più realisticamente, più direttamente; non ci piaccion più gli svolazzi e gli adornamenti superflui. Un giovanotto di buon senso non dichiarerebbe più il suo amore a una fanciulla costringendolo in un madrigale, e la rispettiva fanciulla (questo stesso nome ci sembra lezioso, "fanciulla!") non gli risponderebbe più coi "cieli azzurri" delle nostre care mamme. Una casa, vogliamo che sia una casa nelle nude linee corrispondenti alla sua utilità; una musica, preferiamo ch'esprima quel che deve senza "variazioni", "a capo", fronzoli vocalizzi e code. Ciò nondimeno, un'architettura moderna è architettura, una musica moderna è musica. Se realistica è l'odierna visione della vita, la realtà, l'esperienza, il contingente, il "fatto" ci posson ispirare non meno di quanto lo potessero la fantasia, l'immaginazione poetica del romanticismo: e quella ispirazione è ancora poesia. C'è un'ispirazione realistica più rovente d'ogni "idealismo", c'è un'ansia di vita, un amore del vero, una disperazione dell'inevitabile, un rovellio di sentimenti e passioni reali altrettanto profondi ardenti e dunque liricizzabili, quanto lo furon gli slanci trascendentali verso un mondo di divinità poste nell'azzurro che rapidamente s'oscura. Questa prosa del contenuto cercherà la sua forma, cercherà la sua poesia. È quello che sta avvenendo. Gli schemi metrici, le equilibrate dolci armonie della poetica romantica non servono più ad esprimere l'immediatezza della nuova ispirazione. Allora, ecco i tentativi di rompere le forme, di liberar le parole, di saltare il mezzo tecnico (ma pur sempre tecnica anche questa!) per raggiunger più direttamente i contenuti, per esprimer più direttamente i sentimenti. L'odierno frammentarismo è come la foga d'una pennellata che con immediatezza più o men felice férmi sulla tela la gioia di far cantare la stessa materia coloristica. L'odierna prosa, nervosa, irrequieta, è già, appunto per la sua freschezza, poesia, la nuova poesia. L'indifferentismo, il pessimismo, la psicanalisi della letteratura contemporanea portan in sè una disperata rude poesia, che sceglie le sue forme rapide, senza incisi e senza virgole, adeguate al suo freddo dolore, al suo altiero disprezzo dei conforti del mito. Se mi chiedete dove sia la "poesia poetica" la letteratura in versi, l'immagine evocata dal suono, rispondo che la troverete se riuscirete a liberarvi del preconcetto, che i "versi", le forme poetiche, siano soltanto i vecchi metri. Oggi è la prosa che risale verso la poesia; e vi s'avvia a traverso travagli e tentativi, or grotteschi e pietosi (come sempre, quando non si tratta di poeti, ma di poveri disgraziati che allineano parole in libertà e le intitolano versi), ora degni della più alta attenzione e simpatia umana, perchè apron la strada a più moderne forme poetiche. (45) La contemplazione è pensiero che, come ogni modo dell'attenzione (in cui sta, psicologicamente, il pensiero), sospende (inibisce) la praticità o libertà del valore per unificarsi con la presenza o contingenza dell'essere. Infatti il Kant, sul noto esempio della gocciolina inclusa in un cristallo, fece della contemplazione estetica la condizione psicologica della riflessione conoscitiva. L'attenzione vien prima attratta passivamente dal valore sensibile per poi rivolgersi attivamente alla sua spiegazione razionale. Il "disinteresse" estetico - proprio perchè è un interesse portato all'esistere invece che al dover essere dell'io pratico - condiziona dunque, per intanto, l'obbiettività e universalità dei concetti. E quando poi la conoscenza, cangiando in contenuto la forma estetica, la supera nei concetti puri (meditazione filosofica sulla contemplazione del mondo), che altro "fa" se non costruir nuove forme, attuare i valori assoluti in una forma che li esprime, e che convince-logicamente se persuade anche esteticamente (letterariamente)? ... FINE.